Il bebé è femmina? Si può abortire

Feto abortito perché femmina. Siamo nella Cina comunista? No, nella democraticissima Svezia. Le autorità sanitarie del Paese scandinavo hanno stabilito la piena legalità dell’aborto selettivo basato sul genere.

È accaduto, infatti, che una donna già madre di due figlie, si sia sottoposta ad amniocentesi per verificare il sesso del nascituro. Delusa che non fosse il maschietto che desiderava, ha chiesto ai medici di poter interrompere la gravidanza. La direzione sanitaria dell’ospedale ha investito della questione la Commissione nazionale della salute e del welfare chiedendo precise disposizioni sulla possibilità di praticare l’aborto selettivo basato sul genere, in assenza di ragioni di carattere medico.

Per la Commissione la richiesta non poteva essere rifiutata, giacché l’aborto fino alla 18ª settimana resta nell’ordinamento giuridico svedese un diritto inalienabile della donna, anche se motivato in base alla scelta del sesso del nascituro. Questo tipo di aborto selettivo sembra un po’ troppo anche per gli abortisti sfegatati di casa nostra.

Ma alle anime belle dei pro-choice nostrani verrebbe spontaneo porre una domanda. Posto che l’aborto – come ribadisce il Socialstyrelsen svedese – è un diritto inalienabile della donna, che differenza fa se il motivo per ricorrere all’interruzione della gravidanza è fondato sul sesso, sulla disabilità, sulle caratteristiche genetiche, o semplicemente sul fatto che la madre non l’aveva programmata? Ciò che è accaduto in Svezia ha il pregio di togliere il velo di ipocrisia da qualunque argomentazione pelosa. Del resto, oggi in Italia, nonostante la petizione di principi della Legge 194, vige una piena applicazione del concetto di autodeterminazione della donna: in realtà nessuno può impedire a una maggiorenne di abortire se lo vuole, qualunque siano i motivi. Anche da noi, in teoria, esiste la possibilità di praticare un aborto selettivo per genere, solo che si preferisce non dirlo. Meglio trovare altre ragioni più presentabili, magari attraverso le maglie sempre più larghe del criterio costituito dal «rischio per la salute psichica della donna».

A dispetto delle premesse, la Legge 194 ha introdotto, di fatto, nel nostro ordinamento giuridico un antiprincipio assai grave: il diritto di vita e di morte della donna nei confronti di un altro essere umano. In Svezia l’aborto è una "conquista" sociale fin dal 1938. Oggi, stando alle statistiche dello Johnston’s Archive, più del 25% delle gravidanze in quel Paese si concludono con un aborto, percentuale che ha registrato un aumento del 17% a seguito dell’introduzione della cosiddetta pillola del giorno dopo, quella che, secondo i promotori, avrebbe dovuto ridurre il fenomeno dell’aborto.

Del resto, tale fenomeno non è stato arginato neanche dal fatto che in Svezia l’educazione sessuale faccia parte dei programmi scolastici dal 1956, e che proprio la Svezia sia considerata la patria del profilattico. Questo esasperato culto per la contraccezione non ha eliminato la piaga dell’Aids né ridotto il dramma dell’aborto. Ha soltanto dimostrato che il profilattico non è la soluzione. Gianfranco Amato, presidente Scienza & vita di Grosseto (Avvenire, 8 maggio 2009)

La cecità volontaria di Bertinotti sull’aborto

Una chicca dall’intervista di Michele Brambilla a Fausto Bertinotti (Il Giornale, 21 maggio 2009):

Per lei un bimbo che cresce nella pancia della mamma non è un essere umano?
“Per me no. E anche per san Tommaso d’Aquino non lo era”.
Al tempo di san Tommaso d’Aquino non c’erano le ecografie. Oggi basta vederne una per osservare un bimbo che c’è già. Lei non cambia idea neanche di fronte a un’ecografia?
“No. Mi pare che considerare uno una persona perché si vede e si tocca sia una deriva materialistica”.

Una celebre lite tra Italo Calvino e Claudio Magris

Italo Calvino è uno dei più famosi scrittori italiani, ma non per questo è un autore di facile comprensione. Calvino è stato per anni un tesserato del Pci, ma era al contempo inziato ai segreti della massoneria, che, in realtà, dovrebbero essere ben lontani dallo spirito materialista del comunismo. Non sono un buon conoscitore dello scrittore, anche se un suo libro sul Cottolengo mi ha molto affascinato (https://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=293)

C’è però un famoso gesto di Calvino che mi ha sempre lasciato allibito e che dimostra la solita intolleranza dei "liberi" pensatori, che fanno professione di tolleranti. Sto parlando di una sua risposta a Claudio Magris sul tema dell’aborto.

Caro Magris,

 con grande dispiacere leggo il tuo articolo Gli sbagliati . Sono molto addolorato non solo che tu l’abbia scritto, ma soprattutto che tu pensi in questo modo. Mettere al mondo un figlio ha un senso solo se questo figlio è voluto, coscientemente e liberamente dai due genitori. Se no è un atto animalesco e criminoso. Un essere umano diventa tale non per il casuale verificarsi di certe condizioni biologiche, ma per un atto di volontà e d’amore da parte degli altri. (altrimenti, non è uomo, ndr). Se no, l’umanità diventa – come in larga parte già è – una stalla di conigli.

Ma non si tratta più della stalla «agreste», ma d’un allevamento «in batteria» nelle condizioni d’artificialità in cui vive a luce artificiale e con mangime chimico. Solo chi – uomo e donna – è convinto al cento per cento d’avere la possibilità morale e materiale non solo d’allevare un figlio ma d’accoglierlo come una presenza benvenuta e amata, ha il diritto di procreare; se no, deve per prima cosa far tutto il possibile per non concepire e se concepisce (dato che il margine d’imprevedibilità continua a essere alto) abortire non è soltanto una triste necessità, ma una decisione altamente morale da prendere in piena libertà di coscienza. Non capisco come tu possa associare l’aborto a un’idea d’edonismo o di vita allegra. L’aborto è «una» cosa spaventosa «…». Nell’aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell’uomo, che ogni uomo prima di parlare di queste cose deve mordersi la lingua tre volte.

Nel momento in cui si cerca di rendere meno barbara una situazione che per la donna è veramente spaventosa, un intellettuale «impiega» la sua autorità perché la donna sia mantenuta in questo inferno. Sei un bell’incosciente, a dir poco, lascia che te lo dica. Non riderei tanto delle «misure igienico-profilattiche»; certo, a te un raschiamento all’utero non te lo faranno mai. Ma vorrei vederti se t’obbligassero a essere operato nella sporcizia e senza poter ricorrere agli ospedali, pena la galera. Il tuo vitalismo dell’«integrità del vivere» è per lo meno fatuo. Che queste cose le dica Pasolini, non mi meraviglia. Di te credevo che sapessi che cosa costa e che responsabilità è il far vivere delle altre vite (2). Mi dispiace che una divergenza così radicale su questioni morali fondamentali venga a interrompere la nostra amicizia (3). Parigi 3/8 febbraio 1975

 

Nel 1981, imperterrito, Claudio Magris, in occasione del referendum sull’aborto, scriverà un altro articolo per il Corriere, schierandosi con gli avversari dell’aborto, come aveva già fatto Pasolini. Ogni articolo di Magris, allora come oggi, veniva pubblicato immediatamente. In questo caso però il Corriere aspettò a pubblicarlo all’indomani del referendum!

