Le rose di Kampala

Nei quartieri poveri della capitale ugandese la speranza rifiorisce tra un gruppo di donne contagiate dall’Aids. Storia di Rose e delle sue amiche di Gianni Valente

La collina di Kireka non è come le altre. Sui sette colli del centro di Kampala, le case dei ricchi e i compound blindati degli stranieri e dei politici occupano saldamente le sommità delle alture. Sembrano isole sospese a galleggiare sul mare di fango, uomini, lamiere e miseria che brulicano lì sotto, negli slum affastellati tra un colle e l’altro, come fossero ammassi di detriti raccolti a valle dopo qualche temporale africano. A Kireka, invece, le baracche dei poveri, gonfiate dalle onde dei fuggiaschi di guerre dimenticate, hanno espugnato anche la cima. Fino ad abbarbicarsi ai bordi sconnessi della cava di pietre, che lassù si mostra aperta come un’immensa ferita. Lì, insieme agli altri, c’è anche Agnes coi suoi figli. Batte col martelletto spuntato le grosse pietre che il marito prima ha strappato alla parete di roccia, per sbriciolarle in ciottoli e ghiaia da vendere ai camioncini delle imprese di costruzione. Di solito, da mattina a sera, il silenzio di quella landa desolata è rotto solo dai colpi di mazzetta di donne e bambini accovacciati per terra, a spaccar pietre per pochi spiccioli al giorno, il minimo sufficiente per continuare a vivere. Se le chiedi come va, ti dice con un filo di voce che le cose peggiorano, che la roba da mangiare aumenta di prezzo ogni giorno, ma i sassi invece no. Però oggi, dal sentiero che sale dal villaggio, si sente arrivare un suono diverso: cori e grida, crepitìo di risate, canzoni ritmate. Fino a quando nella cavea pietrosa trabocca un piccolo corteo vociante e festoso. Decine di donne con improvvisati tamburi di zucca, si mettono a ballare e a cantare proprio lì, in mezzo a quel formicaio umano arso dal sole dell’Equatore. A un certo punto, perfino Agnes si lascia portare da quell’energia contagiosa: mette da parte la mazzetta, alza la testa dai pensieri e si mette a ballare. E quando Massimo la fotografa, gli scoppia a ridere in faccia, quando si ricorda del dente che le manca proprio lì davanti. La piccola ciurma di danzatrici canterine potrebbe sembrare un miraggio arrivato da chissà dove. Ma qui le conoscono tutte: sono Alali, Janet, Agnes, e tutte le altre donne del Meeting Point International. Abitano lì anche loro, nelle baracche di fango, mattoni e lamiera sparse sulla collina. E insieme alla miseria di tutti, le accomuna anche il fatto di essere state contagiate dalla peste dell’Aids. La gran parte di loro erano finite come poveri cenci di trenta chili, fantasmi che si aggiravano per strade e cumuli di immondizia cercando cibo, poveri corpi straziati dalle infezioni che aspettavano di crepare in silenzio, ripiegati su sé stessi in qualche angolo putrido.

