Svevo, Montale e la Pasqua

Con la Pasqua festeggiamo la vittoria della vita sulla morte. Mors et vita duello conflixére mirando: dux vitae mortuus, regnat vivus.

La morte e la vita conbatterono, in un mirabile duello: il duce della vita, morto, rega vivo“. Così recita lo splendido inno Victimae paschali laudes, per ricordarci che la morte è stata sconfitta per sempre dalla Resurrezione di Cristo, aprendo agli uomini le porte dei cieli. Queste brevi considerazioni mi fanno venire alla mente due scrittori del Novecento, di questo secolo intriso di pessimismo gnostico, di una tristezza che non ha pari nella storia.

Intendo Italo Svevo ed Eugenio Montale, così simili, per tanti aspetti, ma anche così diversi.

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La liberazione del gigante

Il punto forte di Louis de Wohl sono indubbiamente le biografie. Ne La liberazione del gigante, il protagonista è Tommaso d’Aquino, anche se per consolidare l’unità del romanzo l’Autore crea un secondo protagonista, l’inglese Pier Rudde, candido e generoso soldato che mette la sua prodezza al servizio della fede partecipando alle varie vicende e fungendo da secondo centro di gravità. Il retroscena su cui è costruita la vicenda sono l’Italia e la Francia del 1200, epoca della corte siciliana di Federico II di Svevia (che de Wohl, nonostante tutto, in ultimo salva) e al cattolicissimo re Luigi. Naturalmente attorno a questi centri politici ruotano le varie casate – compresa l’influente famiglia d’Aquino –, sempre attente a non violare le consuetudini e ad ingraziarsi il potere regio, e i vari ordini religiosi: Francescani, Benedettini, Ordine dei Predicatori, rappresentati da padre Bonaventura, San Alberto Magno, fra Giovanni e naturalmente San Tommaso d’Aquino. Leggi tutto “La liberazione del gigante”

A colloquio con Eugenio Corti


Nel giorno del suo novantunesimo compleanno, riproponiamo un’intervista fatta un paio di un anni fa allo scrittore cattolico Eugenio Corti.

Un grande scrittore, oltre che dalla cura per le sue opere, si riconosce anche dalla dedizione che ha nei confronti dei suoi lettori. In tal senso −e non solo− Eugenio Corti, uno dei più importanti testimoni cattolici del Novecento, è un maestro: infatti, egli accoglie nella sua casa di Besana in Brianza chiunque lo contatti per chiedergli la disponibilità di un incontro.
Il testo qui sotto riportato è un sunto della chiacchierata che cinque studenti dell’Università di Lettere di Trento hanno avuto con lui una mattina di metà settembre. Leggi tutto “A colloquio con Eugenio Corti”

Dalla pozzanghera del nichilismo alla birra del cattolicesimo. L’enorme figura del cattolico Chesterton nell’anticattolica Gran Bretagna.

Chesterton merita di essere conosciuto. Merita siano conosciute le sue pagine, il suo pensiero, la sua fede. Tutto di lui vale la pena di conoscere. Anche le sue teorie economiche. Persino la faccia, mette di buon umore. Chesterton era cattolico, forse per questo, per lui, tutto era interessante, tutto magnifico, tutto degno di gratitudine.
Quando nasce, la Gran Bretagna si era, da poco, svegliata dal lungo inverno in cui l’anglicanesimo di corte l’aveva relegata. Il cattolicesimo aveva riacquistato dignità forse più che per senso di tolleranza, per quella supponenza inglese che ipotizzava di concedere al “papismo” le ultime ore d’aria, prima di essere definitivamente posto al patibolo della storia, dal positivismo e dallo scientismo.

La Gran Bretagna non è solo infatti ancora profondamente anticattolica, ma quella di Chesterton, “fu la prima generazione che insegnò ai bambini a venerare il focolare senza altare”.

Ebbene, in questo pertugio di libertà, il domenicano Padre Vincent Mc Nabb, il professore e poi Cardinal J. H. Newman e infine G. K. Chesterton, come dall’ultimo banco di una classe di secchioni, sono emersi quali figure indimenticabili del cattolicesimo del ‘900 e del pensiero anglosassone. Con loro e dietro di loro si sono mossi altri “brocchi cattolici” come J.R. Tolkien, T.S.Eliot hanno seguito il medesimo percorso. Come del Cardinale che sulla sua tomba volle venisse scritto: «Ex umbris et imaginibus in veritatem» (“dall’ombra e dalle tenebre alla verità”), così la vita di questo grosso uomo di letteratura e di fede – “un metro e ottanta di genio, ne abbia cura, Signora Chesterton”, disse rivolgendosi alla madre, un insegnante di scuola – è il passaggio dal “non senso” del nichilismo alle cui pozzanghere anche il giovane Chesterton aveva attinto da bere, alla verità, irrefrenabile compagna della letizia per tutto ciò che è e potrebbe non esserci. “Tutto è magnifico, paragonato al nulla”.

Conoscere Chesterton sortisce un’immediata simpatia per la Gran Bretagna e il tradizionale umorismo dei suoi figli. Ad una naturale predisposizione per la sottile e gentile gioia, tuttavia, questo strano cattolico inglese associa l’umorismo concreto di chi è consapevole che Uno – "Dio di tutte le cose buone che sono sulla terra" – fa tutte le cose e, per giunta, le fa bene. Quella di E. Rialti – comparsa sulle paginone di un giornale chestertoniano come il Foglio, (lo è, un giornale chestertoniano, quantomeno per le dimensioni del suo direttore e del formato editoriale e per la giovialità di alcune sue pagine perchè se uno leggesse anche qualche volta Andrea’s version o la preghierina di Camillo Langone non potrebbe che essere d’accordo con me) e poi raccolta nel libretto “L’uomo che ride, l’avventura umana e letteraria di G. K. Chesterton”, ed. Cantagalli (pagg. 169, 15 €) – è un’opera ideale per un regalo.

O meglio, il regalo non è il libro, ma Chesterton. Chi avesse la ventura di accostarsi ad uno dei suoi paradossi o ad uno dei suoi personaggi non può che averne in contraccambio una ragione in più per vivere. Quella – la più significativa – che la vita è bella. “Siamo solo polvere. Eppure la vita è bella”. Solo uno persuaso che vi sia qualcosa di bello in qualcosa di poco gradevole ha qualcosa di interessante da dirmi. “La gioia – è la più grande scoperta dell’amico ispiratore, cospiratore di J. Tolkien e C.S. Lewis, – è il grande segreto del cristianesimo”. Un segreto che se rivelato davvero ci condurrebbe dalla pozzanghera dello scontato e della menzogna alla birra della verità.

Dopo una lettura lieta e grata come questa, uno volentieri prenderebbe Chesterton come “un amico in grado di guardare il mistero dell’esistenza, con le sue ferite e le sue bellezze, senza scorgere alcuna contraddizione tra una pinta, una pipa e una croce”.