Andando una sera a Trisete per un incontro, ho conosciuto una coppia storica del Movimento per la Vita, e ho saputo da loro l’origine delle idee di Magris sulla vita: la moglie di Magris, poi morta, era una volontaria del Cav, e il famoso scrittore la ammirava moltissimo, per la sua dedizione agli altri, per il tempo e l’aiuto che dava alle mamme in difficoltà.

Quanto invece a Calvino, la sua posizione abortista è certo collegata ai suoi interessi esoterici e politici, che andavano fino ad una certa passione, condivisa da perecchi intellettuali di quegli anni, per i riti degli aztechi, coem racconta La Stampa del 24 dicembre 2008.

Il cannibale rampante. Ritorno sulle piramidi messicane dove Calvino venne affascinato dai sacrifici umani aztechi   di MARCO BELPOLITI  

Calvino e il cannibalismo e’ una storia messicana. Lo scrittore italiano ha visitato due volte il paese; la prima nel 1964, l’anno del matrimonio con Esther Singer, celebrato a Cuba, poi ancora nel 1976, di cui restano delle fotografie insieme alla moglie davanti alle rovine delle piramidi del sacrificio. E’ questo secondo viaggio che incuriosisce, perché ha lasciato una traccia segreta, ma duratura, nella sua opera che i lettori e gli studiosi di Calvino per lo più ignorano. Ma cosa c’entra il pasto umano con lui? Che cosa ha che fare una consuetudine così efferata con uno così scrittore razionalista? Dopo i due viaggi messicani Calvino scrive; la sua attenzione va ai sacrifici aztechi, ai riti sanguinari in cui venivano immolate sulle piramidi migliaia e migliaia di prigionieri di guerra. d d Nel 1974 scrive dell’imperatore azteco, di Montezuma: prima l’introduzione a un libro di storia, poi una «intervista impossibile» trasmessa alla radio.

La questione che lo affascina e’ senza dubbio la vicenda della Conquista: come hanno potuto i crudeli e spietati aztechi soccombere davanti a 400 soldati di ventura spagnoli guidati da Cortés? Gli interessa il problema del potere, fra due immagini del potere: gli aztechi e gli spagnoli. Si sente l’atmosfera del decennio, l’eco delle lotte politiche in corso allora in Italia e in Europa, il confronto tra civiltà così diverse. Si domanda se il destino del mondo e’ quello del dominio incondizionato dell’Occidente. S’interroga sul problema del governo quale atto di forza: il governo, scrive, dipende da un occulto uso dei rapporti di forza. Sono gli anni delle dimissioni di Nixon, della crisi della Dc, dello shock petrolifero. La preoccupazione massima di Calvino, gran razionalista, e’ in quel momento di «tenere insieme il mondo perché non si sfasci». Anni dopo tornerà di nuovo sull’argomento recensendo un libro d’antropologia e troverà una spiegazione utilitaristica ai sacrifici umani, e in particolare alla sorte toccata ai corpi degli uomini immolati agli de’i aztechi sulle are di pietra finemente scolpite, affinché il corso del sole non si modificasse e il giorno potesse nascere di nuovo. La risposta consolante la trova in Marvin Harris, autore di Cannibali e re: l’alimentazione. «Pasti di carne umana erano un contributo importante al fabbisogno di calorie», chiosa soddisfatto. Da buon ligure ciò che gli repelle e’ in definitiva lo spreco. Il cannibalismo e’ una buona spiegazione: il fabbisogno di carne. Finché sono rimasto a Guadalajara, tra gli stand della Fiera del Libro, per l’inaugurazione di una mostra dedicata a Calvino – l’Italia e’ stato il paese ospite quest’anno -, l’interrogativo di Calvino sui sacrifici umani non ha preso gran rilievo.

Poi, qualche giorno dopo, quando ho scalato le gradinate di Teotihuacan, e sono salito sulle due piramidi del periodo classico, tutto mi e’ parso insieme non solo pertinente ma anche inquietante, straordinariamente inquietante. d d Qui, tra le rovine dell’antica città, venivano gli imperatori aztechi (sacerdoti, generali, re, o altro ancora) a contemplarne i resti quasi intatti, convinti che le piramidi fossero state costruite da giganti per i loro de’i nei tempi remoti. Lì, salendo gradino su gradino, ho compreso di colpo che tutto in Messico e’ fuori misura, non solo il sole, il cielo, le città, il traffico automobilistico, il cibo, l’inquinamento, l’allegria e la malinconia dei messicani, ma anche le antiche religioni. Davvero e’ esistito un tempo in cui il cannibalismo era una norma consueta, e il sacrificio il fondamento stesso del potere.

A Città del Messico, al Museo nazionale d’antropologia, c’e’ un bassorilievo dove e’ raffigurato il sacrificio di sangue del re e della sua consorte: la donna si fa passare attraverso la lingua una lunga fune irta di spine mentre il sangue le cola su un foglio di carta che userà per il rito sacro. I capi maja, riferiscono le guide, si trapassavano il pene con una spina d’agave per ottenere il sangue con cui realizzare il rito. Si era re o imperatori, solo in virtù del proprio sacrificio. Oggi accade il contrario: i sacrifici – certo non cruenti sul piano fisico – sono chiesti ai «sudditi» e i capi moderni custodiscono gelosamente il proprio corpo affinché duri nel tempo. Nel secondo viaggio, in Messico, che tocca località con vestigia maja, a colpire Calvino non è più il cannibalismo degli altri, bensì il proprio. In questo secondo tour tra le rovine lo scrittore manda in giro il suo alter-ego, il signor Palomar: a Tule, a Palenque. Ne scrive sul Corriere della Sera, poi, a distanza d’anni, anche un racconto: Sotto il sole giaguaro.

 Probabilmente e’ sotto l’influenza di un libro del suo amico messicano, Octavio Paz, Il labirinto della solitudine: il sacrificio come «rigenerazione». Il protagonista del racconto ambientato in un ex-convento divenuto albergo, in un momento di stanca del rapporto con la moglie, Olivia, intuisce che la soluzione consiste nel cannibalismo: farsi mangiare dall’altro e insieme mangiarlo. I due coniugi comunicano attraverso i sapori della cucina messicana. Olivia e’ interessata al cibo e in particolare al sapore della carne umana negli antichi sacrifici. Lui, invece, e’ preda dell’ossessione della fine. Per ristabilire l’equilibrio l’uomo capisce che deve mangiarla, almeno simbolicamente. Così accade, e quella notte a letto ritrova l’antica intesa sessuale. Il giorno dopo, l’alter-ego di Calvino, il suo narratore, in cima alla piramide, sotto il sole a picco – il sole-giaguaro, divinità azteca – ha una visione: capisce di essere a un tempo vittima e sacerdote, vivo e morto nello stesso istante.

Nel Messico globalizzato dal turismo mondiale chi visita le sue rovine, cammina per le sue città, si tuffa nel suo mare cristallino o attraversa le sue foreste, sa in anticipo che tutto e’ come da guida. Ma fino ad un certo punto. C’e’ ancora qualcosa che resiste all’ultima e definitiva trasformazione del mondo e delle sue culture. Si chiama «anima messicana» che Paz ha descritto oltre sessant’anni fa: vedere la morte come nostalgia e non come fine della vita, poiché noi – noi messicani, scrive – «non veniamo dalla vita bensì dalla morte». Che sia stato questo ad affascinare il razionalista Calvino nel suo ultimo viaggio messicano?

Testimonianze dal post aborto.

