La straordinaria ascesi del “pirata” Rupert Murdoch

A scorrere la vita di Rupert Murdoch si rimane senza parole di fronte all’ascesi economica davvero inarrestabile di un uomo che, da figlio di un piccolo editore della città australiana di Adelaide, si ritrova oggi tra gli uomini più ricchi del pianeta, gestendo un patrimonio di 8,3 miliardi di dollari (dati Forbes 2008).

Tutto inizia nel 1952 quando il ventunenne Rupert, alla morte del padre, eredita l’Adelaide News e l’Adelaide Sunday Mail. Nel 1964 arriva l’acquisto del suo primo quotidiano a tiratura nazionale, The Australian, divenendo uno dei maggiori editori del suo Paese. E’ nel 1969, però, che il rampante Rupert fa il “grande salto” sbarcando in Europa, direttamente alla City londinese: qui infatti rileva i quotidiani The Sun e News of the World.

Sarà sotto la sua guida che The Sun inaugurerà quella linea editoriale tra lo scandalistico e l’informazione tout court (ben visibile nella Prima pagina) che lo farà diventare il quotidiano inglese più diffuso nel mondo con 3.200.000 copie al giorno; la Seconda pagina invece ospita l’editoriale ed esprime la tendenza laburista del giornale, mentre sarà la Terza pagina ad ottenere un certo eco nel mondo per l’abitudine di sostituire lo spazio solitamente dedicato alla Cultura con l’immagine di belle ragazze il più delle volte senza veli.

Nel 1976 l’attività editoriale di Murdoch si espande negli Usa, acquisendo il New York Post (che oggi vende più di 704mila copie giornaliere). Per gestire la mole di lavoro è ormai necessario fondare una holding: nel 1980 nasce la News Corporation con sede nella sua Adelaide. Il 1981 rappresenta un anno di svolta, non tanto perché ritorna a Londra per acquistare sia il Times che il Sunday Times, ma in quanto decide di espandersi nel settore cinematografico, prelevando il 50% della 20th Century Fox (ne otterrà il totale controllo tre anni dopo). A questo punto diviene allucinante elencare tutte le sue acquisizioni, per cui ci limiteremo a riportare quelle più significative: nel 1985 diviene padrone di 7 stazioni televisive del gruppo Metromedia e questo gli permise di lanciare l’anno dopo la rete televisiva americana Fox Broadcasting Company dalla quale negli anni sono uscite fortunatissime serie televisive come i Simpson, X Files, Beverly Hills 90210.

Nel 1989 lancia la televisione satellitare Sky television che diviene BSkyB, dopo la fusione con la British Sky. Nel 1996 iniziarono le trasmissioni di Fox News Channel, un canale via cavo dedicato totalmente alla trasmissione di notizie. L’anno seguente ha avuto la fortuna/bravura di essere il produttore del film Titanic, che ha sbancato i botteghini con il più alto incasso della storia del cinema con i suoi 1.850.300.000 dollari.

La sua forza sta nei metodi, che molti definiscono “da pirata”. Questo è evidentissimo per quanto riguarda lo sport: acquista i diritti delle partite di calcio e fa esplodere le tariffe; trasmette per un po’ in perdita (rovinando la concorrenza col dumping) e poi passa all’incasso quando resta solo, in regime di monopolio. Nel 2004, come tutte le grandi multinazionali che si rispettino, Murdoch decide di spostare la sede legale della News Corporation da Adelaide a New York.

Il 31 luglio 2007 si conclude invece l’acquisizione più imponente della sua carriera: per 5,6 miliardi di dollari ottiene la Dow Jones & Company, per cui anche gli indici azionari Dow Jones e il giornale The Wall Street Journal.

Ma perché ci occupiamo del magnate australiano? Per invidia? Assolutamente no. Addentrarci nel Murdoch-pensiero è molto importante se è vero, come è vero, che egli è inserito tra i nove padroni dell’informazione mondiale. Attraverso i suoi 175 quotidiani sparsi in tutto il mondo (anche nella Papua Nuova Guinea e nelle Fiji…), di cui ne sceglie personalmente i direttori, la televisione, internet (MySpace), le riviste che trattano i più svariati argomenti, dalla moda (di sua proprietà sono per esempio GQ e Vogue) allo sport e alla religione, egli ha modo di comunicare con tutti, ma proprio tutti, basti pensare che il suo gruppo editoriale raggiunge circa 4,7 miliardi di persone (3/4 della popolazione mondiale).