Quando gli autori increduli si convertivano

di Piero Nicola

Di contro al frontespizio de La piscina di Siloe, Pitigrilli fa scrivere che I libri contrassegnati con un asterisco (Mammiferi di lusso 1920, La cintura di castità 1920, Cocaina 1921, Oltraggi al pudore 1921, La vergine a 18 carati 1921) sono esauriti, l’autore ne ha ritirato le ultime copie e ne vieta la ristampa.

“Che cosa è avvenuto allo scrittore licenzioso e beffardo, che destò tanto scalpore e le cui pagine ancora attirano molti a divorarle?” dovette chiedersi il pubblico nel lontano 1948, alla notizia del suo ravvedimento religioso.

Nel testo, ove è descritto il sentiero sul quale pervenne all’Ovile e vi entrò inaspettatamente, egli conferma: “Nel sottomettermi alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana, rinnego quei miei libri (…) per ciò che contengono di irriverente verso la Fede e verso i Sacerdoti, ma non per ciò che ho scritto contro l’ipocrisia, le menzogne convenzionali, i bassi interessi che copre la bandiera delle parole auguste. Per ciò che riguarda la morale sessuale, io non ho corrotto la società: ho semplicemente descritto una società corrotta. Questo concetto è fissato nella motivazione di due sentenze del Tribunale Penale e della Corte d’Appello di Torino, emanate in piena campagna moralizzatrice, con le quali io venivo assolto, e i miei libri, sequestrati, erano rimessi in vendita (…) Avevo adottato le formule dei figli delle tenebre che avevano sedotto me, e il pubblico mi seguì”.

Su quest’ultimo punto ci sarebbe forse qualcosa da obiettare; tuttavia la sua nomea di autore scabroso appare eccessiva, almeno dopo una certa data.

Dino Segre (il suo nome anagrafico), figlio di David ebreo tiepido, e di Lucia cattolica, venne fatto battezzare a Torino da sua madre all’insaputa del genitore, ed era considerato con distacco, con arie di superiorità dalla parentela israelita. Egli narra che da ragazzo e poi da giovanotto non fu estraneo al problema religioso, ma lo sciolse nello scetticismo, seguendo le dissacrazioni degli scrittori intelligenti vecchi e nuovi, sedotto dai propri successi clamorosi. “Non posso dire d’aver dato un frisson nouveau: non ho inventato nulla:” confessa, “mi ero formato sulla scanzonatura del gruppo Lacerba del 1913, sull’Enfer di Barbuse, su Paul Morand, sui romanzieri francesi recenti, e su quella Mimi Bluette che profumò la cassetta d’ordinanza di tutti gli ufficiali d’Italia, e non impedì loro di vincere la guerra e di essere degli eroi”.

“A Parigi passavo davanti al monumento a Etienne Dolet, arso vivo per aver detto post mortem nihil, ciò che dicevo io, e io potevo circolare indisturbato (…) Radicato com’ero nelle mie idee, trovavo ogni momento nuove ragioni di incredulità. L’uomo non prende gli individui, gli episodi, gli esempi per costruirvi sopra un’opinione, ma li manipola, li sagoma, li riquadra per farli quadrare nella sua idea preconcetta”.

Tant’è: “Assaggiai tutti i succedanei della fede: bussai a tutte le porte del mistero. Conobbi esangui signore teosofe, dalle dita piene di scarabei, che nel serpente che si mastica la coda vedevano la spiegazione del microcosmo e del macrocosmo”.

Compulsa volumi di magia, partecipa a sedute spiritiche. “Lessi messaggi di trapassati, le tables tournates di Victor Hugo, libri contro lo spiritismo e in favore dello spiritismo”. Frequenta sapienti venuti dall’India. “Scesi l’ultimo scalino della stupidità e della degradazione, cioè ascoltai tre lezioni sulla radioestesia e sul pendolino”. Con tutto questo, nel 1930, tenendo alla Sorbona una conferenza su La decadenza del paradosso, perora la causa della “normalità”, affermandone il potere irresistibile sulla maggior parte dei ribelli: “Paul Verlaine che per anni e anni sparge manciate di alcaloidi, e prima di morire si purifica le mani nell’acqua benedetta”; al “caso di Dorian Gray” segue il “De Profundis”; “Giudo Gozzano, che trafigge centinaia di farfalle e muore francescanamente, con la corona del rosario fra le dita”; “le due creatrici della Presidentessa, Linda Pini ed Eva Lavallière, si ritirano nei chiostri”; “l’ipnotizzatore Pickmann, reduce da tutti i music-halls d’Europa, chiude la sua vita di mago entrando in un monastero”; “Clemenceau”, che sciolse le congregazioni religiose ed ebbe una concezione anticristiana della vita, “sul letto di morte chiude la sua giornata terrena con un atto di umiltà: bacia la mano all’autista”.

Siamo nel giugno del 1940. Dino Segre viene mandato “per ordine del governo, in un paesino della Riviera ligure”. Non sarà la contemplazione delle bellezze naturali a ispirargli l’idea di Dio. Una medium risveglia la sua mai sopita passione: “venti anni di insuccessi in questa materia non mi avevano definitivamente deluso”. E, per singolare avventura, egli giunge così al benedetto ravvedimento.

“Dio che nei suoi impenetrabili disegni giorno per giorno, con persuasione progressiva, ha comunicato la fede a Huysmans, a François Coppé, a Paul Bourget, a Brunetière, a me l’ha data in una sera. Io ero di quei semplici che per una deficienza visiva non s’accorgono che tutto ciò che ci circonda è miracolo (uso questa parola non nel senso dei teologi, ma in quello dei poeti)”.

Egli acconsente che le voci e i vari fenomeni realmente suscitati nelle sedute spiritiche possano essere inganni del demonio, quantunque sembri strano che “la maggior parte dei morti, interrogati sulle loro sofferenze, non abbiano detto nulla di diverso dalle tenebre, pianto e stridor di denti, indicati, come pena, dalla parola di Gesù, e che invitino i vivi a pregare Dio, a essere buoni, a essere giusti, a guardarsi dai messaggi di spiriti malvagi, a far celebrare delle Messe per la loro pace, e mettano in guardia contro l’irreparabile sventura di morire con il greve peso degli attaccamenti terreni, o di morire non in grazia di Dio”.

La tradizione ecclesiastica presenta casi di simili manifestazioni.