Serena Taccari è una mamma che si dedica da anni ad aiutare le gravidanze indesiderate e soprattutto le donne che vivono le conseguenze psicologiche del post aborto, di cui ha parlato sul nostro sito la psicoterapeuta Cinzia Baccaglini (interessantissimo: https://www.libertaepersona.org/dblog/articolo.asp?articolo=517) . Sul sito della sua associazione, http://www.il-dono.org/, c’è un forum dove si trovano diverse testimonianza di donne che hanno abortito (http://www.il-dono.org/forum.html).

Ne riporto una: Giorno 24 Gennaio 2008 ho scoperto di essere incinta, ho parlato con il mio ragazzo (in quel periodo),abbiamo preso la decisione di portare avanti la gravidanza, abbiamo preso la decisione di diglielo ai nostri rispettivi genitori…ma il problema sta che quando io ho scoperto di essere incinta e poi deciso di portare avanti,lui ad un tratto è diventato "strano"eh si strano,si è allontanato da me,ed io ho capito che c’era qualcosa che non andava, gli ho parlato e gli dissi:"c’è qualcosa che non va?ne vuoi parlare un p?" lui mi rispose:che andava tutto ok!ma sinceramente non me la sono bevuta.. non si faceva sentire, al telefono era distaccato, era freddo,poi pensai ke forse aveva paura..ed è normale…lo capivo anch’io avevo paura…poi il 13 aprile lui mi ha detto o meglio ha parlato con mio padre.che non si vuole prendere nessuna responsabilità,quindi si è lavato le mani ed mi ha abbondanata,quando mio padre me la detto ci sono rimasta male…ma io mi sono presa tutte le mie responsabilità.ho detto me lo cresco io,e porterà il mio cognome..ma purtroppo… poi arriva il giorno della visita. (ero già al 5 mese)lui poi il ginecologo dopo di avermi fatto l’ecografia ha notato qualcosa al bimbo, ed mi ha mandato un altro posto,per farmi l’ecografia più intesa per vedere se il suo dubbio era realmente… io ci andai,ero insieme ai miei genitori ed la mia migliore amica (quel giorno non potr mai dimenticarlo),la dottoressa mi disse che il bambino non si era formato il cervello,al posto del cervello aveva solamente liquido… il pikkolo poteva nascere ma c’era il rischio che poteva morire dopo pochi giorni del parto oppure restare a letto e nn avere un vita sana.. cosi io e miei abbiamo deciso di abortire,ho fatto ttt le visite e cosi alla fine di aprile esattamente il 26 aprile ho abortito…ho avuto tutti gli effetti di un parto ed ho partorito con il parto naturale… da quel giorno sono cambiata, vado quasi sempre al cimitero,piango sempre, dentro di me mi sento un’assassina di aver ucciso un’anima innocente,mi sento una merda in senso della parola, sono diventata pessimista,non voglio più uscire da casa,voglio morire… mi sento vuota…non sono più con il sorriso,(mentre prima lo ero sempre),cambio umore facilmente,mi sento in colpa…ho tanta rabbia con me stessa..mi sono chiusa in me stessa…appena torno dal lavoro mi rinchiudo nella mia stanza,vado a letto presto, mi trascuro,non ho voglia di uscire e voglio restare sola nel mio dolore. Ogni volta che esco o sono al lavoro,vengono persone incinte oppure dei neonati, e mi viene in mente il mio bambino che per io non c’è lo qui…ma nel mio cuore… non riesco più vedere altri bambini che penso al mio…

La 194 ha trent’anni..e si vede!

Dovrebbe meravigliare l’ossequio che quasi tutti i politici riservano alla 194, Legge che quest’anno compie trent’anni e che – al di là della tragica realtà che ha reso possibile (dalla sua entrata in vigore fino al 2006, sono stati 4.740.007 i bambini non nati) – palesa lacune evidenti in ordine all’efficacia per il conseguimento della quale venne introdotta.
Senza fornire riscontro alcuno, si ripete che questa Legge, oltre a salvaguardare la salute e l’autodeterminazione della donna, avrebbe non pochi meriti, come il calo degli aborti legali e l’eliminazione di quelli clandestini. Questo è quello che ci raccontano, dalle loro comode poltrone, i nostri parlamentari e non solo loro.
Ma le cose sono diverse, assai diverse.
Una prima leggenda da sfatare è quella della scomparsa degli aborti clandestini: sono le stesse relazioni del Ministero a parlarne. La relazione ministeriale del 2005, ad esempio, li stima in 30 – 50 mila ogni anno: un numero spaventoso. Persino un quotidiano come L’Unità, che difende senza riserve la 194, stima questa cifra in oltre 33.000 casi annui. Che l’aborto clandestino esista ancora è comprovato pure dai numerosi procedimenti giudiziari: solo dal ’96 al 2003, ne sono stati avviati 307 , proprio in relazione al suddetto fenomeno, che molti danno per estinto. Ovviamente, quei 307 procedimenti sono solo la punta dell’iceberg. Urge soffermarci su questo punto, perché è proprio per contrastare la clandestinità degli aborti (e non gli aborti clandestini in quanto tali) che, trent’anni fa, se ne auspicò la legalizzazione.
Il fatto che molti ignorano, però, è che per plagiare l’opinione pubblica, negli anni Settanta, sugli aborti clandestini si diedero letteralmente i numeri: il Corriere della Sera del 10 Settembre 1976 li stimava essere da 1,5 a 3 milioni; in un numero dell’Espresso del 9 Aprile 1967, si parlava addirittura di 4 milioni! Mentre i quotidiani pubblicavano queste cifre assurde, uno studioso serio come il professor Bernardo Colombo, demografo dell’Università di Padova, in una ricerca elaborata con gli statistici Franco Bonarini e Fiorenzo Rossi, stimò che gli aborti clandestini, in Italia, fossero al massimo 100.000.
Questo significa che le stime degli aborti clandestini che campeggiavano sulle prime pagine dei giornali dell’epoca, erano ingigantite in modo esponenziale, talvolta persino del 4000%!
Ma torniamo ai presunti meriti della 194. Un’altra incauta affermazione è quella degli aborti legali in caduta libera. E’ vero: gli aborti legalmente procurati sono effettivamente in calo, ma solo termini assoluti. Si da il caso, infatti, che in termini percentuali gli aborti non siano affatto diminuiti.
Vediamo perché: nel 1978, anno dell’entrata in vigore della 194, nacquero 720.822 bambini e gli aborti (tutti clandestini) furono, esageriamo, 150.000. Questo significa un aborto ogni 4,8 nati. Nel 2006 i nati sono stati 554.000, gli aborti legali 133.031 e quelli clandestini, dicono le stime minime, 20.000. Quindi, nel 2006, si è verificato un aborto ogni 3,6 nascite. Il che è un evidente peggioramento rispetto al “tasso di abortività” di tre decadi or sono. Ma c’è dell’altro: non solo la 194 non ha ridotto gli aborti, ma li avrebbe persino incoraggiati. A provarlo è un’indagine ( Cavanna – Gius, “Maternità negata“, Giuffrè) che ha messo in luce come ben un terzo delle donne che ha fatto ricorso all’aborto, se non ci fosse stata la 194, avrebbe desistito da tale intento. Sulla stessa scia si colloca un’altra ricerca, dalla quale si evince che l’80% delle donne in difficoltà porterebbe a termine la gravidanza se ricevesse uno sostegno adeguato (Post Abortion Review, Elliot Institute, 2005).
La mancata efficacia non è il solo punto debole di questa Legge. Anche il testo stesso, se letto, denuncia enormi anomalie, già a partire dal nome: Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza. Ora, la 194 regolamenta l’aborto rendendolo gratuito (un aborto costa ai contribuenti italiani più di 1.000 Euro), ma non destina alcuna somma di danaro alle madri in difficoltà: in cosa consisterebbe, dunque, la tutela sociale della maternità? Mistero.
La verità è che si tratta di una norma di chiara impronta abortista (in tutti i suoi 22 articoli non viene mai nominato il termine “figlio”) e di dubbia costituzionalità, specie se si considera che il padre del nascituro ne è del tutto estromesso. Non è un caso se già alla fine del 1979, dopo poco più di un anno dalla sua entrata in vigore, le eccezioni di costituzionalità sollevate furono 19, di cui la prima risalente al 5 giugno 1978 (Tribunale di Pesaro), vale a dire ad appena 2 settimane dalla promulgazione. La Corte Costituzionale però, con motivazioni mai troppo convincenti, ha sempre confermato la costituzionalità della 194, dimenticandosi due sue sentenze (n. 9 del 19/2/1965 e la n. 49 del 16/3/71) nelle quali la vita del concepito veniva descritta come bene provvisto d’una tutela avente “fondamento costituzionale”.
Ennesima menzogna è quella che la 194, norma estremamente permissiva, tutelerebbe la salute della donna. Lo si evince operando un confronto col panorama internazionale: gli stati con una giurisprudenza restrittiva in materia di aborto sono quelli con la mortalità materna inferiore, e quindi con una più alta tutela della salute della donna. Qualche esempio? In Portogallo si registrano 8 morti materne ogni 100.000 nati vivi, in Irlanda 5 e in Polonia solo 4. Nei paesi dove la legge è più permissiva le cose sono diverse: nella civile Inghilterra si verificano 13 morti materne ogni 100.000 nativi vivi, mentre negli Stati Uniti questo numero sale a 17 e in Russia arriva addirittura a 67. Sarebbe dunque tempo di chiedersi quanto effettivamente viene fatto in Italia per scoraggiare le donne ad abortire, evento che incrementa il rischio di cadere in depressione clinica del 138% (British Medical Journal, 19/1/2002), per non parlare dell’accrescimento del rischio dei suicidi, fenomeno purtroppo assai documentato.
Sempre in riferimento alla depressione, c’è da dire che è stato dimostrato come portare a termine una gravidanza non desiderata è meno pericoloso, per la donna, che interromperla (British Medical Journal, 3/12/2005).
Ma la 194, come già detto, non predispone alcuna forma di sostegno per la donna gravida, abbandonata letteralmente a se stessa, alla faccia della prevenzione che dovrebbero praticare i consultori.
A proposito di questi, la giornalista Stefania Antonetti, fingendosi incinta, ha deciso di visitarne alcuni per scoprire quanto venga osservato il quarto comma dell’articolo 2 della 194, che prescrive espressamente che nei consultori si faccia prevenzione al fine di “far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza“. Risultato: Stefania Antonetti ha scoperto che laddove il medico è più zelante, il tutto si risolve in 900 secondi, vale a dire un quarto d’ora.
Solitamente però, l’opera preventiva dei consultori si protrae cinque, dieci minuti al massimo: pra
ticamente il tempo che la donna impiega a sedersi, a farsi scrivere il certificato di aborto, a salutare e andarsene. Osserva Antonetti che “nessuna donna può contare su un aiuto […] pochi pochissimi i segnali di conforto psicologico, e molta invece la fretta” (Il Giornale, 9/1/2008).
Alla luce del fatto che quando la 194 venne approvata, gli stessi parlamentari che la votarono la definirono norma perfettibile, come provano gli interventi allora tenuti alla Camera, non si capisce cosa ci sia di scandaloso nel proporre modifiche migliorative a questa Legge che, al di là della questione morale, presenta limiti innegabili. Viene il dubbio che, una volta legalizzatolo, molti abbiano deciso di considerare l’aborto questione chiusa, mentre esso costituisce, ogni volta, una sconfitta non solo per la donna, ma per l’intera società, che si rende incapace di accogliere il più indifeso degli essere umani, il nascituro.

