“Scavar devo profondo, come chi cerca un tesoro”. Umberto Saba.

Nel 2007 è passato per lo più inosservato, eccetto che tra piccole cerchie di appassionati e di “addetti ai lavori”, il cinquantesimo anniversario della morte di uno dei più grandi poeti italiani, noto alle generazioni di studenti per alcune poesie, sempre quelle, presenti in tutte le antologie. Chi non ricorda La capra e un’altra sua lirica, dedicata all’amatissima moglie Lina, nella quale, per altro, l’autore la paragona, in modo piuttosto singolare, ad una serie di animali domestici: una gravida giovenca (…e passi…), una lunga cagna (…e si rimane perplessi…) e una bianca pollastra (e questo pare, per lo meno, un po’ offensivo). Ma forse nessuno ci ha aiutato ad entrare veramente nel mondo di Umberto Saba, pseudonimo che significa in ebraico “pane” per il vero cognome Poli, nato a Trieste (1883) e appartenente a quella straordinaria generazione di poeti italiani della fine dell’800, tutti degli anni ’80, Gozzano, Ungaretti, Sbarbaro, Corazzini, Papini, Prezzolini, che animarono e fecero la cultura dell’inizio del XX secolo e che attraversarono, non senza conseguenze, la Grande Guerra. La conoscenza della sua ampia produzione, raccolta da lui stesso nel Canzoniere, è ridotta a pochi versi. Sembra sia stato preso alla lettera, quanto lasciò scritto nell’opera Epigrafe:“parlavo vivo ad un popolo di morti. Morto allora rifiuto e chiedo oblio.”

Ma perché interessarsi a Saba, oggi? Già pare impopolare proporre di leggere “la poesia”, …meglio una bella fiction o uno di quei fantasy da 600-700 pagine (tutti figli di Harry Potter), di cui tracimano librerie e supermercati. Perchè gravarsi della fatica di muovere i passi per il sentiero stretto di un linguaggio, quello lirico, che sempre più ci appare lontano dalle urgenze della realtà? Per di più di un autore che è definito, da molti, un uomo triste? Non ne abbiamo a sufficienza dei nostri privati guai quotidiani? La peculiarità di Saba sta nell’aver intessuto un dialogo tenero ed affettuoso con la realtà e il mondo, in aperta polemica con le tendenze dominanti della cultura italiana, che cercavano l’arte nell’estetismo e nella celebrazione e che avevano, secondo lui, infettato la lingua e la parola di menzogna. Partì per un viaggio alla ricerca della parola che desse voce alla vita, che potesse in modo diretto, naturale, “onesto” farsi più vicina alle cose, agli oggetti, ai visi e ai respiri, che sapesse far risorgere, come dal nulla, paesaggi e gesti precisi, attraverso termini non manipolati, ridondanti o carichi di sovrasensi metaforici, ma semplici nella loro ovvietà e perciò familiari e comuni: Amai trite parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore, la più antica difficile del mondo. Solo così l’artigiano del quotidiano”, come il poeta si definì, sarebbe stato in grado di indagare quel mondo che si apriva dentro di sé, portandone in superficie il prezioso segreto: Amai la verità che giace al fondo, quasi un sogno obliato, che il dolore riscopre amica. Con paura il cuore le si accosta, che più non l’abbandona. Nasce, attraverso questa purificazione, che è a un tempo visiva e linguistica, un linguaggio maggiormente evocativo e catartico: parole, dove il cuore dell’uomo si specchiava – nudo e sorpreso – alle origini.

Semplice fu la vita di Umberto Saba (la mia vita pensosa e schiva), dopo studi irregolari ed un periodo prima a Firenze e poi a Bologna, rientrò a Trieste, dove si dedicò all’apertura di una libreria antiquaria, pur essendo in contatto con grandi uomini della cultura italiana (particolare fu il rapporto di amicizia con E. Montale), rimase abbastanza lontano dai clamori della fama, che gli fu riconosciuta solo dopo il secondo conflitto mondiale, durante il quale la sua origine ebraica lo costrinse a fuggire prima in Francia, poi a Roma e Firenze. Gli argomenti, e personaggi, della sua poesia sono tre, come spiega nella sua Storia e cronistoria del Canzoniere (esempio unico di un poeta che spiega tutta la propria raccolta): la donna, la venerata Lina, la città di Trieste con i suoi paesaggi di mare, le vie e viuzze in salita, con il suo cielo azzurro come il primo cielo che Dio inarca sulla terra nuova, e infine il poeta stesso. Trieste,come un ragazzaccio aspro e vorace,/ con gli occhi azzurri e mani troppo grandi/ per regalare un fiore, è lo sfondo e il luogo della consapevolezza. Il poeta sperimenta della vita l’asciutta e cruda pasta, affonda le dita nella terra arida dell’inadeguatezza e dell’impotenza: Parla a lungo con me la mia compagna Di cose tristi, gravi, che sul cuore Pesano come una pietra; viluppo Di mali inestricabile, che alcuna mano, e la mia, non può sciogliere. Mai, però, ne rifiuta la pena secreta o il dolore d’uomo giunto a un confine: alla certezza di non poter soccorrere chi s’ama (Confine). Pare che lui intraveda o solo speri che esista in un attimo un sol che brilla. Ma sa riconoscere che Tutto è bello;/ anche l’uomo e il suo male, anche in me quello/ che m’addolora (Il poeta in Preludi e canzonette), così che, rivolgendosi al proprio cuore dal dolore serrato in una morsa, lo interpella:” Quale angoscia non hai viva abbracciata, vivo restando? ” (Cuore) Si respira nei suoi versi una certezza che rasserena, pur nel patimento, che ritrova la pace coi nemici vinti anche in se stessi: La mia vita è tutta così: così me la dipingo, e lieto per l’aperta finestra guardo l’ora – come dentro una bolla di sapone – ricreare gli alberi le case Costruisce un mondo, anzi ricostruisce un luogo, in cui, in un contesto che appare disperato, è ancora possibile rivendicare uno spazio di bellezza, amore, liberazione dall’angoscia ed oppressione del vivere, in cui, senza negare al fondo un dolore, sia possibile risalire alla creaturalità originale, non il morbido ed ovattato rifugio nella nostalgia dell’età perduta, ma l’aspirazione ad una concreta felicità, che nulla censura.