A cacciare via la notte che aveva già avvolto le loro vite – dicono tutte – è stata «Auntie Rose». Ma lei, “zia” Rose, dice che no, non è roba sua. La barba di Dio Certo che lei, in cuor suo, avrebbe sì voluto guarire tutti. Per questo aveva studiato da infermiera e da ostetrica: per curare chi soffre, e far nascere bene i bambini. Ma poi, le cose rotolavano lontano dalle sue generose intenzioni. «I malati si lasciavano andare, non volevano prendere le medicine che gli davo. I bambini che volevo salvare mandandoli a scuola, rimanevano malinconici, sembrava che preferissero rotolarsi nella spazzatura. Il primo giorno d’ospedale, alla vista del sangue sono svenuta». Che figura. Era andata lì a curare i malati e i moribondi, e invece erano stati proprio loro a curvarsi su di lei, a rincuorarla e a ridarle speranza. Era stata lei a godere di una inattesa ventata di tenerezza. Proprio come le capitava quando andava a trovare don Giussani, il suo grande amico. «Quando lo incontravo», ricorda Rose, «sembrava che aspettasse proprio te chissà da quanto. Arrivavo lì con l’intenzione di esporgli tutti i miei problemi, ma al vederlo, i pensieri aggrovigliati mi si scioglievano tutti sulla soglia, e non gli dicevo niente. “Ma ci pensi”, mi ha detto don Gius una volta, “anche se tu eri l’unico uomo dell’universo, Dio sarebbe venuto lo stesso a morire per te! Solo per te!”. A me interessava poco sapere cosa fosse Comunione e liberazione. Ma che Dio prende una cosa che è niente e la salva, che Dio sarebbe venuto sulla terra anche solo per me, è una cosa che ogni volta che ci penso mi commuove. Quando andavo via dal suo studio, uscivo volando. Ripetevo fra me e me: ma se un uomo, un essere umano, limitato come me, mi vuole così bene, allora chissà Dio! Chissà Dio! Io, se pensavo a Dio, immaginavo di poterci giocare, di scherzare con lui, come con un nonno, di fargli le treccine alla lunga barba. Allora gli altri mi dicevano: sei immatura. Una volta che l’ho visto, gliel’ho detto: Gius, i miei amici dicono che ho una fede immatura. Lui si è alzato di scatto, come se volesse andar di corsa a picchiare qualcuno: “Dimmi chi è! Dimmi chi è che dice questo! Se dicono che sei immatura, vuol dire che sono complicati loro!”». Sta di fatto che, dopo quella volta dell’ospedale, anche per Rose è ricominciata un’altra storia. Imprevedibile come una grazia nuova. Come il cielo di Kampala, che la pioggia arriva quando non l’aspetti. La casa dei bambini Oggi, alla casa di Kitintare, sono arrivate anche le pagelle di fine anno per i più grandicelli, quelli delle elementari. Tutti promossi. Rose le scorre una a una, seminando sguardi compiaciuti tra i piccoli eroi, che uno a uno s’impettiscono d’un timido orgoglio. Quando tra i suoi pazienti si cominciava a morire («e prima era un disastro, se ne andavano via quattro o cinque a settimana»), i loro figli, compresi i neonati, restavano lì, e Rose non sapeva che fare. «All’inizio mi arrabbiavo anche con Gesù. “Tu ti nascondi troppo”, gli dicevo, “per questo poi la gente non ti crede. E poi mi mandi tutti questi bambini, e io non riesco nemmeno a dargli da mangiare, cosa me ne faccio?”». Adesso, la casa a due piani è nuova di zecca, le camerate si riempiono pian piano di letti a castello. Tutto pagato coi finanziamenti allo sviluppo forniti dal governo Zapatero, pensa un po’. D’altronde, anche a Kireka la terra per costruire un piccolo asilo e una scuoletta dove i figli delle pazienti di Rose potranno crescere, l’ha regalata un politicante del quartiere. «Ha visto il lavoro che facevamo, tutto qui. Anche sul nome di Gesù puoi fare un progetto. Puoi fare addirittura del male, usando il nome di Gesù. E invece, puoi fare ingenuamente una cosa senza pensarci, seguendo d’istinto la mossa del cuore, e quella cosa viene abbracciata dal Signore e diventa una cosa grande, anche se l’hai fatta senza un motivo ben chiaro». Adesso, a Kitintare, sono i bambini che abbracciano lei. I più piccoli, compresa la neonata appena arrivata, sono una trentina. C’è Brigitte. C’è Gloria. Uno l’hanno chiamato Luigi Giussani, e un altro si chiama Carron. C’è pure Carras, che l’avevano scaricato in mezzo all’immondizia. E c’è Moses, raccolto piccolo piccolo mentre dormiva tra le braccia della mamma ormai morta. Adesso si avvinghiano tutti alle gambe di Rose e delle donne che tengono la casa. Se lei bacia qualcuno, gli altri fanno le lagne, vogliono essere coccolati pure loro. Allungano le braccia, vogliono essere presi per mano. Poi sono loro che tirano lei su per le scale, per farle vedere il loro lettino, o la piccola bambola rotta finita lì chissà come. Le cose come vengono L’Hiv, anche in Uganda, è solo l’ultimo flagello venuto a spargere morte e dolore in mezzo a un’umanità semplice e vitale già martoriata da povertà e malattie, guerre e massacri, politici ingordi e paura degli spiriti cattivi. Anche a Kampala, come in altre parti dell’Africa, sbarcano in tanti a proporre la propria mercanzia etico-spirituale per i mali del tempo. Sono arrivati da un pezzo anche gli spacciatori di miracoli: le sette pentecostali hanno aperto in mezzo agli slum i loro miracle centres, e le loro victory churches, dove predicatori d’importazione Usa vendono bene i propri format da stregoni postmoderni giocando con le attese e le paure dei poveri. Per loro anche il paradiso è questione di riuscita, metodo, bisogna acquisire la tecnica, conoscere la formula magica per estorcere i miracoli a Dio. Magari trasformandosi in atleti della sofferenza, primatisti del sacrificio. Rose non la vede così. Non è il dolore che produce il bene. «Per i colti saremo africani primitivi. Ma il cuore umano non ci pensa mai a volere la morte. Anche Gesù ha avuto paura. Ha detto: passi da me questo calice. Per uno che soffre, il primo desiderio è di essere liberato dal male. Che qualcuno gli dia la medicina per guarirlo. Il dolore e la morte sono contro di noi». E poi, le cose di Dio non bisogna faticarsele. Vengono da sole. Come i tramonti che ogni tanto va a vedere con le sue amiche, da una collina lungo la strada che porta a Entebbe: «Durano poco, ma sono bellissimi. Il cielo diventa di tutti i colori». O come i canti abruzzesi che ha sentito dai suoi amici italiani, e che le sono così piaciuti che adesso li intonano in coro anche i figli delle sue pazienti: So’ sajutu aju Gran Sassu, so’ remastu ammutulitu, me parea che passu passu se sajesse a j’infinitu… «Adesso», racconta Rose, «vanno a cantarli anche alle donne che lavorano alla cava. E quelle mettono il martello da parte, e si fermano ad ascoltare le belle canzoni d’Abruzzo». Come i Guaraní delle missioni gesuitiche del Sudamerica, che cantavano i canti latini. E non serve spiegare niente. «Perché le cose belle colpiscono per sé stesse. Non hanno bisogno di traduttori. Il Mistero parla una lingua che capiamo tutti». Un’altra canzone, il coro la intona in inglese: «Non posso camminare», cantano i giovani amici di Rose, «se non mi prendono per mano. La montagna è troppo alta, la valle è così profonda». William, quando è morto, era ancora un ragazzino. La malattia gliel’avevano trasmessa i genitori. Negli ultimi tempi, chiedeva solo che Rose gli tenesse la mano, quando sarebbe venuta l’ora, perché non voleva morire solo come era toccato a suo padre. «Mi ha sempre colpito», dice Rose, «quella volta che Gesù, davanti al
la madre addolorata per la morte del suo unico figlio, seppe dirle soltanto: “Donna, non piangere!”. Quella reazione, in quel momento, sembrava quasi un limite della sua onnipotenza. E invece, era lui che per primo si era commosso. Dio con noi si commuove, si scioglie di più, più del più grande papà».