BIBLIOGRAFIA

F. AGNOLI, Storia dell’aborto nel mondo, Fede & Cultura, 2008
P.G. LIVERANI, Aborto anno uno, fatti e misfatti della legge 194, Ares 1979
M. PALMARO, Ma questo è un uomo, San Paolo, 1996
A.M. VALLI, La verità di carta, i giornali e l’aborto , Ares 1986

Citotec, Ru, e aborti clandestini sempre più diffusi.

Ancora non sappiamo cosa succederà in Italia con la famosa kill pill, la Ru 486, di cui tanto si è parlato negli anni scorsi. Sicuramente l’opera paziente e tenace di Assuntina Morresi ed Eugenia Roccella per stanare le mille bugie diffuse intorno a questo veleno chimico, hanno contribuito a placare le urla dei sostenitori dell’aborto veloce, indolore e a misura di donna. Qualcuno si deve essere accorto che c’è chi vigila, ed avendo le cartucce un po’ bagnate sta valutando attentamente il da farsi.

Anche nella mia città, dove la somministrazione era cominciata con Emilio Arisi, prima in sordina, poi con squillo di fanfare, ora, non si sa perché, si è fermata. Forse hanno ragione Cesare Cavoni e Dario Sacchini, autori di una dettagliatissima analisi, La vera storia della pillola abortiva RU 486 (Cantagalli), quando spiegano che “senza la stampa, la RU 486 sarebbe rimasta nei cassetti dei ricercatori. Senza la stampa i governi (specie quello americano e francese) non sarebbero mai intervenuti nella vicenda. Senza i titoli a nove colonne, che andavano annunciando una rivoluzione farmacologia senza pari in seguito all’invenzione degli anticoncezionali, i ricercatori che posero mano all’Ru 486 non avrebbero probabilmente avuto credito per proseguire nelle ricerche”. Sì perché la pillola indigesta è stata lanciata e resa digeribile a livello mentale, dalla propaganda assordante dei media, prima ancora che a livello farmacologico, rimanendo tuttavia un metodo, “neppure il più sicuro e neppure il più efficace e neppure il più scelto dalle donne e neppure il più inseguito dalle aziende e neppure il più amato dalle femministe e neppure il meno costoso”.

Ma mentre si aspetta, per capire cosa succederà, per vedere se una eventuale introduzione della Ru 486 aprirà finalmente la strada all’aborto casalingo e fai da te, per grandi e piccine, come desiderano alcune elite gnostico-nichiliste, sarebbe bene riflettere sul fatto che l’Italia è oggi un paese che, come ricorda il demografo Blangiardo, ha una abortività più bassa rispetto ai paesi dell’est, devastati dalla cultura comunista, ma più alta di Svizzera, Germania, Belgio, Olanda, Spagna e Finlandia, al punto che “siamo un paese che da trent’anni è sotto il ricambio generazionale”. Un paese che ansima, che pian piano muore di propria mano, e apre le sue porte, di una casa ormai vuota, ad un numero medio costante, se si vuole mantenere stabile il numero dei nati, di 450 mila immigrati l’anno (AAVV, “Legge 194”, Gribaudi 2008). Un numero sostenibile? Una prospettiva allettante?

