Benedetto XVI ha tenuto un importante discorso al clero romano ricordando la sua esperienza al Vaticano II, vissuta in prima persona, come teologo a servizio del Card. Frings.
Il Papa ha evocato l’atmosfera ricca di “entusiasmo” che caratterizzò quel periodo per l’obiettivo di poter “correggere l’inizio sbagliato” che si era instaurato nella relazione tra la Chiesa e il periodo moderno. E fa un riferimento preciso: “l’errore nel caso Galileo”.
Il Beato Giovanni Paolo II, che promosse una commissione apposita per studiare il caso Galilei, al termine dei lavori durati circa 10 anni, non usò la parola “errore”, ma definì tutta la vicenda “una tragica incomprensione reciproca”. Il caso Galilei, in poche parole, ha riguardato un irrigidimento da una parte e dall’altra: il grande scienziato pisano stava scoprendo un metodo assolutamente innovativo nello studio della natura e tendeva a travalicare il campo dei teologi, dall’altra i teologi del Sant’Uffizio non compresero la portata del metodo galileano e si arroccavano su posizioni troppo letterali nell’interpretazione della Bibbia. In mezzo però stava il Card. Bellarmino che nel 1615, con grande acume scientifico, ricordava a Galileo di procedere per ipotesi e non pretendere di dire cose assolute con troppa facilità. Senza voler entrare nelle pieghe del caso Galilei interessa rilevare che la posizione di Bellarmino rappresenta proprio ciò che la scienza moderna ha incarnato per crescere e progredire: si applica a cose contingenti, studiandone aspetti quantitativi e matematizzabili, su cui formula ipotesi e teorie valide fino a prova contraria. In questo ambito, ovviamente, dice cose vere. Fino a prova contraria però.
Purtroppo la modernità ha dimenticato questo piccolo particolare, finendo per fare della scienza l’unica forma di conoscenza, l’unica scala di accesso alla verità. In quella “tragica incomprensione reciproca” si aprì la strada alla successiva morte della metafisica, che vuol dire perdita di cittadinanza dal salotto buono della cultura del discorso sul soprasensibile, ossia riduzione del discorso religioso ad un fatto di serie B, relegato nell’intimità del singolo. Su queste basi quale dialogo è possibile con la modernità?
La Chiesa non può rinunciare al discorso metafisico, alla verità soprasensibile, sarebbe come segare il ramo su cui sta seduta, perché non potrebbe più dar ragione della trascendenza di Dio, ma anche dell’anima umana. Invece, proprio un certo ottimismo conciliare, che sperava di convertire la modernità, ha prodotto, in molti uomini di chiesa, uno strano atteggiamento, per cui si ha l’ansia di farsi accettare proprio da chi rimuove la questione metafisica. E’ un po’ come mettersi a dialogare con chi sta segando il ramo su cui si sta seduti. Si vuol pretendere di piacere a chi è pregiudizialmente ostile al sacro, anzi capita che questi signori si offrono come esempi ai fedeli e li si invita a parlare nelle parrocchie, o negli incontri culturali proposti dalle diocesi. In realtà chi non si apre al soprannaturale può presentare solo un umanesimo privo di speranza, chiuso al trascendente, e al massimo, si contenta di lasciarci sotto due metri di terra, soffoca la legge naturale, ma dà spazio a presunti diritti come, per esempio, quelli che emergono dalla cosiddetta teoria del gender.
Prima della modernità l’uomo sapeva ancora guardare al Cielo, ora tiene lo sguardo fisso su sé stesso, come diceva il Beato Giovanni Paolo II, in un “offuscamento della speranza” Ma, si può vivere senza speranza?
Sono passati 50 anni dal Concilio, la modernità ormai è diventata post-modernità, ma il problema è ancora lì. Come dice Benedetto XVI c’è ancora lavoro da fare, abbandonare una interpretazione politica del Vaticano II per riscoprire non soltanto il vero Concilio, ma la forza straordinaria di un annuncio: il Signore è risorto! (La Voce di Romagna, 16/02/2012)
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