Il futuro dell’informazione on line

Murdoch ha dichiarato apertamente che l’informazione può continuare ad avere un futuro solo se si deciderà di chiudere con l’informazione digitale gratuita, cioè dando la possibilità di accedere alle notizie solo a pagamento. Infatti il modello attuale non funziona, dato che il ricavo pubblicitario non è sufficiente per saldare i bilanci in rosso delle testate on line. La politica Rupert Murdoch si è segnalato per essere stato tra i più convinti sostenitori della politica estera del governo Bush: le sue reti, soprattutto Fox News, hanno bombardato la testa degli americani sull’imminente scontro di civiltà, sul ritrovamento (mai avvenuto) delle armi di distruzioni di massa in Iraq, sul legame di quest’ultimo con Al Qaeda, il tutto per cercare di creare un’opinione pubblica favorevole alla guerra.

Gli oppositori alla guerra non furono trattati molto bene e nulla valse l’essere ministri: fece scalpore la prima pagina del Sun che riportava la foto del “verme Chirac”, colpevole di opporsi al conflitto. Colpisce anche la particolare attenzione che il magnate australiano ha per la causa israeliana, presentando una visione arbitraria e manichea del conflitto medio-orientale: da una parte gli israeliani, sempre e solo buoni e difensori delle libertà, dall’altra sempre e solo spietati assassini impregnati di odio religioso che mirano a distruggere “l’ultima democrazia del Medio Oriente”…

Non si pensi però che gli uomini come Murdoch abbiano il coraggio di essere palesemente “contro” il potere: infatti la vittoria di Obama ha cambiato tutto: oggi la Fox è scesa compatta in difesa del neo presidente. Si pensi al trattamento ricevuto in una trasmissione da Ralph Nader, difensore dei diritti dei consumatori contro le grandi industrie, dopo che ha “osato” mettere in guardia il pubblico da Obama, poiché con il suo modo di fare giovanile e seducente, tenta di occultare il fatto che anche lui non è lo “zio Sam” ma lo “zio Tom”, alludendo al servo negro del romanzo, cioè avvertendo gli americani che anche l’osannato Presidente in realtà lavorerà in favore delle corporation.

Salvati cielo! Il conduttore ha risposto testualmente a Nader: “La sua carriera è finita e lei non metterà più piede in uno studio televisivo”.

Murdoch e Berlusconi

In questi giorni sui giornali si è parlato molto dell’attrito Berlusconi-Murdoch, dopo la decisione del governo di aumentare dal 10 al 20% l’Iva sulla pay tv di Sky Italia. Il Cavaliere ha attribuito proprio a questo provvedimento l’inizio dell’offensiva scandalistica di questi mesi ai suoi danni, con una serie di attacchi che non conoscono sosta sulle reti gestite dall’australiano. Il premier non ha nascosto la sua considerazione dell’uomo-Murdoch: davanti è un amicone, in realtà è molto più subdolo.

E pensare che a fine anni ’90 i due furono sul punto di accordarsi: New Corp avrebbe comprato Mediaset in cambio di un pacchetto azionario che avrebbe fatto della famiglia Berlusconi il secondo azionista di maggioranza. Furono Marina e Piersilvio Berlusconi ad opporsi. Il primo attrito ci fu quando Berlusconi lanciò Mediaset premium, con sport e cinema a prezzi concorrenziali a Sky.

Il secondo attrito fu quando Sky si prestò per ospitare il faccia a faccia Berlusconi-Veltroni alle ultime elezioni politiche: il primo, essendo in netto vantaggio, non volle alcun dibattito. A quel punto Sky pubblicò una pagina pubblicitaria non particolarmente piacevole: fondo grigio, in nove riquadri i vari duelli politici del mondo, con la scritta finale “Da questo confronto escono perdenti gli italiani. Il duello Walter-Silvio è peggio di quello Merkel-Schroeder, non riuscirai nemmeno a vederlo in tv”.