Mentre aspettiamo che ci dicano qualcosa sulla RU 486, e dopo che i fatti di Genova hanno dimostrato, come ha ammesso Giovanni Monni, presidente dell’associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri italiani, che il fenomeno degli aborti clandestini va ben oltre i 20 000 casi annui di cui parla l’Istituto superiore di sanità, sarebbe bene raccogliere l’allarme lanciato da alcuni insigni ginecologi italiani, come ad esempio Bruno Mozzanega, dell’Università di Padova, su un altro abortivo chimico, il Citotec (farmaco utilizzato solitamente come gastro-protettivo). Mozzanega è partito dall’esperienza personale maturata durante i turni di servizio come responsabile di guardia presso la Clinica ginecologica di Padova: nell’arco di un anno e mezzo si è trovato ad assistere personalmente ben nove pazienti che avevano assunto clandestinamente il Cytotec, al fine di procurarsi un aborto clandestino. “Le pazienti, scrive il medico, tutte straniere, presentavano quadri di emorragie con anemizzazione acuta e si erano pertanto rivolte all’ospedale pur avendo ricevuto tassative raccomandazioni di attendere a domicilio l’espletamento dell’aborto”, e due di esse erano “al limite stesso del pericolo di vita”. Una rapida ricerca su internet dimostra che l’utilizzo del Cytotec per abortire clandestinamente è piuttosto diffuso: vi sono siti abortisti che danno indicazione sul prezzo, e che raccontano nel dettaglio le modalità più singolari per ottenerlo, al mercato nero, dalla Cina, dalla Romania, o tramite Internet. Silvio Viale il medico radicale che ha rilanciato in Italia la Ru 486, ha scritto un articolo il cui titolo, “Cytotec: legittima difesa”, dice già tutto di cosa significhi in verità una mentalità del diritto all’aborto. “C’è un surplus di 12 mila aborti spontanei che risulta dai dati Istat e che nessuno sa bene cosa rappresentino”, conclude Mozzanega, confermandomi nell’opinione che dell'”aborto clandestino”, ora che la legge c’è, non interessa nulla a nessuno. Prima bisognava parlarne ad ogni piè sospinto, e occorreva inventare cifre astronomiche, pur di farsi sentire. Ora è meglio tacere.

In conclusione un breve pensiero che sorge spontaneo pensando alle infinite vittime dell’aborto e alla tristezza della nostra società: “Io ho quello che ho donato”, ha scritto D’Annunzio sulle pareti del Vittoriale, riprendendo un concetto ben più antico di lui. Il filosofo francese Luc Marion nota che “la vita, per sopravvivere, deve essere donata”, perché “non possiamo avere vita, dobbiamo riceverla”. Se è vero che oggi siamo sempre meno capaci di ricevere e di donare vita, allora è anche vero che, illusi di avere di più, più “diritti”, abbiamo, in verità, sempre meno. Non si ha, se non si dona.

p.s Dopo il caso di Genova (aborti clandestini a pagamento, per non perdere uno show televisivo), la notizia riportata ieri dai Corriere: aborti clandestini, (sino a che data? Come a Roma, sino anche al nono mese?) a Napoli, in cambio di sesso o di soldi, dai 500 agli 8000 euro!

Silvio Viale, candidato del PD, sull’aborto terapeutico.

… E come si stabiliscono gli aborti terapeutici? “In Italia non si fa un aborto terapeutico perché il feto è malformato, ma in base alla salute psichica e fisica della donna. In vent’anni di interventi mi sarà capitato un paio di volte di fare un aborto terapeutico per la salute fisica di una donna”.

Tutti gli altri? “Per la salute psichica della donna. Che vuol dire anche far abortire feti sani“.

Lei ha fatto aborti terapeutici di feti sani? “Certo. Lo prevede la legge. Ripeto è un problema di salute psichica della donna”. In quali casi, ad esempio? “Non so: vogliamo parlare di una quindicenne che scopre di essere incinta al quarto mese?”. Oppure? “Una donna che alla quindicesima settimana mi chiede un aborto terapeutico ed è gravemente depressa?”. Ma come ci si regola in questi casi? “Tocca al medico valutare il reale stato psichico della donna. ? una responsabilità importante. La stessa Veronica Lario ha raccontato di aver fatto un aborto terapeutico negli anni Ottanta. Ed è stato importante, visto i tre bei figli che poi ha avuto”. Lei si rende conto che ci sono medici e medici nel nostro Paese? “Certo, ma mi rendo conto anche che c’è molta ipocrisia”. Che vuol dire? “Prendiamo il caso di feti malformati: davanti alla diagnosi la reazione delle donne è sempre la stessa, abbiano o no il crocifisso al collo. Eppure il 99% dei medici obiettori di coscienza si offre di fare una diagnosi prenatale. Dopo spediscono le donne ad abortire da me o da medici come me”. Lei è favorevole anche all’eutanasia? “Assolutamente sì. E c’è di più”. Cosa? “Sono convinto che pure per quella non resta che aspettare. Come successe per la Ru486. Io nel 2001 dissi: non ho fretta, arriverà. E ci siamo. Così succederà per l’eutanasia: arriverà”. I radicali l’hanno candidata per la corsa al Partito democratico: è ufficiale? “Non ci sono veti sul mio nome “. Corriere, 23/2/2008

D’Annunzio, Huysmans e i bambini lasciati morire sul davanzale.

Un bimbo esposto sulla finestra, al gelo, perché muoia. Un innocente che richiede ogni attenzione e ogni cura, perché da solo non può nulla. Affidato totalmente all’amore dei suoi genitori. Un agnello sacrificale, come Gesù, misteriosamente in balia della bontà e della cattiveria degli uomini. Misteriosamente chiamato, con la sua grazia, con la sua dolcezza, con la sua piccola anima bianca, a commuovere un uomo e una donna già adulti, già sazi di esperienze, di amori, di lusso, di peccato. Chiamato a purificare il loro sguardo, i loro pensieri, ormai da tempo insudiciati dalle miserie del mondo, da tempo persi in “selve oscure” che non lasciano intravedere il cielo.

E’ questo bambino, è la redenzione che promette, con i suoi occhi puliti e profondi, senza malizia, la sua pelle candida, e le sue manine innocue, che occupa la mente di Gabriele D’Annunzio, quando decide di scrivere il romanzo “L’innocente”; quando sceglie di produrre scintille mettendo a confronto il sentimento della sua miseria, della malattia interiore del suo animo degradato dal piacere e dall’infedeltà, con qualcosa di puro, di immacolato, di innocente, appunto. Beati immaculati: così scrive, il poeta soldato, nell’incipit del romanzo, in cui il protagonista, Tullio Hermil, narra la sua storia, i suoi amori disordinati, le sue impulsività demoniache, che lo hanno spinto ad uccidere un bimbo appena nato, esponendolo al gelo di un davanzale. Tullio Hermil è un alter ego di D’Annunzio. E’, a me sembra, l’ammissione del grande retore dell’impossibilità per l’uomo di vivere al di fuori della legge, e quindi dell’amore di Dio. Perché alla fine di tutto, il rimorso per aver violato l’innocenza urla dentro di lui, sebbene offuscato dall’orgoglio e dalla negazione, implicita, di Dio e della sua misericordia. Così inizia il romanzo: ” Andare davanti al giudice, dirgli: ‘Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l’ho uccisa… Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi.’ Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi. Eppure bisogna che io mi accusi, che mi confessi. Bisogna che riveli il segreto a qualcuno. A Chi?”.

