Mastro Geppetto si vende la giacca per consentire al proprio figliolo, Pinocchio, di andare a scuola, comprandogli un abbecedario: se mastro Geppetto dichiarasse di sentirsi povero, avremmo ben poco da obiettare. Ma se s’indebitasse per acquistare al figlio l’ultimo modello di cellulare, senza il quale il (povero) studente si sentirebbe a disagio accanto ai compagni? Forse alcuni obietterebbero. Ma sarebbero pochi. Secondo la nota mensile dell’Isae (Istituto di studi e analisi economica) sulla “povertà soggettiva”, il 74 per cento degli italiani si considera povero. Meglio: ritiene di non vivere una vita dignitosa, ossia una vita “senza lussi ma senza privarsi del necessario”. In altre parole, tre italiani su quattro hanno la netta, fastidiosa, dolorosa sensazione di mancare del necessario.
Se la povertà al centro dello studio è soggettiva, qual è la povertà oggettiva? L’Istat indica, per una famiglia di due persone, un reddito di 936 euro al mese, condizione che riguarda l’11,1 per cento degli italiani. La soglia di povertà soggettiva è invece di 1300 euro mensili per un single, di 1800 per una coppia, e redditi via via più alti per famiglie più numerose. La forbice è abbastanza ampia (364 euro mensili), ma mai come quella che separa i poveri oggettivi (11,1) da quelli soggettivi (74). Qualcosa non funziona. Un solo esempio. Nei giorni scorsi gli albergatori hanno comunicato che 51 italiani su cento non vanno in vacanza. Quindi gli altri 49 ci vanno; eppure appena 26 italiani ritengono di non essere poveri. Dunque 23 italiani si percepiscono poveri, però non fino al punto da non concedersi un periodo di vacanza. Percepita non come un lusso, ma necessaria.
L’Isae stesso ci mette in guardia: nei risultati dello studio hanno un peso decisivo i fattori culturali, sociali e psicologici. Ad esempio il concetto di “necessario”. Come un italiano lo stabilisce? Una sola risposta convincente forse non c’è. Una cosa però è indubitabile: qualcuno ha interesse che la soglia del “necessario” si alzi il più possibile. Questo qualcuno è il mercato, o la consumerist society, che fan diventare necessari merci o servizi sulla cui effettiva “necessità” potremmo aprire un ampio dibattito. Quanti telefonini sono necessari in famiglia, e ogni quanto tempo vanno sostituiti con modelli più recenti e di moda? Qual è la cilindrata minima necessaria per un’auto che non mi faccia sentire povero? E quanti televisori in famiglia, nessuno, uno o in ogni stanza, compreso il bagno? Se non posso permettermi un televisore ultrapiatto, sono necessariamente povero?
Poiché lo scopo della consumerist society è far sì che dioventiamo tutti consumatori, ossia che pensiamo a noi stessi non come persone, non come cittadini, ma come consumatori, e che attorno al cunsumo ruoti tutta (o quasi) la nostra vita, chi si percepisce “povero” lotterà con i denti per non percepirsi più così, fino al punto da indebitarsi, anche in modo intollerabile; e i debiti (dal mutuo per la prima casa, indispensabile, al credito al consumo, per beni spesso superflui) sono uno dei fattori che assieme ad altri ?- il basso titolo di studio, vivere al sud, il lavoro precario… – facilitano la percezione della povertà.
Dal “meccanismo”, come ben sa chi ricorda la canzone omonima abbinata la monologo “il pelo” di un Giorgio Gaber d’annata (1972!), è difficile sottrarsi. Mezzo secolo fa un bimbetto allo Zecchino d’oro cantava di sentirsi povero, perché “non ho giocattoli”; e pregava Gesù Bambino chiedendogli il regalo (per lui) più grande: “Scendi dal cielo e vieni a giocare con me”. Oggi, temiamo, gli chiederebbe la playstation.
(Da “Avvenire”, 20 luglio 2007).