Una parte della critica ha interpretato come chiavi di lettura della sua opera e della sua vita, il ricordo della fanciullezza non felice e la rievocazione della dimensione infantile, accentuando una sofferenza psichica, che Saba visse, e la successiva scoperta della psicanalisi. In realtà la sua nevrosi tocca il punto vivo dell’autenticità, il nervo scoperto di chi è indagatore del vero, smascherando finzioni e artifici della realtà, restituendola nuda, densa e silenziosa. Questa pacificata accettazione della vita con le sue durezze i suoi pendii e le improvvise svolte non può non interrogare il lettore, che scopre, lungo la strada di Saba, non solo passi autobiografici e personali dell’autore, ma scorge anche scorci della propria esistenza. Sembra che il poeta sia sceso così profondamente in sé, da ritrovare le sensazioni, gli umori, le passioni e i sentimenti dell’uomo in quanto tale. E il verso che scivola così fluido e pieno della vita che racconta, lentamente, ma inesorabilmente attrae con la sua disarmante semplicità e concretezza. Lui stesso ce lo svela nella prima lirica (Lavoro) della raccolta, che intitola, visto il passare del tempo, Ultimissime: Un tempo la mia vita era facile. La terra mi dava fiori frutta in abbondanza. Or dissodo un terreno secco e duro. La vanga urta in pietre, in sterpaglia. Scavar devo profondo, come chi cerca un tesoro. Il coraggio di questa ricerca, “l’avidità di nulla lasciare inesplorato, di tutto sollevare dal buio del sottosuolo alla luce della consapevolezza”(così gli scriverà in una lettera personale Primo Levi), è la peculiarità del suo paziente e silenzioso osservare e riflettere, un inesausto lavoro ed amore alla vita. È la ricerca del vero tra le pieghe dei fatti quotidiani, i contrattempi e le pause, i silenzi e gli incontri, fino, come scrive in una delle sue innumerevoli prose, al cuore delle cose.

 Non stupisce allora ritrovare proprio nelle lettere, che Saba si scambiò con l’amico Giovanni Fallani, vescovo e noto studioso di Dante, una ricerca spirituale sofferta. Sono gli anni in cui il poeta perde la venerata moglie e viene colpito dalla malattia. In questo epistolario (1952 – 1957 fino ad un mese prima della morte) emerge tutta la sua passione per ciò che è umano, la sua solitudine, ma anche la sua aspirazione al divino: sia quando, dichiarando ormai invivibile il mondo, esplicita il desiderio, se fosse possibile, di ritirarsi in un convento, sia quando confida di aver invitato la moglie malata, prossima alla morte a “baciarsi in Gesù” e di aver recitato alle esequie della moglie, lui ebreo, il Padre Nostro, con lo scandalo dei presenti, oppure quando dice di figurarsi il mondo come una montagna sulla cui cima si erge la Croce. Manifestò all’amico vescovo anche la volontà di ricevere il battesimo, pur nella consapevolezza di non avere una fede ancora matura sulla divinità di Cristo. A chi ama l’opera poetica di Saba non pare inatteso un epilogo della sua vita segnato dal desiderio della Verità che giace al fondo. Non è difficile immaginarsi il vecchio Saba, che passeggia per le vie della sua amata Trieste, in una di quelle limpidissime mattine ventose, in cui la forza dell’aria spazza via tutto ciò che essenziale non è, lasciando più puro lo sguardo, più autentico il passo successivo. Sul tardi/ l’aria si affina e i passi si fanno / leggeri/ Oggi è il meglio di ieri,/ se non è ancora felicità.

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