Cultura e religione

Non è più un mistero l’avversione di Rupert Murdoch per la religione cattolica. Basta dare un’occhiata alla rete History Channel per avere un’idea della linea culturale del proprietario: un’intera serie dedicata alla vita di Gesù Cristo, dove esimi professori, i cui volti dimostrano l’assoluta attendibilità (sembrano santoni o sosia di Rasputin) delle affermazioni che fanno, ci spiegano che “storicamente” o “secondo gli ultimi studi” (quali??) Gesù era un rivoluzionario protetto da dodici guardie del corpo (gli apostoli!), ci illuminano sulla vita di Gesù, non figlio unico ma avente molti di fratelli, ironizzando sulla verginità di Maria e chi ne ha più ne metta.

Se da un lato cascano le braccia, dall’altro abbiamo la soddisfazione di aver trovato le fonti da cui Augias attinge per i suoi libri… Non ho potuto trattenere le risate anche davanti alla puntata dedicata alla Massoneria, nella quale questa veniva presentata come una “simpatica confraternita di gentiluomini”, dedita al filantropismo, alla pace e alla promozione della donna.

Il che è come sentire il diavolo fare l’elogio delle buone azioni o come vedere Dracula fare il testimonial per l’Avis. Tuttavia, risate a parte, è preoccupante la totale mancanza di “oggettività” di un canale che si propone di raccontare la Storia; ancor più allarmante pensare al fatto che molti possano “bere” queste affermazioni non avendo un’adeguata preparazione perché, inutile nasconderlo, tra un’ora di tv e un’ora sopra un libro, risulta più praticata la prima soluzione. E si sa, chi controlla la storia, controlla il futuro.

A proposito di massoneria, riporto un fatto inquietante: la presenza di Rupert Murdoch, con figlio, alla cena segreta organizzata a Roma dall’ex Gran Maestro Giuliano di Bernardo, alla vigilia della proiezione di “Angeli e demoni”. Incredibile come il magnate australiano possa accettare l’invito di una persona pittoresca come il Di Bernardo, portandoci addirittura il figlio. Segno forse che certi vecchi poteri non sono poi tanto vecchi?…

Dal momento che Murdoch è colui che lanciò, attraverso la National Geographic Society, anche il famoso Vangelo di Giuda, è opportuno che riporti un commento anche su di esso.

Il “vangelo di Giuda”: pieno di falsi

Ricordate il vangelo di Giuda? Quel testo copto che la National Geographic Society ha preteso di aver scoperto, che ha diffuso con spese enormi ed enorme grancassa pubblicitaria, ripresa dai “grandi media” come la verità ultima e nascosta su Gesù? In questo testo, ci dicevano, Giuda appare nella sua vera luce: non è il traditore ma il vero salvatore, avendo compiuto la volontà di Cristo fino in fondo.

Adesso uno studioso serio, April D. DeConick, docente di Studi Biblici alla Rice University, ha esaminato a fondo il testo e ci ha scritto un volume per smentire la grancassa mediatica.

The Thirteenth Apostle: What the Gospel of Judas Really Says“.

Rivelando false traduzioni ed altri trucchi usati dai banditori della “nuova verità”.

Lo studioso ha scritto anche un fondo per il New York Times (1). Eccolo:

Con molta pubblicità, l’anno scorso, il National Geographic ha annunciato che era stato trovato un testo perduto del terzo secolo, il Vangelo di Giuda Iscariota. Fatto impressionante: Giuda non aveva tradito Gesù. Anzi Gesù aveva chiesto a Giuda, il suo più fido e amato discepolo, di consegnarlo per farlo uccidere. Il premio per Giuda: l’ascensione al cielo e la sua esaltazione al disopra degli altri discepoli. Una grande storia. Peccato che, dopo aver ri-tradotto la trascrizione del testo copto presentata dalla National Geographic Society, io ho trovato che il significato reale del testo è molto diverso.