Forse anche questo c’entra con il fatto che le amiche di Rose, a un certo punto, hanno voluto cambiare l’immagine stampata sulle magliette del Meeting Point. «Io avevo scelto l’Icaro di Matisse. Avevo spiegato loro chi era, e cosa voleva dire quel puntino rosso che l’artista gli aveva disegnato sul posto del cuore». Il desiderio d’infinito, di volare fino al sole… «Ma i miei pazienti mi hanno detto che loro non erano come Icaro. Non gridavano e non morivano nel vuoto, come lui. Avevano visto che un bambino orfano, anche quando gioca, gioca più intimidito, con meno libertà e fantasia, rispetto a quelli che hanno la mamma e il papà. Io ho risposto che era vero. Ho chiesto quale nuova immagine suggerivano. E loro hanno detto: vogliamo quella di Pietro e Giovanni che corrono alla tomba di Cristo risorto». Perle di carta Che Dio si sia commosso di loro, lo si può intuire anche da come le donne del Meeting Point si commuovono dei bambini che non hanno più i genitori. Dice Rose che «a Kireka non dicono mai: non abbiamo da mangiare per noi, non possiamo aiutare gli altri. Se qualche piccolo rimane da solo, fanno la gara: lo prendo io, no, lo prendo io!». Anche a Naguru, nel prato col capannone di legno vicino alla chiesa di San Giuda Taddeo, dove si incontrano altre pazienti del Meeting Point, non si sentono fare troppi discorsoni. Nessuna di loro ha da dare lezioni, nessuna recita la parte di quella che ne ha viste tante e la sa lunga. Agli ospiti venuti da Roma («li ha mandati don Giacomo, il mio grande amico», dice Rose presentandoli alle altre) si raccomandano tutte – comprese le tante musulmane e le tante animiste della comitiva – di salutargli il Papa, quando torneranno a casa. Se proprio devono parlare, dicono soltanto grazie a Rose per cose elementari e concretissime: i farmaci antiretrovirali che fornisce loro nell’infermeria, la rete di adozioni a distanza che ha messo in piedi con gli amici dell’Avsi per far andare a scuola i bambini, le piccole somme di microcredito grazie alle quali parecchie di loro hanno messo in piedi negozietti e comprato utensili e materiali per le loro piccole manifatture. Alcune raccolgono la carta per strada, la tagliano a strisce lunghe e sottili che arrotolano intorno a un ago, e con un po’di colla e di tinta vengono fuori collane bellissime, che qualche amico è riuscito a piazzare anche nelle boutique extralusso di Milano. E poi c’è Agnes, che s’è rimessa a cucire vestiti. C’è Dorina, fuggita dalla guerra del nord coi suoi tre figli, che ricorda quando raccattavano erba e rifiuti raccolti nella spazzatura, e invece adesso mangia bene, e si vede… E poi c’è Vicky, quella bella, che dice di sé, senza rabbia né orgoglio: «Se non avete mai visto un miracolo, eccolo, sono io: perché ero morta, e ho riacquistato la vita». Per questo, quando stanno insieme, si scatenano e cantano e ballano le danze dei villaggi, ridono, si prendono in giro come ragazzine un po’ svitate e impertinenti. È il loro modo africanissimo di festeggiare e ringraziare per il contagio di vita buona, di vita guarita, che le ha raggiunte e le ha fatte rifiorire. Nelle loro scenette improvvisate si prendono gioco della morte che le aveva già quasi ghermite. Ingaggiano tra loro esilaranti partite di calcio, e c’è chi si va a godere lo spettacolo. Il capannone di ex moribonde è diventato un punto di ritrovo anche per chi si vuole divertire e viene a prendersi un sorso di allegria, dopo una giornata di fatica, in un posto dove la vita è bella. Ormai sono più di quattromila i pazienti e i bambini di cui si prendono cura Rose e i suoi amici del Meeting Point International. Tutti ringraziano lei, ma Rose dice che «qui non ci sono capi, se non ci fossi io andrebbero avanti lo stesso».

Anzi, adesso è lei che starebbe tutta la vita a sentire le loro storie, a guardare come si aiutano e si consolano tra le baracche di Kireka, senza darsi pena, con la pace nel cuore. Insomma, adesso sono loro che vanno avanti, e lei si fa portare, facendosi prendere per mano. Come dice quell’altra canzone che i ragazzi cantano sempre: «Guarda il cielo, che ci promette. Anche se il Traditore ci odia, abbiamo la speranza di arrivare a casa. Guarda questa terra piena di dolore: piangiamo ma siamo forti, perché Gesù risorgerà e ci porterà a casa sua». «Io», dice Rose di sé, «vado avanti gattonando, come i bambini piccoli. Anche oggi sono come ieri, anzi sono peggio. Però che Dio viene lo stesso, mi prende e mi salva lo stesso, che viene per me, per il mio niente, è una cosa che mi fa venire da piangere. Da darti non ho niente. Però prendi pure». (da "30 giorni")

Cosa fa l’Unicef?