A chi, se non all’Innocente per eccellenza, immolato per i nostri peccati, che si è fatto bambino e si è offerto così alla nostra libertà? Ma D’Annunzio poteva credere nel peccato, perché lo viveva ogni giorno, perché sapeva riconoscere, a tratti, di essere ormai “stanco di mentire”. Ma forse non aveva la forza per umiliarsi, per chiedere perdono, esattamente come Giuda: di qui i suoi vari tentativi di suicidio. E’terribile dover dire “a Chi?”, e non trovare risposta. Questo vecchio romanzo, “L’Innocente”, mi è venuto in mente quando ho letto, sul Corriere del 4 febbraio, quello che già si sapeva: che vi sono bambini “sopravvissuti all’aborto lasciati morire di freddo”, “messi sul davanzale delle finestre o addirittura in frigorifero per affrettarne la fine, o semplicemente abbandonati a se stessi, sul tavolo operatorio, così da sollevare dall’imbarazzo genitori e medico”. Leggendo, ho pensato che il decadente D’Annunzio, il perverso poeta fiumano, nemico giurato di Dio, pagano sin nel midollo, attento solamente a mordere “frutti terrestri”, succube della magia e della superstizione, schiavo dei sensi, oltre cent’anni fa sapeva ancora stupirsi dinnanzi all’innocenza. Sapeva ancora sognarla, a momenti, e rimpiangerla.

Ho pensato anche ad un altro decadente, che D’Annunzio ben conosceva, il francese Joris Karl Huysmans, e al suo “La bas”. E’, questa, la storia di Durtal, un alter ego dell’autore, che giunge pian piano dalle bassezze del piacere fine a se stesso, sino all’abisso del satanismo. Nel suo peregrinare intellettuale, si interessa alle vicende di Gilles de Rais, un uomo pio, seguace fedele e coraggioso di Giovanna d’Arco, della limpida “vergine d’Orleans”, divenuto poi, dopo la morte di lei, mago, spiritista, e “violentatore di bambini, sgozzatore di ragazzi e fanciulle”. Gli innocenti, coloro che si fidano, divennero per Gilles le prede più ambite, sinché, “non potendo più scendere, tentò di tornare sui suoi passi”, si pentì dinanzi ai suoi giudici, ai genitori delle vittime e fu accompagnato alla pena di morte, tra le lacrime e le dimostrazioni di pietà. Anche Durtal, come Gilles, sperimenta il culto del Maligno, scende nel suo inferno, passo dopo passo, sino a partecipare a cerimonie in onore di Satana. Ad un certo punto del romanzo riporta proprio una preghiera al Signore del Male, che ha udito con le sue orecchie: “…Tu salvi l’onore delle famiglie con l’aborto di ventri fecondati nell’oblio di leciti orgasmi; tu suggerisci alle madri un rapido aborto e la tua ostetricia risparmia le angosce della maturità, il dolore delle cadute, ai bambini che muoiono prima di nascere”.

Dopo la preghiera, racconta Durtal, un sacerdote apostata profana l’ostia monda, l’ostia santa, l’ostia immacolata: l’Innocente. In seguito ad esperienze analoghe a quelle di Durtal, Huysmans approderà alla fede, e scriverà: “E’ attraverso la visione del soprannaturale del male che ho avuto la prima percezione del soprannaturale del bene. Con la sua zampa adunca il demonio m’ha condotto verso Dio”. L’innocenza violata, oggi, da coloro che lasciano morire i bambini sul davanzale, dai nuovi pedofili in serie alla Gilles de Rais, porterà ancora ai grandi pentimenti, o la trasmutazione del male in bene, il peccato più grave perché “chiude la porta al pentimento”, ha ormai offuscato del tutto i nostri cuori?

Le cifre sulla aborto: prima e dopo la legge 194.

Le cifre sull’aborto sono spesso oggetto di dibattiti e di svariate interpretazioni. Molti infatti si appellano proprio ad esse per sostenere il proprio apprezzamento o meno per l’efficacia della legge 194/1978. Sarà dunque bene una breve analisi dei fatti, prima e dopo la legge 194 in Italia.
Possiamo partire, per una comprensione più ampia, da Bernard Nathanson, il celebre medico americano fondatore a New York della “Lega d’azione per il diritto all’aborto”, nel 1968, e direttore, all’epoca, della più grande clinica per aborti del mondo, il Crash. Costui, dopo aver effettuato, tramite i suoi medici, ben 75.000 aborti, di cui 15.000 di sua mano (“ho fatto abortire i figli dei miei amici, colleghi, insegnanti e conoscenti”), ha riveduto le sue posizioni, divenendo un difensore della vita sin dal suo concepimento. Ha così iniziato a raccontare, nei suoi libri e nelle sue conferenze, le tecniche propagandistiche tipiche degli abortisti di tutto il mondo, usate a suo tempo da lui stesso, volte a capovolgere e indirizzare l’opinione pubblica. La modalità principale, racconta nei suoi scritti, era quella di fornire “sondaggi fittizi”, nei quali il numero dei favorevoli all’aborto veniva volutamente gonfiato, allo scopo di rendere “normale”, accettabile, l’idea stessa dell’aborto: “il pubblico, al quale dicevamo che tanti erano per l’aborto, mutò opinione, e diventò davvero favorevole all’aborto” (Il Foglio, 23/4/2005).
L’altro argomento usato come grimaldello per scardinare il buon senso comune, racconta sempre Nathanson, era quello degli aborti clandestini: bastava urlare ai quattro venti che le donne, anche senza legalizzazione dell’aborto, abortivano ugualmente, in modo clandestino, senza alcuna sicurezza per la loro salute, col rischio addirittura della vita. In tal modo poteva sembrare che la legalizzazione fosse in qualche modo un male minore, il tentativo di rendere almeno controllabile e più “sicuro”, per le donne, un fenomeno già esistente e, anzi, vastissimo. In realtà le cifre venivano gonfiate in modo incredibile, e si fingeva di conoscere qualcosa che di per sé era, per definizione, inconoscibile: il numero di aborti praticati, appunto, clandestinamente! Parlavamo di un milione di aborti clandestini l’anno, conclude Nathanson, quando ve ne erano, forse, 100.000!

La stessa tattica inventata da Nathanson e dai suoi compagni di strada, viene adottata in quegli stessi anni anche in Italia. Nel 1971 infatti il Psi presenta al Senato una proposta per l’introduzione dell’aborto legale, libero, e gratuito, affermando che vi sono in Italia tra i 2 e i 3 milioni di aborti annui, e che circa 20.000 donne all’anno muoiono a causa di questi interventi. Nel successivo progetto di legge, sempre socialista, presentato alla Camera il 15/10/’71, il numero degli aborti annui rimane stabile, mentre quello delle donne morte per pratiche abortive clandestine sale, chissà come, a 25.000. Tali cifre vengono riprese come attendibili da tantissimi giornali (“Espresso”, 26/4/ 1970: tra gli 800.000 e i 3 milioni di aborti clandestini l’anno; “Corriere della sera” del 10/9/’76: da 1,5 a 3 milioni di aborti clandestini l’anno; “Il Giorno” del 7/9/’72: da 3 a 4 milioni l’anno…; “Alto Adige”, 31/10/80: da 850.000 a 1.200.000; “Corriere della sera”, 19/1/1981: 800.000). Le femministe diffondono anch’esse cifre improbabili: celebre lo slogan “Ecco cosa avete fatto voi, difensori della vita, 3 milioni di aborti clandestini, 20.000 donne morte”, che compare in quegli anni su molti cartelli durante le manifestazioni.

