“Montefumo”. Dopo la tempesta, Cristo vincerà!

C’è un libro che è ingiustamente passato inosservato, anche all’interno del mondo cattolico: “Montefumo” di Jacopo da Nonantola (Cantagalli, 2012), nome de plume dietro cui si cela un noto giornalista e scrittore.
Questo agile romanzo, oltre ad essere molto godibile dal punto di vista stilistico, è assai interessante sotto il profilo contenutistico, in quanto presenta in maniera lucida e mai banale le problematiche di divisione che affliggono la Chiesa odierna, soprattutto a seguito del Concilio Vaticano II. Divisioni che minano l’unità della Chiesa e che si sono insinuate anche all’interno del corpo ecclesiale, come papa Benedetto XVI ha recentemente sottolineato nel corso dell’omelia pronunciata in occasione della Santa Messa celebrata per il Mercoledì delle Ceneri.

Montefumo è un piccolo paesino dove ha sede un ex convento settecentesco, che alla vigilia della seconda guerra mondiale era stato ceduto dai frati alla diocesi. Qui, nella ricca biblioteca, lavora Isaia Gandolfi: un uomo entrato in convento all’età di quindici anni, nel 1935, per compiere gli studi, che aveva poi maturato la decisione di non consacrarsi, bensì di spendere la propria vita in mezzo ai libri.
Ebbene, quando sul finire degli anni Sessanta arriva a Montefumo don Alcide – «per favore, chiamatemi solo Alcide» (p. 9) –, con le sue istanze moderniste conformi al motto «Lavoriamo per la Chiesa rinnovata» (p. 10), Isaia percepisce di essere di fronte ad un momento assai grave per la storia della Chiesa e decide di documentare la “rivoluzione” in atto in tre grandi registri.Nel 2010 Isaia ha reso l’anima al Signore, ma alcune persone sono riuscite a salvare alcune pagine dei suoi registri che, riunite, concorrono a formare la trama di “Montefumo”.

Veniamo così a dare qualche breve assaggio della trama. Negli anni 2000, a Montefumo si trovano a convivere diversi sacerdoti, di età differenti e con idee molto divergenti riguardo la Fede. E già questo fa pensare…
Il modernista don Gualtiero, per esempio, apostrofa quotidianamente don Leo – il quale è solito indossare l’abito talare – con la frase: «Dove vai anima bella, svolazzando la gonnella» (p. 16); lo stesso Gualtiero che, in seminario, negli anni Sessanta, aveva appeso in aula un cartello con la scritta: «Metti il latino in soffitta / con San Tommaso che è aria fritta» (p. 46).
Le conseguenze di una Fede “fai da te” determinano, nei sacerdoti maggiormente pronti a “rinnovarsi”, una dissoluzione nei comportamenti e nel modo di vestire, la perdita del valore dello studio e della preghiera, e giungono perfino a provocare una totale ignoranza nei confronti della liturgia e di tutto quando è ad essa correlato.
Ed è così che la Santa Messa smette di essere sacrificio per diventare un testamento, con i preti impegnati nel ruolo di intrattenitori-superstar al posto del vero Protagonista; così come si è persa l’universalità del rito: al giorno d’oggi, posto che vai, Messa che trovi. In linea con questa perdita di significato, i funerali diventano spesso l’occasione per fare un panegirico del defunto, anziché per ricordare ai fedeli la verità circa l’esistenza dell’Inferno e la necessità di convertirsi a Dio. Oppure, ancora, sacerdoti che dismettono i paramenti sacri, ignorando (o volutamente dimenticando) che ogni componente dell’abito ha un suo preciso significato… e gli esempi in tal senso si potrebbero moltiplicare.

Di fronte a tutto questo il povero don Leo non può che constatare che «è per aver rinunciato al passato che tanto clero non ha futuro» (p. 88), così come non lo hanno i fedeli, che non avendo più nessuno che li guidasse al Mistero hanno sempre più smesso di frequentare la chiesa.
Questa situazione avrà tuttavia prima o poi termine: «bisogna aspettare, pregando. Aspettare pazientemente che tanti cardinali, vescovi e preti smarriti passino a miglior vita, concimando la terra che hanno riarso. E i giovani riscoprano il cristianesimo di Cristo, come esploratori di catacombe, e i papi si riapproprino del potere edificante concesso a Pietro. Tra un secolo, probabilmente, la cultura avrà fatto tali progressi che l’attuale liturgia dell’ignoranza verrà rifiutata e i credenti, quelli sopravvissuti alla grande abiura, correranno a riacquistare dagli antiquari quei messali che oggi i preti svendono ai rigattieri. Come il monachesimo salvò i libri e la cultura dall’oblio dei secoli bui, così i futuri credenti li salveranno dall’iconoclastia del clero sociologico e laicizzato di oggi» (pp.92-93).

Al giorno d’oggi ci sono due chiese: quella “nuova”, «con meno angeli e più uomini» (p. 133), e quella “di sempre”, che pensa più all’aldilà che all’al di qua.
La Fede, la Speranza e la Carità portano i fedeli – quelli ancora in grado di inginocchiarsi e di abbandonarsi alla Provvidenza – ad essere fiduciosi nel fatto che prima o poi questa divisione si sanerà: «Portae inferi non prevalebunt». Ed è dunque proprio nei momenti più difficili e umanamente inspiegabili che non bisogna disperare, bensì pregare e riporre la propria fiducia nel Signore.

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