Ho sempre nutrito un’istintiva diffidenza per le grandi organizzazioni umanitarie internazionali, con la sola eccezione della Crose rossa internazionale. Quando ricevi a casa voluminose lettere su carta patinata con richieste di aiuti, lettere spedite a pioggia, ti chiedi: ma questi soldi non potevano essere spesi in maniera più intelligente? C’è chi sostiene che il 75% del budget di organizzazioni come l’Unicef finisca in stipendi, ufficii, strutture amminstrative; dunque solo il 25% verrebbe usato per aiutare le popolazioni bisognose. L’Unicef nega e sostiene che le spese fisse sono di gran lunga inferiori.
Quale sia la verità non lo so, ma qui nel Benin ho provato una sensazione sgradevole. L’altro giorno sono passato di fronte alla sede Unicef di Cotonou e ho visto schierate diversi Fuoristrada modernissimi, enormi, con una grande antenna sul cofano. Ferme naturalmente. La sede è protetta d un grande cancello e dal filo spinato. Mi sono chiesto: perchè un’associazione che fa del bene deve trincerarsi come se fosse un’ambasciata? Scrivendo mi è venuto in mente lo scandalo scoppiato l’anno scorso in Germania, che ha rivelato compensi stratosferici e ingiustificati proprio all’Unicef….
In questi giorni ho incontrati diversi cooperanti sia cattolici sia laici, molti dei quali italiani, e la differenza rispetto al gigantismo dell’Unicef è evidente: chi fa davvero il bene riduce allo stretto indispensabile le spese fisse, compra jeep usate e in numero limitatissimo. E fa un grande affidamento sui volontari che vengono a trascorrere qui qualche settimana o un mese. Ho conosciuto degli italiani meravigliosi, cattolici e laici, di destra e di sinistra; e in particolare fra Fiorenzo Priuli, il fondatore dell’ospedale di Tanguiéta, l’emblema vivente del Bene e dell’Altruismo; uno dei personaggi più straordinari che ho incontrato nella mia vita.
In questi giorni sto maturando una convinzione: se si vuole aiutare i Paesi più poveri è meglio privilegiare le organizzazioni più piccole, di cui potete verificare l’autenticità. Serve di più. E riscalda l’anima.Marcello Foa, giornalista.

Storie dalla Sierra Leone. Per un Natale di speranza

Da oggi, lunedì 3 dicembre e fino a lunedì 10 negli spazi espositivi di Palazzo Trentini, in via Manci 27 a Trento, sarà aperta al pubblico una mostra fotografica che illustra le attività di Padre Giuseppe Berton (nella foto) attraverso le immagini di persone e di opere realizzate dal missionario italiano e dall’associazione locale FHM (Family Homes Movement) in quarant’anni di presenza in Sierra Leone.

Dal 2003 l’associazione trentina EDUS collabora con padre Berton e FHM alla realizzazione di progetti volti soprattutto all’accoglienza, al recupero e alla formazione scolastica e professionale di ragazzi ex-soldato o di strada.

Le immagini esposte mostrano una realtà drammatica e di estremo bisogno, ma documentano anche come una presenza umana intelligente e caritatevole possa far rinascere la speranza e costruire luoghi di accoglienza e di educazione in grado di ridare dignità alla vita umana. La mostra è composta da 50 pannelli divisi in 6 sezioni:

1. Padre Giuseppe Berton: immagini del sacerdote nei luoghi e con le persone della Sierra Leone Nato a Marostica nel 1932 da quarant’anni è missionario saveriano in Sierra Leone.

Laureato a Glasgow in filosofia morale e logica. Dal ‘64 al ‘66 comincia la missione in Sierra Leone dove dal 1972 si stabilisce definitivamente.

2. La Sierra Leone: La Sierra Leone è uno dei paesi più poveri del mondo e la situazione si è ulteriormente aggravata in seguito alla guerra civile terminata pochi anni fa. Le donne e i bambini sono le vittime principali della povertà in cui versa il paese, come tragicamente dimostrano i tassi di mortalità, tra i più alti al mondo. Nelle periferie di Freetown i problemi ed i bisogni abbracciano praticamente tutti i settori, dall’assistenza sanitaria, alla possibilità di istruzione, al tasso di disoccupazione altissimo, al degrado sociale dei nuclei famigliari, all’alto tasso di violenza, alla pressoché totale mancanza di servizi. A questa situazione già drammatica si è aggiunta la tragedia degli ex-bambini soldato, bambini e ragazzi rapiti dai ribelli nel corso di incursioni e stragi nei villaggi di appartenenza e costretti con ogni sorta di violenza a combattere e uccidere. L’accoglienza e il recupero di questi bambini è stata per anni la necessità più urgente a cui Padre Berton ha cercato di rispondere fondando a questo scopo un’associazione, il “Movimento Case Famiglia” (Family Homes Movement)

3. Il Family Homes Movement (FHM): Il Family Homes Movement (F.H.M.) è una ONG locale voluta e fondata da Padre Berton, che si occupa dell’assistenza e dell’educazione dei ragazzi e bambini di strada nella città di Freetown in Sierra Leone, attualmente le persone che lavorano a vario titolo per FHM sono 30. Oggi, il Movimento Case Famiglia si prende cura di circa 350 ragazzi di strada sia direttamente attraverso il Centro S. Michael, sia indirettamente tramite famiglie adottive, inoltre gestisce una scuola di base e secondaria con circa 1’000 studenti.

