Il tempo, la carne e il sangue

In questi giorni, sulla mia scrivania stanno arrivando molte agende e calendari. Le banche, le assicurazioni, il panificio, le pompe funebri… ciascuno, portandomi gli auguri di Natale, mi consegna il calendario 2012.

Un calendario, segno visibile dell’invisibilità del tempo, in effetti arriva tra le mani in questi giorni febbrili. Natale e l’anno nuovo si intrecciano. E’ come se quel  “Buone Feste” sia una  debole concessione alla distinzione tra due momenti apparentemente non connessi, dimentichi della consequenzialità del secondo dal primo. La Festa non è un plurale, è una.
Il Capodanno dipende dal Natale. Il tempo si conta da quel primo Natale! Il computo del tempo è partito da quando un bambino è stato partorito. La Vergine partorisce un bambino. Quel bambino partorisce il tempo. Non che non ci fosse prima. E’ solo che con quella nascita, come dice efficacemente San Paolo, “è venuta la pienezza del tempo”.

Natale e Capodanno sono un meraviglioso incrocio di carne e di carta. Per carne si intende quella
commovente del Figlio di Dio. Quella preannunziata da un angelo, nel grembo di una casa di Nazareth il cui eco risuona in questi giorni attraverso le luci delle nostre città e delle nostre case: “Concepirai un figlio e lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù”. La carta è quella di ogni calendario, agenda di una vita che ancora non c’è e che pur si spera. Per questo, spesso, la si regala, nelle sue molteplici forme e nelle sue immagini. Quelle griglie e spazi incapaci tuttavia, per quanto ampli, di accogliere l’imprevedibilità della vita, sono, in fondo, il tentativo di dominarla.

Il calendario è la carta dei giorni che saranno. In quel tempo, ancora muto e inesistente, c’è la speranza, c’è la festa nel suo abito rosso, distinto dal più comune dei colori, quello che va sempre di moda, il nero, il colore del giorno e della notte dei giorni feriali.
Ancora non ci sono quei lunedì e quelle domeniche di marzo, neppure il caldo dei mesi di luglio; non c’è ancora il matrimonio di Chiara e Francesco o la nascita di Teresa; non c’è ancora la maturità (anche se già si fanno i conti di dove e quando cadrà); non ci sono ancora gli appuntamenti che segneranno l’intera
vita, in quel calendario dei ricordi fatto di pochissimi giorni.

Ancora non c’è niente di ciò che sarà, o meglio c’è già tutto. Sulla carta dei progetti e dei sogni, delle attese e dei timori, molte date sono già appuntate.
Quando si programma la vita di un anno pastorale, le date del calendario cominciano a riempirsi: Comunioni, cresime, pellegrinaggio, ritiro, settimana mariana… tutto comincia ad essere fissato come se fosse questione di giorni. I giorni attendono un compimento. Attendono continuamente la carne. Un calendario è la speranza che il desiderio prenda corpo, che la carta lasci il posto al sangue e alla carne della vita.

Quando si parla del tempo, si parla, in realtà, di carne e di sangue. Sarà un anno duro, di “lacrime e sangue” come dice qualcuno? Sarà un anno in cui stringere ulteriormente la cinghia alla carne? Sarà un anno di paure e di incertezze, di ingiustizie e delusioni? Non si tratta solo di economia, ma della vita nostra e dei figli, del vivere e delle sue ragioni, dell’amore e delle sue esigenze, del  soffrire e del suo senso, insomma della carne e del sangue di ciascuno di noi.

Mi sono venute in mente alcune parole di Gesù: “Venite a me, voi tutti, affaticati ed oppressi ed io vi ristorerò”. Chi può dirsi non affaticato? La crisi, l’uomo la porta dentro di sé, è parte del suo dramma, del suo vivere… questo lo rende “affaticato ed oppresso”. La crisi non è ora. E’ sempre. Fa rima con le rughe e il perdere delle forze, ha che fare con la perdita del lavoro, ma più ancora con il senso di ciò che si fa; riguarda la sofferenza e la morte, ma più chiaramente la vita, il suo sorgere, le sue lacrime e le sue gioie, il suo termine.

“Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò”.
L’anno si apre, mentre da una grotta ancora promana la luce dell’infinita tenerezza di una madre che guarda il proprio figlio. La carne di un bambino è  la promessa di un cibo che ristora e rinfranca. La carne di quel bambino è carne di speranza per l’anno che nasce! Ci sembra tutto così indefinito, eppure è tutto lì… a Betlemme.

Curiosamente, il nome di questa città, in ebraico, significa “città del pane”. L’anno che inizia ha il sapore del pane, come nel mio paese, a Castel Guelfo, in questo piccolo borgo di campagna, di buon mattino, quando il profumo del pane ha il sapore della vita.
E il pane diventa lievito di letizia. Lo stesso pane azzimo che dentro la Chiesa più vicina , un sacerdote rende “Corpo di Cristo” è lievito di vita, sollievo nella fatica, stupore dello sguardo, sostegno nella responsabilità, Presenza Eccezionale.

La mia vita, la mia carne e il mio sangue hanno bisogno di un “pane quotidiano”, di un corpo e di un calice da cui attingere la gioia del vivere. Il suo senso e la sua forza.

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