Per meglio inquadrare la vicenda ricorro brevemente a due libri scritti negli anni delle discussioni infuocate, prima che l’aborto fosse legale in Italia (1978): “Da Erode a Pilato” (Marsilio, 1973), di Giuliana Beltrami e Sergio Veneziani, e “L’aborto, un dilemma del nostro tempo” (Etas Kompass, 1970). Come ho scritto nel mio “Chiesa, sesso e morale” (Sugarco), “si tratta di testi favorevoli alla legalizzazione dell’aborto, la cui lettura risulta, soprattutto oggi, molto istruttiva. Nel primo si sostiene addirittura che in Italia, prima della 194, vi sono donne “che hanno abortito già dieci, venti volte”, in modo clandestino. Anzi, mentre nel mondo ci sarebbero circa un aborto ogni quattro nascite, in Italia è lecito ritenere che il rapporto sia invertito, e che vi siano nientemeno che “quattro aborti per ogni nascita”. Sebbene la cifra degli aborti clandestini non sia chiara, sostengono ancora gli autori, essa si muove certamente tra il milione e i tre milioni di aborti ogni anno. A pagina 33 si arriva addirittura ad affermare, dimenticando quello che si è scritto poco prima, che vi sono donne “che compiono, nel corso della loro esistenza, fino a trenta e più atti abortivi”: in fondo, infatti, il raschiamento di quello che viene definito semplicemente “uovo”, “non è più difficile né pericoloso di un’asportazione di tonsille”.

Il secondo libro raccoglie gli atti di un Congresso Internazionale sull’aborto avvenuto a Washington nel 1967. Vi si parla di alcune ricerche sugli aborti clandestini negli Usa, e le cifre ipotizzate vanno dai 160.000 aborti illegali annui ad un massimo di 1.200.000. Agli atti del Convegno è allegato un saggio di Carlo Smuraglia, cui spetta descrivere la situazione italiana: vi si apprende che il numero di aborti clandestini in Italia, attestandosi tra l’uno e i due milioni, sarebbe di gran lunga superiore a quello degli aborti in America, pur essendo gli Usa quattro volte più popolati!”. Questa dunque è la qualità del dibattito sull’aborto in quegli anni: tutti sparano cifre, allo scopo di rendere la legalizzazione dell’aborto un evento inevitabile. L’Espresso del 9 aprile del 1967 arriva a sostenere che “nella sola provincia di Milano gli aborti clandestini sono almeno 50.000 al mese”, il che significa 600.000 all’anno! In tutta Italia sarebbero 4 milioni!

La verità è che studi seri in Italia, in quegli anni, ve ne è uno solo, a cura del professor Bernardo Colombo, demografo dell’Università di Padova, scritto con l’ausilio di altri due professori della medesima università, entrambi docenti di Statistica, i professori Franco Bonarini e Fiorenzo Rossi. Lo studio è intitolato “La diffusione degli aborti illegali in Italia” (1977), ed è una analisi attenta e precisa di tutte le “voci” e i dati parziali sull’aborto clandestino. Colombo dimostra che le cifre proposte dagli abortisti sono false con varie argomentazioni, ad esempio sottolineando come per mantenere la media di 1 milione di aborti clandestini annui è necessario che almeno il 50% di tutte le donne italiane in età feconda abortisca esattamente 5,3 volte nell’arco della propria vita riproduttiva. La cifra che lui propone come attendibile è quella di 100.000 aborti clandestini annui tra il 1970 e il 1975, e forse anche meno. Nel 1978 entra in vigore la legge 194 sull’aborto.

Ebbene, nel 1979 gli aborti legali sono ufficialmente, né 1, né 4 milioni, ma 187.752! Come è possibile che gli aborti siano diminuiti, ora che sono legali, gratuiti, liberi nei primi tre mesi, mentre prima erano illegali e determinavano punizioni penali per il medico e per la donna? Quanto poi alle donne morte per pratiche clandestine basterebbe consultare, per esempio, il Compendio Statistico Italiano del 1974: vi si legge che in Italia, nell’intero anno, sono morte 9.914 donne tra il 14 e i 44 anni, e cioè in età feconda. Fossero decedute anche tutte per aborto clandestino, cosa assolutamente assurda, non sarebbero comunque né 20.000 né 25.000!

Sulle cifre dell’aborto si discute anche per quanto riguarda l’efficacia della 194 negli anni. Il professor Flamigni, e come lui molti altri, afferma: “la legge 194 è una legge che ha dato buona prova di sé ,che ha diminuito il numero degli aborti in modo significativo (erano 234
.000 nel 1982 e sono stati 129.000 nel 2005)” (l’Unità, 10/1/2008). Similmente si esprime l’ex ministro della salute Livia Turco: ” Grazie alla 194 le interruzioni di gravidanza tra le donne italiane sono diminuite del 60% dal 1982″ (Io donna, 26/1/2008). Si tratta dunque di una opinione diffusa, che però non corrisponde a verità. Anzitutto la legge 194 è entrata in vigore nel 1978: perché allora contare la diminuzione degli aborti dopo il 1982? Cosa è successo tra il 1978 e il 1982? Come fingere che questi anni non esistano? Le cifre ufficiali parlano chiaro: dai 68.000 aborti del 1978 (metà anno), si è passati ai 187.752 del 1979 (mentre mantenendo la media dell’anno prima avrebbero dovuto essere 134.000, cioè 68.000 per due), ai 220.263 del 1980, ai 224.377 del 1981, ai 234.377 del 1982.

Una crescita costante, dunque! Addirittura sappiamo che gli aborti sono cresciuti notevolmente, mese per mese, già a partire dal primo semestre di applicazione della 194, cioè la seconda metà del 1978, che ha appunto visto un grosso aumento del ricorso all’aborto soprattutto negli ultimi due mesi dell’anno! Dopo il 1982 è iniziata una leggera flessione, sino ai 191.469 aborti del 1987: cifra quest’ultima che si attesta comunque al di sopra del dato iniziale del 1978 e del 1979. Se ne deduce quindi che la 194 ha inizialmente aumentato gli aborti, che sono rimasti ad un livello molto alto sino al 1987, e che hanno iniziato a calare significativamente solo più avanti. Ma perché col tempo gli aborti sono diminuiti sino ai 129.588 del 2005? In base a quanto si è visto, e tenendo conto del fatto che la 194 è stata applicata sempre con gli stessi criteri, senza modifiche, è impossibile pensare che una legge che sino al 1982, e anche dopo, ha determinato un progressivo aumento degli aborti, abbia, sempre lei, determinato poi un flusso inverso.

Gli esempi di altri paesi ci vengono incontro: sono numerosi gli Stati in cui l’aborto, dopo una impennata costante nei primi anni di legalizzazione, col tempo ha iniziato a diminuire. Dalla Russia, in cui il ricorso all’aborto è calato del 21% negli ultimi cinque anni, senza che intervenisse nessuna modifica legislativa, alla Croazia, che ha visto crollare gli aborti dell’88% negli ultimi anni, anche in questo caso senza nessuna modifica legislativa. Anche negli Usa si registra lo stesso fenomeno: dopo la legalizzazione dell’aborto nel 1973 il ricorso a tale pratica è via via cresciuto, sino ad 1,6 milioni di aborti nel 1990. Nel 2005 invece gli aborti sono stati 1,2 milioni: non erano mai stati così “pochi”. Perché, visto che in tutti questi casi, come si diceva non è cambiato nulla dal punto di vista legislativo?

A determinare la diminuzione degli aborti, in Italia come altrove, sono stati altri fattori: da una parte la maggior consapevolezza nelle persone della drammaticità dell’aborto, permessa sia dalla maggior conoscenza dello sviluppo fetale sia dai sempre più numerosi studi sul trauma post aborto nella donna. Dall’altra occorre che vengano considerati alcuni fatti: è diminuita la fertilità generale; sono diminuite le coppie in età fertile; è aumentato enormemente il ricorso alla pillola del giorno dopo, con potenzialità abortive; sono rimasti gli aborti clandestini, di cui non si conosce l’entità, e che la legge 194 ha depenalizzato rispetto al passato; aumentano i bambini salvati dalle associazioni di volontariato; non mancano numerosissimi casi, che vengono alla luce solo di rado, di aborti procurati sistematicamente spacciati per spontanei, o di medici che spingono le donne ad abortire nei loro centri privat…Ma soprattutto: in Italia dal 1995 circa, pur essendo leggermente diminuito il numero degli aborti totali, è rimasto invariato, ed è anzi in certi anni cresciuto, il tasso di abortività….