Dieci anni dopo, ne La maledizione, tornerà sull’argomento andando oltre con alcune convinzioni, pur avendo concluso, nelle premesse, che “se in questo libro ho scritto cose errate, chi ne sa più di me mi corregga”. “Ho avuto la fortuna di ricevere messaggi spiritici di una tale bellezza, dettati in una forma così perfetta, e così ricchi e veri di contenuto, che ho acquistato la tranquillità e la certezza che sopravviviamo alla morte”. Altra supposizione: la “possibilità dell’uomo di influire sugli altri” mediante la magia bianca o nera, secondo una facoltà dell’intenzione e l’uso di certe pratiche o formule, però sottomesse al volere di Dio. Per quanto concerne la fisicità dei fenomeni prodotti volontariamente, anche all’apparenza indifferenti dal lato morale, siamo in un campo indimostrabile, ove è di certo possibile l’azione del demonio; e la stessa applicazione intesa a produrre il bene con forze intangibili, sfuggenti al controllo, si confonde con tutta la sfera metafisica. Riguardo al male, Pitigrilli ammette: “Volontà di dominio, di natura satanica? (…) Io non mi oppongo. Sarà quello stesso Satana che non parlava a vanvera, per farsi una clientela, quando disse: ‘Sarete come Dio’. Però in un altro settore, in un’opposta direzione…” Ricorda, a questo proposito, il potere della benedizione, efficace di per sé come un sacramentale. La benedizione carpita da Giacobbe, messosi al posto del fratello Esaù, ebbe ciononostante il suo effetto. Ma il benedicente era un patriarca e il Signore consentì l’effetto.

A quanto pare, Dino Segre azzardò, lasciando intendere che occultisti – al di fuori della gerarchia ecclesiastica e della santità dimostrata – avessero il potere di determinare benefici equivalenti a quelli causati da interventi soprannaturali. A suo discarico, notiamo che egli accennò a un padre spirituale che lo seguiva, e mise sull’avviso contro le frodi e gli errori numerosissimi.

Tornando a La piscina di Siloe, egli già raccomandava di non lasciarsi “tentare da simili esperimenti. Primo: Perché la Legge Divina è formale: Non vi sia chi cerchi di sapere dai morti la verità (Deuteronomio 18, 11). Secondo: Perché la Chiesa si è pronunciata in termini precisi: Interrogata la Confregazione del santo Ufficio, se sia lecito, con l’intervento di un medium, come dicono, o senza di esso, servendosi o no dell’ipnotismo, assistere a locuzioni o manifestazioni spiritiche, quali esse siano, anche se abbiano l’apparenza di onestà e di pietà (…) sia che si sia solo spettatore (…) La Santa Congregazione rispose: Negativamente in tutto (27 aprile 1917)”.

Tuttavia “io, per quelle vie vietate e con mezzi illeciti, ho trovato la fede”. “Prima, consideravo la morte come una ridistribuzione di calcio, azoto, idrogeno, carbonio nei barattoli e nei palloni di dove il nostro corpo ha preso provvisoriamente a prestito gli ingredienti. Dopo, mi sono convinto che la morte è principio e continuazione. Da quel momento ho compreso finalmente il senso della vita”.

Manifestato il proposito di educare il proprio figlio alla dottrina cattolica, riconosce di non esser ancora “un cristiano perfetto”. “Mi manca l’umiltà, non so dimenticare le offese, soffro di simpatie e di antipatie, e a chi mi chiama in giudizio per togliermi la tunica non cedo anche il mantello. Ho scritto non so più dove: ‘Capisco il bacio al lebbroso, non ammetto la stretta di mano al cretino’. Credo che questa frase non la cancellerò mai”. Il temperamento del vecchio Pitigrilli salace non può scomparire. In fondo, egli figura come uno dei tanti fedeli soggetti alle debolezze e, più di molti fedeli, consapevole, attento alla sua anima. L’importante è che non si stato acceso da un fuoco di paglia, che in seguito egli non abbia tralignato. Ne fa fede una pregiata e diffusa enciclopedia di quest’epoca, dove si osserva che, successivamente, “prese a scrivere opere moraleggianti”. Opere spiritose, vivaci, per nulla tediose, sempre a getto continuo. Convertito, fustiga i costumi con una satira né caricaturale né cattiva, sovente bonaria, per quanto disincantata, e con rispettabile scavo psicologico.

Per esempio, in Lezioni d’amore (1948), il protagonista parigino, avendo subito un tracollo finanziario a causa del fallimento d’una banca, ha aperto l’unica attività per la quale abbia esperienza, un ufficio che somministra consigli ai sentimentalmente sventurati. Ed ecco, fra i diversi che si presentano, una signorina borghese, assai a modino: gli si rivolge per essere indirizzata a qualcuno che la faccia abortire. Il fidanzato le ha comperato una medicina… “C’è un fidanzato?” “Non è ciò che si chiama un fidanzato. Anzi, se dovessi dire, è mezzo fidanzato con un’altra. Gli ho promesso che avrei preso la medicina, ma non serve. Lo so per esperienza”. Prima poteva rivolgersi a un medico dei suoi paesi. “Adesso non c’è più”. “È in galera?” “È deputato e non fa più il medico”. “Fa le leggi. E poi?” Lei non sa come possa tornare in famiglia per le feste, con quel ventre accedente la linea. Il giovanotto è ingegnere, “tanto timido. M’ha portato del prezzemolo”. “Non si può dire che si rovini”. Ma lui ha detto di spendere il necessario, che penserà a tutto, e si è messo a piangere, e vede la soluzione della segale cornuta. Ma è pericolosa. “Bisognerebbe prenderla sotto la guida di un…” “Di un deputato”. “Ma no, il deputato mi ha fatto una piccola operazione. Dolorosa, ma è così svelto! È tanto buono”. Quella sorta di fidanzato la sposerebbe. Lei però non vuole, perché il padre di lui, essendo medico e anch’egli deputato, conosce i suoi trascorsi. D’altronde ella non ha sicurezza che il nascituro sia dell’ingegnere. “Questa lealtà vi fa onore”. Potrebbe avere un figlio di quattro anni ed uno di sette. “Se non li aveste uccisi” si sente rispondere. Ella protesta. Lui rinforza l’accusa mettendole davanti i pargoletti vivi, commoventi, destinati a diventare uomini fra gli uomini, ad avere un loro posto nel mondo.

Spassoso, l’episodio della risposta suggerita ad un giovane che ha una relazione con una signora, il cui marito gli ha scritto con indignazione. La risposta comincia negando che vi siano stati rapporti meno che corretti, quando invece si è trattato di scambi ideali e, per così dire, fraterni. Seguono due varianti, a scelta: l’una per continuarli, onde il sospetto sia allontanato, l’altra per interromperli, praticamente allo stesso fine: secondo che l’amore sia in fase ascendente oppure calante. La moralità del consigliere ne soffre, ma la leggerezza è palese. Inoltre, la morale giungerà al termine del lungo racconto, quando l’ancora assai spregiudicato consulente, abbandonato dalla compagna, privo dei figli che avrebbe allevato in un focolare domestico, prova una sensazione di totale fallimento.