La traduzione del National Geographic sosteneva l’interpretazione provocatoria di Giuda come eroe; una lettura più attenta chiarisce che Giuda non solo non è un eroe, ma (per il testo) un demone. La traduzione della Società e dei suoi esperti si distacca in più punti dal senso e dai metodi comunemente accettati nel nostro campo di studi. Per esempio, la trascrizione della National Society, nel punto in cui Giuda è chiamato un ‘daimon’, traduce la parola con ‘spirito’. Di fatto, il termine universalmente accettato per ‘spirito’ è ‘pneuma’; nella letteratura gnostica, ‘daimon’ è sempre usato nel senso di ‘demonio’.

Altro punto: Giuda non è preservato ‘per’ la santa generazione, come dicono i traduttori del National Geographic, ma separato ‘da’ essa. Egli non riceve i misteri del regno perché ‘è possibile per lui entrarci’. Li riceve perché Gesù sostiene che egli non potrà entrare, e Gesù non vuole che Giuda lo tradisca per ignoranza: vuole che sia informato, in modo che il demonico Giuda soffra tutto quanto merita.

Ma il più grosso errore che ho trovato è stato forse una alterazione del testo originale copto.

Secondo la tradizione del National Geographic, l’ascensione di Giuda alla santa generazione sarebbe stata maledetta. Invece è chiaro dalla trascrizione che gli esperti del National hanno alterato l’originale copto, eliminando una particella negativa dalla frase originale.

Devo dire che la Società ha riconosciuto questo errore, ma veramente molto tardi per cambiare la sbagliata concezione del pubblico.

Cosa dice dunque in realtà il vangelo di Giuda?

Dice che Giuda è un demonio specifico, chiamato ‘il Tredicesimo’.

In certi testi gnostici, questo è il nome per il re dei demoni, una entità nota come ‘laldabaoth’ che vive nel tredicesimo piano sopra la terra. Giuda è l’alter ego umano di questo demone, il suo agente infiltrato nel mondo. Questi gnostici identificavano ‘laldabaoth’ con l’ebraico Yahweh, che accusavano d’essere una divinità gelosa e vendicativa, avversa al Dio supremo che Gesù era venuto sulla terra a rivelare. Chi ha scritto il vangelo di Giuda era un aspro critico del cristianesimo dominante e dei suoi riti. Siccome Giuda è un demone che lavora per ‘laldabaoth’, così sostiene l’autore, quando Giuda sacrifica Gesù, lo sacrifica ai demoni, non al Dio supremo.
Con ciò, vuol prendersi gioco della fede cristiana nel valore salvifico della morte di Gesù e dell’efficacia della Eucarestia
“.

Com’è possibile che siano stati fatti errori così gravi [dal National Geographic]?

Sono stati proprio errori, o qualcosa di consapevolmente deliberato? Questa è la domanda che si pone, e non ho una risposta soddisfacente. D’accordo, la Società aveva un compito difficile, restaurare un vecchio vangelo che stava da secoli in una cassa ridotto in briciole. Era stato trafugato da una tomba egizia negli anni ’70 e ha languito per decenni nel mercato antiquario clandestino, e ha persino passato del tempo nel freezer di qualcuno. Per cui è davvero incredibile che la Società ne abbia recuperato anche solo una parte, anzi è riuscita a ricomporlo all’85%.

Detto questo, il problema grosso è che la Società voleva un’esclusiva. Per questo ha voluto che i suoi traduttori esperti firmassero un impegno al segreto, e a non discutere il testo con altri competenti prima della pubblicazione. Il miglior lavoro scientifico si riesce a fare quando, di un nuovo manoscritto, vengono pubblicate foto di ogni pagina in grandezza naturale ‘prima’ di fornire una traduzione, in modo che i competenti del ramo, in tutto il mondo, possano scambiarsi le informazioni mentre lavorano indipendentemente sul testo“.

Un’altra difficoltà è che quando il National Geographic ha pubblicato la trascrizione, il fac-simile del manoscritto originale che ha reso pubblico era ridotto in dimensioni del 56%, ciò che lo rende inutilizzabile per un lavoro scientifico. Senza copie in grandezza naturale, siamo come il cieco che conduce altri ciechi. La situazione mi ricorda molto il blocco che tenne lontano gli studiosi dai Rotoli del Mar Morto decenni orsono. Quando i manoscritti sono accaparrati dai pochi, ne nascono errori e un ‘monopolio dell’interpretazione’ che è molto difficile rovesciare, anche quando l’interpretazione è dimostrata falsa“.