4. Il centro di prima accoglienza S.Michael Il centro è costituto da una vecchia struttura alberghiera, donata durante la guerra dai vecchi proprietari ad F.H.M., utilizzata come punto di prima accoglienza per i giovanissimi assistiti dall’FHM. Nella fase di prima accoglienza, cura, assistenza e ricerca di famigliari e/o parenti i bambini e ragazzi di strada vengono ospitati ed accuditi presso il centro S. Michael, dove possono frequentare la scuola di base. Attualmente i bambini ospitati sono 40.

5. Le case famiglia. La convinzione che anima l’opera di F.H.M. è che il carattere e la personalità di un ragazzo può formarsi solo nel contesto di una famiglia, pertanto il reinserimento dei bambini e ragazzi di strada avviene attraverso la partecipazione fondamentale delle famiglie adottive e/o affidatarie. FHM gestisce ad oggi 52 family-homes per un totale di circa 350 ragazzi e per la maggior parte distribuite nella capitale Freetown e dintorni. Le case sono condotte da “genitori” che hanno già figli loro ma che sono disponibili ad accogliere altri bambini o ragazzi, mediamente in numero compreso fra i 4 e 6 ragazzi, l’aiuto che viene dato da FHM riguarda la casa ( data in uso gratuito ) e le spese scolastiche dei ragazzi, in alcuni casi interviene per far fronte a spese mediche. La collaborazione e l’aiuto fornito dall’associazione EDUS, dal 2003 ad oggi, ha permesso la costruzione di 12 casette date in uso alle famiglie adottive.

6. “The Holy Family Primary School”. In Sierra Leone solo il 36% dei bambini e ragazzi ha la possibilità di frequentare una scuola. Per far fronte a questa emergenza F.H.M. ha inizialmente provveduto alla realizzazione di una piccola scuola di base ma, col passare degli anni e la crescente richiesta della popolazione locale, si è resa necessaria una struttura in grado di offrire una possibilità di istruzione a un maggior quantità di studenti. Con una prima realizzazione nel 2004 e una seconda nel 2006 è sorta la scuola secondaria e di base “The Holy Family Primary School” che ad oggi ospita 1050 studenti con 45 insegnanti.

La mostra rimane aperta tutti i giorni dalle ore 10.00 alle ore 19.00 – Ingresso libero

Le foto sono tutte di Ernesto Dominici. Nato in Uruguay ma discendente da italiani, Ernesto Dominici è arrivato in Italia poco più che ventenne alla ricerca delle sue origini. Da alcuni anni si è trasferito in Trentino. Di professione “viaggiatore”, come ama definirsi, non lascia mai a casa la macchina fotografica. Dieci anni di Africa gli hanno permesso di affinare la qualità delle sue fotografie, per quanto riguarda sia i reportages sui popoli e le loro culture, sia quelli naturalistici. I suoi ultimi lavori lo vedono impegnato a documentare le condizioni di vita dei bambini nelle zone più difficili del mondo, cercando di far conoscere queste realtà e le attività di chi lavora sul campo.