Intanto, porgendogli uno dei canovacci di missiva, preconfezionati per le varie circostanze, egli raccomanda al suo interlocutore: “Non abbiate fretta. Curate lo stile. Sono lettere che i mariti conservano e le mogli rintracciano”.

L’amoroso alle prese col suo componimento in uno studio accanto, conosce una ventenne di indomita personalità, introdotta per essere ricevuta a sua volta; ed ella gli farà rinnegare la sua protesta di scegliere la prima opzione, con cui avrebbe serbato il caro legame adulterino. Le vicende disparate s’intrecciano nella tessitura della storia principale; in capo alla quale il protagonista, morso dall’abbandono, strutto da un rigurgito di sentimento per la donna perduta, vinto dalla solitudine, dall’inconcludenza, vede come fosse “una vita finita prima di cominciare” quella al momento in cui aveva aperto le “lezioni d’amore”: “spaccio d’ottimismo”, vendita di “apparenze di salute, di benessere, di bellezze, di stordimenti, di filosofia, di saggezza”. Gli tiene compagnia un fraticello domenicano, suo figlio naturale, cosa nota ad entrambi, ma non se lo sono confidato.

“Ho sfiorato tutto: la scienza, la fede, l’amore, senza mai immergermi” dice l’uomo di mondo, che ha esaurito il suo spirito. “Anche in materia di fede, mi sono arrestato alla periferia. Ho indietreggiato dinanzi alle prime contraddizioni (…) a ciò che mi sembrava pregiudizio e paganesimo…”

Il monaco gli chiede se crede in Dio. E il colloquio prosegue: “A modo mio” . “Non c’è che un modo di credere in Dio”. “Quale?” “Credere”.

Qualcosa continua a separarli. Alla fine, il figliolo desiderato, per istruirlo, educarlo, amarlo, proporrà al padre d’essergli padre in virtù della sua veste, insegnandogli a pregare.

Con la novella L’anello di Gige (terza nell’indice di Lezioni d’amore) Pitigrilli, esule in Svizzera e poi in Argentina, sembra rispondere alle accuse d’essere stato un agente dell’Ovra, che contribuì alla persecuzione di antifascisti. L’apologo narra della dittatura d’un principe, un “tiranno buono”. “Un buon tiranno, come san Luigi, re di Francia, che in sede di appello contro i giudizi e contro i giudici stessi ascoltava i lamenti e le ragioni dei sudditi, sotto la quercia, nel parco di Vicennes”. A scanso di equivoci, l’autocrate e i suoi procedimenti sono descritti in modo da distinguersi parecchio da Mussolini e dal suo regime. Sennonché ci sono i cospiratori. “Qualche bomba innocente scoppiava qua e là. Nel buio del cinematografo, qualche fischio isolato al suo passaggio sullo schermo, immediatamente soffocato dagli applausi. Foglietti clandestini correvano di mano in mano: circolavano storielle, quelle storielle che, con personaggi di ricambio, si travasano di secolo in secolo. Ai fuorusciti si era lasciato capire che potevano rientrare in patria. Qualcuno tornò e fece atto di omaggio: altri considerarono la liberalità del Principe come una confessione di debolezza. ‘Ci teme’, dicevano. Rientrarono un po’ a malincuore, perché all’estero avevano vivacchiato passabilmente per una decina d’anni: avevano composto un loro ‘governo all’estero’, avevano formato, nelle birrerie, il ministero con reciproche assegnazioni di portafogli, per essere pronti all’ora ‘H’ (…) Avvenivano scissioni, riavvicinamenti, fusioni: stampavano un giornaletto che nessuno comperava: raccoglievano offerte per un comitato di soccorso agli esuli: il comitato era loro: gli esuli erano loro: le offerte se le dividevano fra loro: si cingevano a vicenda dell’aureola del proscritto (…) Un giorno il Principe s’accorse che costoro esistevano, e, per una specie di dandysmo, perdonò ufficialmente a tutti”.

I cospiratori trasferiscono le loro attività sul suolo natio: volantini di propaganda, giornaletto. “I sudditi fedeli al principe non davano né incarichi né lavoro ai fuorusciti. E così un piccolo venticello contrario al Principe si estese, tiepido, ma diffuso”. A un certo punto, occorre individuare il loro capo. Il Prefetto di Polizia dice al Ministro dell’Interno che non lo ha ancora scovato: “Il primo anello è certamente in relazione con una nazione vicina, che li sovvenziona”. I due proseguono a consultarsi: “Ma l’agitazione si estende”. Risposta: “Si estende perché il Principe è un uomo onesto, che non ama il denaro e non capisce che altri possano desiderarlo (…) La sua onestà, la semplicità della sua vita sono oggetto di ammirazione platonica. La sua frugalità è elogiata in ogni discorso, ma nessuno nel suo intimo se ne compiace”. I sospetti si appuntano su Kosciuscko, professore di storia del diritto all’università. Mancano soltanto le prove per inchiodarlo. Una bomba a orologeria scoppia nel garage del Principe. Il Ministro vuole avere le mani libere. Il buon tiranno non vuole che si torca loro un capello. Otto sospettati vengono tratti in arresto. Li si minaccia di deportazione in un’isola, con facoltà di formare il loro Governo, e in più, di coltivare tabacco, di andare a caccia e alla pesca, di prendere i bagni, avere amache, bungalow, chinino e zanzariere. Gli oppositori rifiutano di tradire il capo. Il Ministro ricorda loro la storia dell’anello di Gige, narrata da Platone. Il pastore Gige prese a un morto un anello che permetteva di rendersi invisibili. Si introdusse, non visto, nella stanza della regina e uccise lei ed il re. Gli astanti negano di voler mai approfittare dell’incognito per commettere un’azione esecrabile. Ma quando, per mostrare tutta la loro integrità, essi accettano il foglio su cui potrebbero battere a macchina il nome del capo, sebbene qualora uno solo che ve l’abbia scritto basterebbe a renderli liberi e assunti in un impiego confacente a ciascuno, all’apertura dell’urna si vede che tutti e otto hanno denunciato Kosciuscko.

Tra le facezie magistrali sulle buone maniere, elencate ne Il pollo non si mangia con le mani (1957), piace riportare questa massima, incastonata a chiusura di savie avvertenze: “Essere una donna di classe è far funzionare come un harmonium il registro della pietà, della carità, della bontà, della gentilezza, della purezza di cuore. Non vuol dire restare imperturbabile quando dalla cucina giunge il fracasso di un servizio di Boemia che è andato in frantumi, ma essere impassibile davanti al crollo di tutto”.

Questo galateo vuol distinguersi, nelle sue prescrizioni di saper vivere e di urbanità, prendendo in considerazione le circostanze e i soggetti, in relazione ai quali i comportamenti dovrebbero variare: da un giusto anticonformismo, che ci si possa permettere, a un educato adattamento a usi e costumi.