La sindrome post aborto…l’aborto come suicidio…

L’aborto è anche un suicidio, perchè tutto ciò che è spirituale è anche materiale, e viceversa….

Quando uno ha già qualche anno,non necessariamente più di trenta, è preso talvolta dai ricordi. Il volto di un amico non più frequentato, un gioco, un passatempo, un’avventura dolorosa o felice, risalgono dal pozzo della memoria sino alla superficie, con un gusto agrodolce: ciò che è stato non è più, eppure è ancora nostro. Ciò che è stato non possiamo più riprenderlo, purtroppo, e ci sfugge via. Però non è finito per sempre, in verità, perché ha contribuito a renderci ciò che siamo.

Ogni esperienza vissuta si imprime più o meno fortemente in noi, nel nostro animo e nel nostro corpo. Siamo così, un sinolo di materia e forma, di anima e di corpo, come diceva Aristotele. I materialisti non possono capirlo, perché vedono solo materia che si muove. Gli spiritualisti neppure, perché non capiscono cosa c’entri quel corpo, che pure, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, ostinatamente c’è, nonostante il loro desiderio di trascenderlo, di essere puro spirito, di “liberarsi”. Tutta la nostra storia è qualcosa di spirituale e di fisico, una fusione armoniosa e inestricabile. Il nostro affetto, che sentiamo nel cuore, che non tocchiamo, che ci sembra a tratti infinitamente grande, verso la persona amata, si traduce in un abbraccio, in una fatica, in un servizio, insomma in qualcosa di concreto.

Il nostro odio diventa parole, sentimenti, gesti, digrignare di denti. Così, quando abbiamo una relazione con una persona dell’altro sesso, una relazione affettiva naturale, questa diviene col tempo anche unione carnale, fisica, perché la nostra unità lo esige. Esige che amiamo con tutto noi stessi. Ma se abbiamo amato così, non possiamo poi tirarci indietro pensando che sia senza conseguenze: non possiamo divorziare, senza strappare il nostro passato e quindi anche il nostro presente, e il nostro futuro, senza che tutto ciò che ci portiamo addosso urli a noi stessi, di esistere, di essere stato, di essere in qualche modo ancora. Ma soprattutto, visto che è questo di cui si parla in questi tempi, nessuna madre e nessun padre possono pensare, dopo aver concepito un bambino, di potersene disfare impunemente, con un gesto, fisico, una IVG, come si suole dire con terminologia beffarda.

Ciò che è stato concepito, c’è, esiste, e vive nel cuore e nella carne del padre, anche se lo rigetta, perché in lui vive il gesto che ha determinato il concepimento, e la consapevolezza latente del suo significato. Esiste, soprattutto, il concepito, nella psiche, nella carne della madre. Il bambino non è parte della madre, come dicono gli abortisti, cioè proprietà di lei, come una casa o una macchina, come qualcosa che si possiede, ma che è altro da noi, fuori di noi. Quel bambino è parte della mamma esattamente quanto la mamma è parte di quel bimbo. Parte, sempre, in senso carnale, perché il bimbo è formato dall’ovulo della madre, nutrito in simbiosi dalla madre e ospitato dal suo grembo; “parte” anche spirituale, il concepito, perché in un certo senso “tutto ciò che è spirituale è anche carnale” e “tutto ciò che è carnale è anche spirituale”. Mi sorprende che quando si affronta il problema aborto, questa verità così concreta non sia quasi mai sottolineata.

Quando il feto viene ucciso, intendo, anche una parte della madre viene uccisa: una “parte” fisica e una “parte” spirituale; anche una parte del padre muore, per sempre. Anche una parte del loro amore, se ne va, tanto è vero che vi sono coppie, come raccontano medici che hanno seguito questi casi, che si separano in seguito ad un aborto; altre che resistono, ma senza più amarsi come prima, tenute insieme magari dal rimorso di quello che hanno fatto e dal ricordo di chi ora potrebbe essere con loro. L’atto chirurgico, è vero, stacca e uccide qualcosa che sembra a sé stante, che appare, superficialmente, una vita autonoma, seppure ospitata: in verità quella vita era sì individuale, unica, ma era anche l’incontro biologico e spirituale delle vite dei suoi genitori; era anche parte del sangue, del corpo, dello spirito, dei pensieri, dei sogni, della madre (e del padre).

Trovo conferma di queste mie riflessioni, studiando un po’ la letteratura medica sul post aborto, ad esempio nei bellissimi saggi dei dottori Rigetti, Casadei e Maggino, compresi nel libro “Quello che resta” (editrice Vita Nuova), sapiente mescolanza di saggi scientifici e di testimonianze di donne. In questo testo si spiega chiaramente che “il lutto dell’aborto è plurimo, perché le perdite da affrontare sono molteplici e strettamente concatenate le une con le altre…una donna che interrompe la gravidanza soffre sia per la perdita del bambino che per la perdita di una parte della propria immagine come persona (nei diversi ruoli di figlia, donna, compagna, cittadina, appartenente ad una comunità religiosa ecc)”. Secondo il DSM III dell’American Psychiatric Association, infatti, l’aborto è considerato un evento traumatico in quanto “produce un marcato stress, tale da creare disturbi alla vita psichica; sopprime gli elementi di identificazione (della donna) col bambino; nega la gravidanza ma anche quella parte del sé che si era identificata col bambino”.

Le conseguenze, guarda caso, sono di tipo fisico e spirituale: “disturbi emozionali, della comunicazione, dell’alimentazione, del pensiero, della sfera sessuale, del sonno, della relazione affettiva…”. Assai sintomatica di quanto si è detto finora, mi sembra proprio l’esistenza dei disturbi affettivi e sessuali, che si giustifica appunto come reazione ad una esperienza sessuale, affettiva, di cui non è rimasto nulla, o meglio di cui permangono sensi di colpa, rabbia, paura, ripensamenti….Le occasioni del manifestarsi della sindrome post abortiva sono anch’essi assai eloquenti: compaiono di solito in occasione di una nuova gravidanza, di un aborto spontaneo, di perdite affettive, di sterilità secondaria…

Ecco perché una esperienza d’amore che si conclude con un aborto, non rimane limitata a quel rapporto, a quella storia, ma si trascina e ripercuote anche su un’altra esperienza affettiva, proprio perché la donna, la persona, è una, sempre quella, pur nella molteplicità delle esperienze. Per questo l’aborto si può configurare, almeno in parte, anche come un suicidio, o, come scrivono alcuni psicologi, un “lutto complicato” in cui si “rende necessaria l’elaborazione sia della perdita dell’oggetto (il bimbo), sia della perdita simultanea e concreta di una parte del Sé”, sia aggiungerei, di un perdita almeno parziale del rapporto col coniuge. Ha scritto la dottoressa Lerda, su una rivista fortemente a sostegno della 194 come “Contraccezione, sessualità e salute riproduttiva”: “Sia che la donna cerchi di cancellarne il ricordo, sia che continui a sentirne il peso, si tratta comunque di un lutto che si porterà dietro tutta la vita. E’ una scelta che influenzerà anche il rapporto con il partner e con gli eventuali partner successivi, una scelta che peserà nuovamente in caso di altre gravidanze”.