Il papa ha parlato ancora del Libano

Nel messaggio per la giornata della pace del 2007 il papa tra le altre cose ha scritto: “Così, ad esempio, è avvenuto nel conflitto che mesi fa ha avuto per teatro il Libano del Sud, dove l’obbligo di proteggere e aiutare le vittime innocenti e di non coinvolgere la popolazione civile è stato in gran parte disatteso”. In effetti non può non preoccuparci un fatto: il sempre più ampio coinvolgimento dei civili nelle guerre moderne. I civili vengono bombardati e uccisi, e poi si parla di “danni collaterali”. In realtà i danni collaterali stanno svuotando il Medio Oriente dei cristiani: prima del 1948 in Plaestina i cristiani erano il 14% , ora sono il 2%; in Libano sino a poco fa erano la maggioranza, ora sono poco più del 30%; in Iraq prima della guerra erano più di un milione, ora sono alcune centinaia di migliaia…Riporto, a proposito del Libano, quanto ha scritto Pino Morandini, consigliere regionale e vice presidente nazionale del MpV: “La recente guerra in Libano, come tutte le guerre, ha seminato nuovi odi, distruzione e morte. La cosa più terribile è stato il sovrano disprezzo del diritto internazionale e delle vittime civili, uccise senza pietà e senza logica alcuna, come hanno dichiarato il papa Benedetto XVI, il segretario di Stato, Angelo Sodano, e il ministro degli esteri vaticano Giovanni Lajolo. Anche il ministro degli esteri italiano, Massimo D’Alema, ha parlato di reazione decisamente “sproporzionata”. Oggi il Libano, che stava riprendendosi dopo tante disgrazie, conta almeno 1200 morti, e centinaia di migliaia di sfollati. Amnesty Internetional, organizzazione per i diritti umani, ha appena denunciato come “la distruzione di migliaia di abitazioni e il bombardamento di numerosi ponti, strade, cisterne e depositi di carburante siano stati parte integrante della strategia militare israeliana in Libano, piuttosto che “danni collaterali”, derivanti da attacchi legittimi contro obiettivi militari”. “Le prove raccolte -ha dichiarato Kate Gilmore, vicesegretaria generale di Amnesty International -lasciano fortemente intendere che la massiccia distruzione di impianti idrici ed elettrici, così come quella di infrastrutture vitali per la fornitura di cibo e di altri aiuti umanitari, sia stata parte integrante di una strategia militare”. A ciò si aggiungano i sospetti sull’uso di bombe a grappolo e di armi chimiche, su cui si sta indagando, e che continuerebbero a determinare morti innocenti.
In effetti sono state colpite anche le città cristiane di Jounieh, Byblos e Fidar, completamente estranee al “Partito di Dio” islamico. Nella diocesi di Tiro almeno 15 chiese cattoliche sono state distrutte, benchè nessuno ne parli. Ora il dramma è al culmine. Secondo l’agenzia di stampa cattolica Asianews, “i vescovi maroniti temono che con le distruzioni aeree israeliane e il crescente fondamentalismo islamico, i cristiani abbandonino ormai in massa il Paese dei cedri”. Per questo lanciano un appello affinché qualcuno li aiuti “ad affrontare la riapertura delle scuole, la mancanza di medicine, e l’inverno che si avvicina”. In questi giorni, ha dichiarato Mons. Guy-Paul Noujem, vicario patriarcale maronita della diocesi di Sarba, “l’esodo dei cristiani è immenso. Se ne vanno perché si sentono abbandonati…Essi vogliono abbandonare il paese non a causa della paura, ma a causa del futuro”. Mons. Matar, vescovo di Beirut, ha aggiunto: “E’ necessario cominciare a ricostruire il paese, indebolito da settimane di bombardamenti feroci. Solo questo aiuterà i cittadini, cristiani e musulmani a rimanere in Libano”. Di fronte a tutto questo i cristiani italiani e del mondo intero sono chiamati a soccorrere i loro fratelli, schiacciati tra violenze israeliane e risorgente fondamentalismo islamico: lasciarli soli sarebbe colpevole indifferenza, anche perché, dopo quella irakena, quella libanese è la seconda comunità cattolica a finire nel tritacarne della guerra, senza colpa alcuna. Si prepara, per la prima volta nella storia, un medio oriente senza più alcuna presenza cristiana. Intanto possiamo fare qualcosa per aiutare i libanesi versando un contributo ad una associazione di volontari, l’Avsi, presente in Libano da molti anni. Per farlo basta fare un versamento sul conto corrente numero 522474, intestato ad Avsi Solidarietà, via M. Gioia 181, 20125 Milano; oppure indirizzando l’offerta alla Banca popolare di Milano, sul conto n. 19000, intestato ad Avsi (Abi 05584; cab 01626; Cin C; causale: per il Libano)”.

La carità, fondamento dello sviluppo. La tavola rotonda di Edus

“La carità è normalmente considerata elemosina. Ma da come ne parla il Papa si capisce che è qualcosa di più. Io credo che prima ancora di esprimere l’atto di dare qualcosa ai poveri, la carità consista in una condivisione, nella capacità di guardare l’altro negli occhi”. Lo ha detto ieri sera l’assessore alla solidarietà internazionale della Provincia, Iva Berasi, (al centro della foto) aprendo il dibattito promosso da Edus (Educazione e sviluppo) al Teatro S. Marco di Trento per invitare i relatori a confrontarsi con la frase di Benedetto XVI che dà il titolo alla Campagna Tende di quest’anno: “La carità sarà sempre necessaria, anche nella società più giusta”.

Oltre all’esponente politico del governo provinciale e davanti al folto pubblico che gremiva la sala, sono intervenuti anche il direttore dell’ufficio missionario diocesano don Carlo Speccher, il direttore generale di Avsi (rete di 25 Organizzazioni non governative impegnate nel campo della cooperazione allo sviluppo con 100 progetti in 40 Paesi del mondo) Alberto Piatti, e il presidente di Edus, co-fondatrice del Network, Carlo Fedrizzi.

Berasi ha ricordato in particolare l’impegno delle moltissime associazioni trentine attive nel settore della solidarietà internazionale, che pur operando spesso in silenzio si inseriscono nel solco della grande tradizione dei missionari trentini e dell’insegnamento della Chiesa, “da cui siamo stati tutti educati a questa sensibilità”. L’assessore ha poi sottolineato come i progetti e gli interventi realizzati dai volontari e sostenuti ogni anno con 10 milioni di euro dalla Provincia (pari allo 0,25 del bilancio) per rispondere ai bisogni concreti delle popolazioni dei Paesi più svantaggiati del mondo, siano preziosi non solo per chi riceve l’aiuto, ma anche e soprattutto per chi lo porta. “E’ infatti assolutamente vero – ha concluso Berasi – che, come evidenzia il nome della vostra associazione, dall’educazione e dalla formazione delle persone deriva il vero sviluppo dei popoli”.

Don Carlo Speccher, dopo aver richiamato l’attenzione sul fatto che i missionari laici e religiosi trentini nel mondo sono ancor’oggi il punto di confluenza di importanti iniziative sostenute anche dalla Provincia nel campo della solidarietà internazionale, ha identificato la carità con il bacio dato da S. Francesco al lebbroso. “Che bisogno c’era di baciarlo? Avrebbe potuto portarlo a casa sua e curarlo. Ma proprio questa è la carità: cioè qualcosa di più della solidarietà, perché esprime l’amore di Cristo per l’uomo”. Ci sono Paesi dell’Africa dove le scuole, gli ospedali, le banche in cui iniziare a raccogliere i risparmi non sono stati costruiti dal governo ma dalla Chiesa, dai missionari che trattano ogni povero come Gesù.