“Come la moda è stata creata per le donne senza gusto che non sanno vestirsi, così il vecchio galateo è stato compilato per le persone che mancano di linea, di riflessione e di criterio”.

La cultura e i soggiorni internazionali dell’autore rendono variata e interessante la lettura. “Quando, dopo il pranzo e nelle pause fra una portata e l’altra sfugge dalla bocca di un arabo un certo suono orchestrato nelle profondità dello stomaco, egli eleva questo gasoso pensiero [“Habdullah”] ad Allah e lo dedica al padrone di casa”.

Egli rende il dovuto tributo alla finezza ereditaria o congenita: “Le persone intelligenti (…) sanno condursi nella vita sociale sotto la guida dell’eleganza costituzionale, che (…) se non la si è ricevuta in dono nascendo, non c’è da sperare di trovarla in nessuna grammatica di belle maniere”.

Egli mette il dito nella piaga odierna del linguaggio volgare, dicendoci che “la probità verbale (…) è una delle forme più nobili dell’onestà”.

Da Riscossa Cristiana.it 

L’albero della vita

Oggi, giorno di Sant’Elena, madre di Costantino, riproponiamo la recensione di un libro che narra anche di questa magnifica figura di donna.

Recentemente ho trovato il tempo per leggere un libro che nel corso degli anni mi era stato consigliato da molte persone. Si tratta del romanzo storico L’albero della vita di Louis de Wohl, pubblicato in lingua italiana dalla BUR nella Collana “i libri dello spirito cristiano” con prefazione di Alfredo Valvo.
Louis de Wohl nacque nel 1903 in Germania dove visse fino al 1935, quando la sua opposizione al nazismo lo costrinse a fuggire in Gran Bretagna. Là divenne capitano dell’esercito britannico durante la seconda guerra mondiale. Nella sua vita egli fu principalmente un romanziere storico, ma vanno menzionate anche le sue attitudini per l’astronomia e la sua passione per i viaggi. De Wohl scriveva in inglese ed ebbe grande popolarità negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo grazie alle numerose traduzioni e riduzioni cinematografiche delle sue opere. Negli ultimi anni della sua vita ricevette da parte di Papa Giovanni XXIII il titolo di Comandante dell’ordine dei Cavalieri di Gregorio Magno. Morì a Lucerna (Svizzera) il 2 giugno 1961.
L’Autore, inglese d’adozione, ha scritto molti romanzi, tradotti in 12 lingue, i più noti dei quali sono: L’albero della vita, La liberazione del gigante (su Tommaso d’Aquino e il rapporto fede e ragione), L’ultimo crociato (su Giovanni d’Austria a Lepanto) e La mia natura è il fuoco (biografia di Caterina da Siena).

In questa sede tratteremo il primo dei romanzi menzionati, riservandoci un altro momento per dettagliare gli altri.
L’albero della vita è ambientato nel IV secolo e narra di Elena, figlia di Cel, re della Britannia, e sposa di Costanzo, soldato romano. Dall’unione dei due nascerà Costantino, colui che «sarà la benedizione di sua madre e la morte di suo figlio (Crispo, ndr). E gli sarà concesso vedere l’albero della vita», secondo la profezia del vecchio Cel alla sua nascita. Il tutto è condito da avvincenti battaglie, lotte per il potere e dallo svelamento di vizi e ombre di grandi personalità.
Ma quello su cui qui si vuole porre l’attenzione, al di là della trama romanzesca indubbiamente ben scritta e storicamente molto precisa, sono alcuni passi che trattano della fede cristiana. Una dottrina allora relativamente nuova e che faticava ad essere accettata perché considerata pericolosa: c’erano perfino persone disposte a morire per non rinnegarla e venivano chiamati martiri! Indubbiamente per i vari imperatori che si susseguivano, essa costituiva un problema non indifferente: per questo Diocleziano, assieme con Massimiano, emana a Nicomedia – nell’anno 1056 dell’Urbe – un editto che imponeva la persecuzione di tutti coloro che venivano scoperti a praticare riti cristiani o che si professavano tali.
Ma, in Britannia, c’è chi non condivide questo editto e lo fa applicare solo formalmente: ci stiamo riferendo a Costanzo, padre di Costantino. Riportiamo un passo in cui egli dialoga con il legato Curione, suo amico di vecchia data: «“Certo, sapevo che tu avevi delle simpatie per i cristiani, ma come mai, per tutti gli dei, ti sei unito a loro? Uno i cui antenati hanno combattuto a Zama, a Gergovia e a Farsalo… c’era un Curione perfino alla presa di Gerusalemme, se ben ricordo… “
“Esatto” ammise il legato. “Soltanto, non so come ciò potrebbe impedirmi di riconoscere la verità quando la incontro.”
Costanzo si agitò sulla seggiola.
“La verità… la verità… voi tutti credete di avere un diritto speciale alla verità. Mi sono intrattenuto più volte con gente della tua fede Curione. Per quanto posso giudicare, si tratta di una nobilissima dottrina filosofica, ma…” “Non è una dottrina filosofica” replicò il legato. “E’ una serie di fatti. Una volta che li si conosce non resta che comportarsi di conseguenza”» (L’albero della vita, Milano, BUR 2004, pag. 198).
Anche Elena non condivide l’editto, nonostante inizialmente non si riconosca nella dottrina cristiana: le sembra un’ingiustizia che vengano bruciate le case di gente che non ha commesso alcun crimine contro l’impero e che le persone vengano uccise solo perché professano una fede diversa da quella politeista. Sarà anche grazie alla sua influenza che verrà emanato da Costantino – nel 314 – l’editto di Milano, il quale revoca il precedente proclama di persecuzione contro i cristiani. In principio, si diceva, Elena agiva “solo” in virtù di un’ideale di giustizia, ma nella seconda parte del romanzo la ritroviamo convertita e profondamente convinta dell’esistenza di Dio.
Più volte essa fa visita al vescovo Osio, considerato Padre della Chiesa (anche se non compare negli elenchi ufficiali) e consigliere dell’Imperatore Costantino, in pagine sempre molto profonde e toccanti.
«Elena aveva gli occhi spalancati, ma ciò che vedeva nessuno poteva sapere.
Teneva le mani levate in atto di supplica, ma la forza che le sosteneva non sembrava emanasse da lei. Un’espressione di amore estatico, d’immensa dedizione le aleggiava sul volto. Pareva che tutta la sua forza vitale si fosse trasfusa nella gigantesca croce illuminata dalla luna, quasi fosse un organo essenziale, l’organo più essenziale del suo corpo, pulsante come un torrente sanguigno di raggi lunari, vivido e luminoso, in eterno moto» (op.cit., pag. 302).
E, nel corso di un’altra visita, alla domanda di un’Elena spaventata e che non comprende le azioni omicide del figlio: «“Ho compiuto opera di Satana, anziché opera di Dio?”», il vescovo Osio risponde così: «“[…] Credi realmente che soltanto un uomo puro possa essere lo strumento di Dio? Pensa agli apostoli: non hanno anch’essi… tutti… abbandonato Nostro Signore, quando le guardie vennero per arrestarlo? […] Siamo venuti al mondo con la macchia del peccato originale. […] Lentamente, lentamente le cose muteranno. Ci saranno ricadute… in questo stesso momento ci troviamo, con lutto e dolore, di fronte a una di esse! Ma ciò non ci dà diritto a disperare del nostro compito… dobbiamo continuare a combattere, anche se non ci sarà concesso vedere la vittoria finale! Grande è la potenza del male, e tale sarà forse per molte generazioni. Ma Dio non costruisce nei secoli… forse neppure nei millenni. Costruisce nel suo proprio tempo…”» (op.cit., pagg. 340-1).
Dopo la madre, anche Costantino non può fare a meno di arrendersi di fronte alla Verità, in un passo molto bello alla vigilia della battaglia contro Massenzio, autoproclamatosi imperatore romano in Italia e in Africa.
«Giustizia… Quando siamo deboli invochiamo la giustizia, come se ci competesse di diritto. Ma la giustizia presuppone l’esistenza degli dei o, per lo meno, di un Dio. Se non c’è Dio, perché ha da esserci la giustizia? Da chi si può esigerla? Dagli uomini? O perché? Perché non dovrebbero fare ciò che loro sembra vantaggioso? Comunque fosse, la battaglia perduta avrebbe significato la morte dei cristiani entro l’impero. Se dunque esisteva un Dio cristiano, doveva mettersi dalla parte di Costantino. […]
Il sole stava per tramontare, e sopra di esso si librava una strana massa color arancione, come se il sole volesse partorire un secondo astro. La massa si sciolse, si trasformò in un gigantesco getto di fuoco scagliato verso il cielo… e il getto di fuoco si divise in due rami… . […] Un lunghissimo getto, due rami. E la trasformazione continuava.
“Somiglia… somiglia… a una croce” disse Costantino» (op.cit., pagg. 306-7).
Il giorno seguente, prima dell’alba, l’imperatore Costantino ordina che tutte le truppe si dipingano una croce sull’elmo e un’altra sullo scudo perché “in questo segno vincerai! In questo segno vincerai!”. Facile è dedurre l’esito trionfale della battaglia…