Dal canto suo Alberto Piatti, dopo aver insistito sul fatto che la carità non è un modo per mettersi a posto la coscienza ma appartiene alla nostra natura umana da cui siamo istintivamente spinti a dare una mano, ha raccontato la storia di un ragazzo, Antoine, che in Rwanda gli aveva consegnato personalmente una lettera nella quale ringraziava gli amici di Avsi per averlo aiutato a diplomarsi e a diventare geometra. Dieci anni prima, poco dopo il genocidio causato in quel Paese dagli scontri tribali, un volontario di Avsi aveva trovato il piccolo Antoine arrampicato su un albero. Su quella pianta era scampato, lui solo, alla strage, ma da lassù aveva assistito impotente all’uccisione di tutti i suoi parenti e ad una tale mattanza che aveva perso ogni speranza e non voleva più mettere piede a terra.

Al volontario sono occorsi tre giorni per convincere Antoine a scendere. “C’è riuscito perché l’ha guardato negli occhi – ha spiegato Piatti – e in questo modo gli ha restituito la fiducia nella vita. La carità – ha continuato – è il vero fondamento dello sviluppo perché significa ritrovare insieme all’altro fiducia nella vita, senza la quale non si costruisce nulla. Proprio com’è accaduto a noi con Antoine. Ma perché questo avvenga è necessario trattare la persona per il mistero che è. Un mistero che non può essere definito da noi e non è frutto di nessun progetto, ma solo della disponibilità a condividere con l’altro la tensione al senso della vita.

Costruire case, ponti, scuole, strade e anche formare ingegneri può essere facile – ha aggiunto Piatti – ma questo rapporto con la persona come mistero e questa tensione a condividere il senso della vita sono la radice più vera della solidarietà internazionale e della cooperazione allo sviluppo”. Il direttore di Avsi ha narrato, per chiarire, un’altra vicenda, questa volta più nota.

“Quando gli apostoli Pietro e Paolo si incontrarono a Roma, dove schiavi e bestie erano considerati, per legge, “cose animate” di cui disporre a piacimento, i due non diedero per protesta l’assalto al Senato ma dissero “non c’è più giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti noi siamo uno in Cristo Gesù”.

“E’ questo amore per la persona – ha concluso Piatti –l’inizio di un vero cambiamento nel mondo. Perché come scrive il Papa: “Non c’è nessuno ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo”.

Carlo Fedrizzi ha infine invitato tutti sabato 16 dicembre alle 14.30 in piazza Lodron a Trento per partecipare all’Edus Day, iniziativa con cui l’associazione, oltre a raccogliere fondi in alcuni punti particolarmente “commerciali” della città, intende “dar ragione” di questo diverso modo di intendere e vivere la carità e la solidarietà.

Antonio Girardi

Campagna Tende: la vera carità, per l’educazione e lo sviluppo

“Nei Paesi più poveri del mondo, i bisogni delle persone non sono solo materiali, assistenziali e sanitari, ma riguardano anche la speranza di un futuro, di poter contare su una famiglia, una scuola, una formazione professionale e un lavoro. Bisogni che toccano in particolare i bambini e i ragazzi ai quali occorre andare incontro con progetti mirati per favorire l’autosviluppo. Questo spirito di condivisione si inserisce pienamente nella tradizione della gente trentina”.

Con queste parole il presidente del Consiglio provinciale, Dario Pallaoro, ha introdotto a Palazzo Trentini la presentazione della “Campagna Tende 2006-2007” promossa da Edus, associazione trentina impegnata da anni nel campo della solidarietà internazionale, per offrire, accanto a servizi sanitari, soprattutto opportunità educative, formative e di lavoro ai giovani nelle zone più svantaggiate e martoriate del pianeta.

Come ha spiegato Maurizio Pangrazzi, intervenuto in rappresentanza di Edus insieme a Cristina Erzegovesi, la Campagna Tende, intitolata “La carità non sarà sempre necessaria, anche nella società più giusta” (frase mutuata dall’enciclica Desu acritas est di Benedetto XVI), coinvolgerà i volontari di Edus in una raccolta di fondi a Trento e nelle valli della provincia, a sostegno di cinque progetti:

1. il primo riguarda l’approvvigionamento idrico per lo sviluppo dell’agricoltura in una zona cruciale per la pace nel Libano;

2. il secondo finanzierà una scuola con 1000 bambini a Betlemme;

3. il terzo darà supporto alle attività educative rivolte ai bambini e ai loro genitori (250 famiglie) in una delle periferie più degradate di Lima in Perù;

4. il quarto servirà alla formazione di giovani per realizzare una filiera agroalimentare nel Kossovo;

5. il quinto permetterà di potenziare il reparto pediatrico dell’ospedale di Kitgum in Uganda dove l’Aids miete moltissime vittime.

Tre gli appuntamenti della Campagna Tende in Trentino:

– l’incontro-dibattito pubblico previsto il 13 dicembre al teatro S. Marco di Trento cui interverranno il segretario generale della fondazione Avsi Alberto Piatti, l’assessore provinciale alla solidarietà internazionale Iva Berasi, il direttore dell’ufficio missionario diocesana don Carlo Speccher, l’imprenditore Andrea Cappelletti e il presidente di Edus Carlo Fedrizzi;

– la raccolta di fondi per i progetti avverrà invece in vari punti della città e in altri centri della provincia il 16 dicembre in occasione dell’Edus Day;

– infine a Tesero è in programma una mostra fotografica che documenta l’opera di recupero educativo e sociale degli ex bambini-soldati realizzata da padre Berton, missionario in Sierra Leone.

Colletta Alimentare 2006, un successo in Italia e in Regione. E ora manda un euro in SMS al 48583

Sabato 25 novembre durante la Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, negli oltre 6.000 supermercati e ipermercati, sono state raccolte 8.350 tonnellate di prodotti alimentari, 200 tonnellate in più rispetto allo scorso anno. I primi risultati sono stati così commentati da Don Mauro Inzoli, presidente della Fondazione Banco Alimentare onlus: “La carità si fa strada nel nostro popolo anche in momenti di particolare difficoltà e di sacrifici preannunciati. La gente del popolo radicata nella cultura cristiana non resta indifferente all’attesa dei più poveri e compie un gesto concreto di carità cristiana facendo la spesa anche per loro. Finché ci saranno uomini e donne educati a vivere nella gratuità e nella condivisione c’è speranza per tutti”.

La Fondazione Banco Alimentare ringrazia di cuore i milioni di italiani che anche quest’anno, in un momento di difficoltà economica, hanno deciso di donare una parte della loro spesa per i poveri del nostro Paese.

L’entusiasmo e l’allegria, con cui gli oltre centomila volontari hanno sentito propria l’iniziativa coinvolgendo anche i rappresentanti delle istituzioni civili e religiose, sono indicatori importanti tanto quanto le tonnellate raccolte.

E’ evidente che la “Colletta Alimentare” si sta radicando come gesto popolare, atteso prima e partecipato poi, con un grande valore educativo per chi vi partecipa.

Si ringraziano l’Associazione Nazionale Alpini e la Società San Vincenzo de Paoli per il cospicuo quantitativo di volontari offerto durante la Colletta, le catene dei supermercati per la loro disponibilità nell’ospitare i volontari e per le molte promozioni legate ai prodotti di cui era consigliato l’acquisto, il Segretariato Sociale RAI per la sensibilizzazione, la Presidenza della Repubblica per aver concesso anche quest’anno l’Alto Patronato, gli sponsor nazionali Banca Intesa, Fastweb e Aurora Assicurazioni.

La Fondazione Banco Alimentare onlus rende noto che, per sostenere gli ingenti costi di logistica e trasporti per la consegna degli alimenti raccolti a 1.280.000 bisognosi attraverso più di 7.700 enti caritativi convenzionati in tutta Italia, parte ora una campagna di raccolta fondi dal titolo “La fame giustifica i mezzi”.

Chi volesse dare un aiuto può farlo, fino a giovedì 14 dicembre, inviando un SMS del valore di 1 euro al numero 48583 da cellulari TIM, Vodafone e Wind e di 2 euro da Telecom rete fissa, oppure facendo una donazione sul c/c di Banca Intesa n.1010/54 ABI 03069 CAB 09533.

Per ulteriori informazioni telefonate allo 02.67.100.410 o visitate il sito www.bancoalimentare.it

COM’E’ ANDATA IN REGIONE

Nel Trentino Alto Adige in particolare il risultato della decima edizione della Giornata Nazionale della Colletta Alimentare, svoltasi sabato 25 novembre, è stato più che positivo. Sono state infatti raccolte quasi 154 tonnellate di prodotti, circa il 21% in più rispetto all’edizione precedente. Siamo stati presenti in 172 punti vendita, di cui 23 solo mezza giornata.

Gli alimenti raccolti, già stoccati presso il magazzino “Alpina Logistica e Trasporti srl” in via Innsbruck, località Spini di Gardolo (Zona Interporto), saranno gestiti dal Banco Alimentare del Trentino Alto Adige ONLUS, che ridistribuirà i prodotti ai 32 enti convenzionati per un totale di 6000 bisognosi.

Grazie al prezioso lavoro dei circa 2500 volontari nel giorno della Colletta, si potrà in parte rispondere al bisogno concreto di chi è meno fortunato di noi, testimoniando la positività della carità.

Un forte ringraziamento va innanzitutto alle persone che hanno contribuito con la loro spesa all’esito positivo dell’iniziativa, tutti i volontari (gli alpini, le diverse associazioni convenzionate, gli amici del gruppo “Misericordie” di Trento, il gruppo “Giullari di Ceniiga”, la Croce Rossa Italiana, gli Scout CN.GEI che ci hanno sostenuto ed anche i media per gli spazi concessi).

Si ringraziano, inoltre, in modo particolare il Nucleo Volontari Alpini della Protezione Civile della Regione, i Vigili del Fuoco, Fausto Mariotti e altri privati per la disponibilità dei mezzi di trasporto ed il supporto nelle operazioni di stoccaggio.

Un ringraziamento anche alle ditte Menz & Gasser s.p.a. e Trentofrutta s.p.a. per le donazioni effettuate che non vengono conteggiate nella tabella allegata, ma che rappresentano circa altre 5 tonnellate.

Grazie,infine, alle Catene di supermercati coinvolti nell’iniziativa per la disponibilità e la fattiva collaborazione dimostrate.

(Il Responsabile Regionale della Colletta Alimentare, presidente del Banco Alimentare del Trentino Alto Adige – ONLUS, Duilio Porro, tel. cell. 328-8217330; casa 0461-236148; uff. 0461.615349)