Questi sono solo alcuni piccoli spunti che vogliono rendere la profondità intrinseca che scaturisce dal bel romanzo di De Wohl. Spero di aver suscitato curiosità per quest’opera che trasuda da ogni pagina la straordinarietà della fede cristiana.

Che altro dire: buona lettura!

Tolstoj e il matrimonio, l’amore carnale, la procreazione, l’innamoramento… Peccato solo per l’introduzione di Augias!

Repubblica e L’Espresso stanno promuovendo in queste settimane un’iniziativa lodevole: offrire ai lettori, ad un prezzo veramente risibile, quindici capolavori della letteratura mondiale.

La scorsa settimana – per i temerari in grado di superare la difficoltà di dover entrare in un’edicola e chiedere: “Mi potrebbe dare Repubblica, per cortesia?” – era in vendita La sonata a Kreutzer, un racconto di Lev Tolstoj pubblicato nel 1891.
Il contesto narrativo della vicenda è, di per sé, molto banale: due signori russi dialogano su un treno per tutta la notte; o meglio: uno dei due narra all’altro la propria vita.
Quello che colpisce, invece, sono i temi trattati, che non sono affatto scontati: matrimonio, adulterio, concupiscenza, aborto, gelosia

Nella postfazione, Tolstoj chiarisce i cinque punti chiave che intendeva trasmettere con il suo racconto:

1. Nella società si è affermata la convinzione che i rapporti sessuali siano utili alla salute. Bene, afferma l’Autore, “[…] ciò è male, perché non è ammissibile che per la salute di alcuni occorra distruggere il corpo e l’anima di altri esseri umani (le donne e i bambini che non vengono fatti nascere con la contraccezione, o che vengono abortiti, ndr)”.
2. Oggigiorno l’infedeltà coniugale è molto diffusa e “[…] io ritengo che ciò sia male. Ne consegue, quindi, che non va fatto”. Così come va assolutamente condannato il divorzio ed è necessario cercare di salvaguardare la famiglia, soprattutto se dall’unione sono nati bambini. Afferma infatti l’Autore nel suo racconto: “Loro (i bambini, ndr), poverini, ne soffrivano terribilmente, ma noi, impegnati nella nostra guerra senza quartiere, avevamo altro a cui pensare”.
3. “La terza cosa che intendevo dire è che nella nostra società, sempre per effetto dell’ingannevole valore che si dà all’amore carnale, la procreazione ha perso il suo senso e, invece di essere il fine e la giustificazione dei rapporti coniugali, è divenuta un ostacolo per la piacevole continuazione dei rapporti amorosi”; la contraccezione è un male, “[…] in primo luogo perché in questo modo ci si libera delle preoccupazioni e degli oneri recati dai bambini, attraverso i quali ci si riscatta dall’amore carnale; in secondo luogo perché è qualcosa di assai simile all’atto più ignominioso per la coscienza umana, l’omicidio”.
4. Nella nostra società i bambini sono visti, a seconda delle situazioni, come: “un ostacolo ai piaceri”, “un’infausta causalità”, “[…] un piacere, quando se ne genera solo una quantità stabilita a priori”. “La conseguenza è che i bambini sono educati come cuccioli di animali, in quanto la principale preoccupazione dei genitori non è quella di prepararli ad un’attività degna dell’uomo, ma […] quella di nutrirli come meglio possibile, di favorirne la crescita e mantenerli sempre puliti, candidi, sazi, belli”.
5. Nella società di oggi l’innamoramento tra due giovani ha come fondamento l’amore carnale. Tutte le migliori energie sono spese a cercare chi amare e da chi essere amati. Invece, afferma Tolstoj, “[…] il progresso dell’umanità si è sempre mosso dalla dissolutezza verso una maggiore castità, con il comune senso morale e con la nostra coscienza, che sempre condanna la depravazione e apprezza la castità”. Con questo l’Autore non intende affatto dire che non sia lecito sposarsi, anzi! Semplicemente, afferma che si può essere casti anche nel matrimonio. E’ innegabile, poi, come la castità sia un ideale alto e “[…] proprio qui sta il guaio: se ci si permette di abbassare l’ideale a causa della propria debolezza, è difficile poi limitare il livello dell’abbassamento”. In definitiva, occorre avere fede in Dio: la Sua dottrina è l’unica che vale la pena perseguire ed è l’unica per cui vale la pena impegnarsi e lottare. “Non è quindi vero che non possiamo farci guidare dall’ideale di Cristo perché questo è troppo elevato, perfetto e irraggiungibile. Non lo scegliamo solo perché mentiamo e ci inganniamo”.

Un grazie alla cordata Repubblica-L’Espresso, dunque, per aver ristampato un capolavoro poco conosciuto, ma molto denso dal punto di vista dei significati. E un consiglio, se è lecito: la prossima volta evitate che Corrado Augias rovini l’intero volumetto con un’introduzione nella quale dà prova di aver capito poco o nulla di ciò che ha letto e di essere sempre mosso da preconcetti ideologici, che lo portano a scrivere: "La prima cosa che si può dire è che questo romanzo breve vorrebbe essere il rifiuto dell’amore carnale", ma "[…] a dispetto dell’assunto, emana dalle pagine un conturbato erotismo".

Un unico commento: "Augias, ma che stai a di’?"

La teologia di Dante

E’ un pregiudizio diffuso che la cantica più bella di Dante sia l’Inferno.

Quest’idea nasce, sicuramente, dalla sua maggior facilità, dal fatto che siamo più abituati a frequentare il male, piuttosto che il Bene, ma anche da un’idea di fondo: che i buoni siano, in fondo, delle figure poco affascinanti, deboli, scolorite. L’idea è quella del “santarello”, cioè dell’uomo buono come un uomo debole, insignificante, quasi molle.

Non è così: il Paradiso di Dante è certamente abitato da persone buone, la cui bontà però coincide anche con la forza, con una umanità solida, grandiosa. No, il Paradiso non è la cantica più scolorita e meno riuscita di Dante, al contrario essa è zeppa di visioni e di pensieri folgoranti.

Basterebbe l’incipit del canto I: “La gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove”. Quale condensazione più bella di concetti filosofici e teologici essenziali! Dio, dice Dante, è il Motore Immobile di Aristotele; l’archè cercata dai presocratici, la Causa prima che giustifica l’esistenza stessa delle cose che, sì, sono, ma non eternamente. La sua gloria, la sua presenza, risplende in ogni parte dell’universo.

Come avrebbero detto Paolo, Francesco, Bonaventura, le creature sono la via per arrivare a Dio. Che le tiene in vita, rendendole partecipi dell’Essere. Dio risplende nelle montagne, nel sole, nell’acqua, “pretiosa et casta”; risplende in un sasso e in un fiore, ma più nel fiore che nel sasso; e nell’uomo, che è fatto a sua immagine e somiglianza, più che in tutti i gigli del campo. Dio risplende nel sorriso innocente di un bimbo, in un atto volontario di abnegazione, nelle parole di perdono di un uomo. Gloria Dei homo vivens: l’uomo che Vive, con la lettera maiuscola, che partecipa del Bene, della Verità, della Giustizia, è la gloria di Dio.

 Poi Dante prosegue: “nel ciel che più della sua luce prende/ fu’io, e vidi cose che ridire/ né sa né può chi di là su discende;/ perché appressando sé al suo disire,/ nostro intelletto si profonda tanto,/ che dietro la memoria non può ire”.

Dante vuole dirci che il cielo Empireo è una distesa di azzurro e di luce, che abbraccia ogni cosa. La luce, corpo quasi immateriale, e l’azzurro, immagine dell’infinito, sono quanto di più simile a ciò che è soprannaturale l’uomo possa immaginare. In quella luce, che è simbolo della Verità che tutto illumina, Dante dice di essersi appressato al suo “disire”. Ciò significa che l’uomo ha un solo desiderio: Dio stesso. Tutti gli altri desideri non sono che corollari. Poiché desidera Dio, allora desidera tutto ciò che riluce della sua bellezza e bontà. Anche se tante volte sostituisce il desiderio con le voglie; le grandi aspirazioni, con i capricci; la fame di Dio con la fame di mondo, e cerca di saziare una sete inestinguibile con sorsi di acqua avvelenata (quando le creature sono messe al posto del Creatore).

Dio, continua Dante, io non posso descriverlo. L’uomo coglie Dio, per un istante, in qualche momento della sua vita: quando prova una qualche consolazione spirituale, una grande gioia, immagine e pegno della Gioia eterna. Ma le parole umane non sono capaci di catturare e definire l’inesprimibile grandezza di Dio. In Lui ci si può immergere, uscendo da se stessi in un’ esperienza mistica, estatica. Si finisce quasi ingurgitati in un oceano di dolcezza, di amore, di felicità, che supera infinitamente il desiderio umano.

Quando l’uomo incontra il desiderio, naufraga in esso, tanto questo è più grande di lui. Siccome poi Dio è Amore, cioè Unità, l’uomo in Dio si unisce, ma senza annullarsi; sperimenta la stessa fusione che l’amore permette, in vita, tra due sposi, o tra un genitore e un figlio, ma senza il limite che questa esperienza umana possiede; nello stesso tempo trascende se stesso (“trasumanar”, dice Dante), senza essere spogliato del suo essere specifico.

Dante, infine, dice di essersi sollevato da terra. E’ in cima al Paradiso terrestre. Ha attraversato l’inferno, ha percorso la camminata faticosa, in salita, del Purgatorio. Accompagnato da Virgilio, protetto dalla Vergine, ma anche mettendo in gioco la sua volontà, cercando, come si dice nel I canto del Purgatorio, la “libertà”. Il suo essere, anima e corpo insieme, è ormai leggero. Leggero come l’animo di chi è virtuoso. Pesante è l’animo e il corpo dell’avaro, sempre ripiegato su beni materiali; pesante è l’animo del superbo, sempre teso a tutelare la sua fama, il suo onore; pesante l’animo del lussurioso, che cerca sempre, in basso, ciò che sta in alto e vuole nutrire con lo stesso cibo anima e corpo.

Leggero è l’uomo che si è purificato, che non è più travolto dalla zavorra del peccato. Leggero perché libero. Quest’uomo è naturale che si innalzi verso il cielo. Non come un superuomo, che vuole salvarsi da solo; che ha fatto della terra il suo proprio regno; ma perché si è sottomesso ad una legge superiore, la ha amata e compresa, ed è stato docile alla Grazia, a Beatrice che gli è scesa incontro mentre lui saliva. In quell’incontro tra la libertà dell’uomo che sale e la Grazia che scende si realizza compiutamente l’umanità, secondo il progetto di Dio. Il Foglio,12 maggio 2011

Sant’Agostino e le Confessiones: un testo di lode a Dio sempre attuale

S. Agostino (Tagaste 354 – Ippona, 430) è considerato come uno dei più grandi Padri della Chiesa. Oltre che per il suo esemplare cammino di ricerca della fede e per aver vissuto nel concreto la sua stessa affermazione per cui “il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in Te […], o Signore” (Confessiones, libro I), il celebre vescovo d’Ippona è ricordato per la sua sterminata produzione letteraria. Agostino, alla sua morte, aveva composto almeno 1030 scritti e, secondo le parole dello studioso G. B. Conte, “[…] è il più ricco e originale dei pensatori latini, e al tempo stesso uno scrittore elegantissimo, che sa dare alle sue profonde elaborazioni da un lato una chiarezza ammirevole, dall’altro un’efficacia emotiva che fa capire al lettore di trovarsi dinanzi a idee di una portata poderosa. Le sue teorie hanno dominato gran parte del Medioevo, anzi si può dire che ne siano state all’origine […]” (G. B. Conte, Il libro della letteratura latina, Le Monnier, Firenze, 2000, p. 880).

Il testo di S. Agostino più noto e citato sono le Confessiones.
Questo scritto, composto di tredici libri, suscitò scalpore tra i contemporanei del Padre della Chiesa, in quanto costituisce una delle prime testimonianze del genere autobiografico – almeno nei primi nove libri, che narrano vari episodi significativi della vita del santo; gli ultimi quattro, invece, sono più speculativi e teologici – e raggiunge un livello di introspezione psicologica mai raggiunto fino ad allora.
Anche per i lettori moderni delle Confessiones, il grado di discernimento del proprio spirito che S. Agostino dimostra in alcuni passi dei suoi libri è fonte di ammirazione. Così come non è possibile non accorgersi e gioire dello stretto rapporto di fiducia e amicizia che il santo prova nei confronti di Dio, cui si rivolge con frasi piene di amore.

I temi trattati dal santo africano originario di Tagaste nel dipanarsi dei tredici libri delle Confessiones sono i più disparati ed interessano avvenimenti accaduti dall’infanzia di Agostino, fino alla sua conversione. Ecco quindi che nei primi libri le riflessioni sono inerenti l’educazione, lo studio, “l’inquieto mal di giovinezza”, l’amore, la passione… mentre poi si evolvono ed approfondiscono, andando a toccare tematiche più strettamente religiose, quali il manicheismo, l’anima, la caducità dei beni terreni, il rapporto con Sant’Ambrogio e con la madre Monica, eccetera.
L’apice viene raggiunto da S. Agostino nel libro VIII, quello narrante la sua conversione. Nel quarto capitolo si legge, infatti: “Ebbene Signore, su, risvegliaci e richiamaci: accendi, rapisci, infiamma, raddolcisci i nostri cuori: e noi amiamo, corriamo!” (Confessiones, libro VIII). Perché “[…] infelice è sempre l’anima avviluppata dall’amore delle cose mortali” (Confessiones, libro IV), mentre Dio, che tutto di noi sa e che ci ama immensamente, va “[…] tanto oltre le nostre richieste e la nostra visuale” (Confessiones, libro VIII) e ci dona la speranza della vita eterna e la felicità più vera e piena.
Affidandosi a Dio, prosegue il Padre della Chiesa, se ne trae solo giovamento, in quando Egli ha preparato per gli uomini “il farmaco della fede” e lo ha sparso “[…] sulle malattie di tutta la terra, dotato di potente efficacia” (Confessiones, libro VI).
Per godere di tutto questo, però, è necessario essere “[…] bambini nella malizia per diventare perfetti nella mente” (Confessiones, libro XIII) e sperare in Dio e pregare. “Loderanno il Signore coloro che lo cercano. Cercandolo, infatti, lo troveranno, e, trovatolo, lo loderanno” (Confessiones, libro I).

Tertulliano contro l’aborto

L’apologeta Quinto Settimio Florente Tertulliano nel suo Apologeticum condannava, già nel II secolo dopo Cristo, l’infanticidio e l’aborto, adducendo motivazioni più che condivisibili e valide ancora oggi.

Da Apologeticum, 9, 1-8 (traduzione di Onorato Tescari)

CAPO 9 — I Cristiani non meritano di essere accusati d’infanticidio e di pasti nefandi, ma essi, i Pagani. Altrettanto dicasi dell’incesto.

[1] Per riuscire a confutare maggiormente l’accusa di questi delitti, dimostrerò che da voi vengono, parte apertamente, parte occultamente, essi compiuti: per cui forse l’avete creduta anche sul conto nostro.[2] In Africa venivano sacrificati pubblicamente bambini a Saturno fino al proconsolato di Tiberio, il quale fece appendere i medesimi sacerdoti, come su croci votive, ai medesimi alberi del suo tempio che coprivano con la loro ombra tali delitti:ne sono testimoni i soldati di mio padre, che adempirono proprio quell’ufficio a quel proconsole.[3] Ma tuttora si persevera in questo rito esecrando occultamente. Non sono solo i Cristiani a non tener nessun conto di voi: non v’è delitto che venga sradicato per sempre, né dio alcuno che cambi i suoi costumi. [4] Non avendo Saturno risparmiato i propri figli, non esitava a non risparmiare quelli degli altri; tanto più che, in verità, i loro genitori stessi gli offrivano e si presentavano di buon animo, e i bimbi accarezzavano, perché si lasciassero sacrificare senza piangere. E tuttavia il parricidio differisce molto dall’omicidio. [5] Presso i Galli vengono sacrificati a Mercurio uomini di età matura. Lascio i drammi Taurici al loro teatro. Ecco, in quella religiosissima città dei pii Eneadi v’è un Giove, che, durante gli spettacoli celebrati in suo onore, aspergono di sangue umano. ‘Ma col sangue d’un bestiario’, voi dite. Si capisce, codesto è meno grave, penso, che col sangue di un semplice uomo. O non è, invece, più turpe, per il fatto che spruzzate un dio col sangue di un uomo malvagio? Non c’è comunque dubbio che è sangue versato con l’uccisione di un uomo. O Giove cristiano e figlio di suo padre soltanto in quanto a crudeltà! [6] Ma poiché per l’infanticidio non c’è differenza se venga compiuto per un rito sacro o per capriccio, sebbene fra il parricidio e l’omicidio ci sia differenza, mi rivolgerò al popolo. Fra costoro che ci stanno d’intorno e anelano avidamente al sangue dei Cristiani, anche tra voi stessi governatori giustissimi e severissimi con noi, di quanti volete che io bussi alla coscienza, i quali uccidono i loro figli?[7] Che se c’è una differenza anche intorno al modo dell’uccisione, certo agite più crudelmente voi soffocandoli nell’acqua o esponendoli al freddo, alla fame, ai cani: non c’è adulto che non preferirebbe morire di spada.[8] Quanto a noi, essendoci interdetto l’omicidio una volta per tutte, non ci è consentito di distruggere neanche la creatura concepita nel grembo, l’embrione che si sta trasformando in un essere umano. E’ un omicidio affrettato impedire di nascere, e non importa se si soffoca una vita formata o se si sopprime una vita nascente. E’ uomo anche chi sta per diventarlo; anche ogni frutto esiste già nel seme.