Per evitare questo tipo di situazioni la Society of Biblical Literature ha varato nel 1991 una risoluzione per cui, se l’accesso ad un manoscritto è riservato a pochi a causa delle condizioni del manoscritto stesso, allora è obbligatorio diffondere prima di tutto una copia fotografica di esso. E’ una vergogna che il National Geographic, e il suo gruppo di esperti, non abbiano obbedito a questa molto sensata disposizione. Mi domando perché tanti esperti del mestiere e tanti scrittori abbiano tratto ispirazione dalla versione del vangelo di Giuda fatta dal National Geographic. Magari ciò deriva da un comprensibile desiderio di cambiare la relazione tra ebrei e cristiani. Giuda è un personaggio spaventoso: per i cristiani, è colui che aveva avuto tutto il bene e ha tradito Dio per una manciata di monete. Per gli ebrei, egli è il personaggio la cui vicenda è stata usata dai cristiani per perseguitarli nei secoli. Sono d’accordo sul fatto che dobbiamo continuare verso la riconciliazione di questo antico scisma; ma fare di Giuda un eroe non mi pare la soluzione giusta“.

Così termina DeConick, lo studioso di copto e di vangeli gnostici.

Possiamo fare una scommessa: benchè la sua autorevole asserzione sia apparsa sull’autorevolissimo New York Times, essa non sarà ripresa da nessuno dei “grandi” media, specialmente non da quelli italioti. E già che ci siamo, vi diamo un’altra notizia a sfondo religioso che sarà sicuramente censurata.

Questa, che è stata diramata dal Catholic News Service: “Un libro rilegato con la pelle di un gesuita sta per essere messo all’asta in Inghilterra(2).

Avete capito bene. Il gesuita trasformato in rilegatura si chiamava padre Henry Garnet, ed era forse il generale dell’ordine nell’Inghilterra del 1605, all’epoca del “Complotto delle Polveri”, lo storico e falso attentato alla vita del re Giacomo I di cui i protestanti approfittarono per massacrare i “papisti”: almeno 70 mila cattolici furono sterminati. L’accusa era di aver cercato di far saltare in Parlamento britannico con 36 barili di polvere da sparo, scoperta in tempo, per vendetta contro Giacomo I che aveva promesso di porre fine alla persecuzione dei cattolici e non aveva mantenuto la promessa. Secondo la versione oggi ammessa, Giacomo meditava lui stesso di tornare, e far tornare la Corona , sotto la Chiesa , e ne fu impedito dalla “scoperta dell’attentato” contro di lui (un altro antecedente dell’11 settembre).

Fatto sta che padre Garnet, che era confessore di alcuni dei congiurati ma negò la sua partecipazione al complotto, fu condannato ad essere impiccato, “tratto” (ossia trascinato da cavalli) e “squartato” (due tiri di cavalli avrebbero dovuto smembrarne il corpo, tirando da una parte e dall’altra).

L’esecuzione del martire ebbe luogo il 3 maggio 1606 davanti alla cattedrale di San Paolo a Londra. Dalla folla, diverse persone impedirono al boia di squartarlo da vivo; alcuni si appesero alle sue gambe per affrettarne la morte da impiccagione, onde preservarlo dagli orrori dello squartamento. Forse erano cripto-cattolici che si fecero coraggio, in quella che fu una delle pagine peggiori, quasi staliniane, della storia inglese. La sua pelle fu conciata e servì a rilegare il libro oggi messo all’asta dalla Casa d’Aste Wilkinson nel Doncaster.

Stampato da Robert Barker, lo stampatore reale, il libro racconta il processo e l’esecuzione del gesuita, come spiega il titolo: “A True and Perfect Relation of the Whole Proceedings Against the Late Most Barbarous Traitors, Garnet a Jesuit and His Confederates“.

Sid Wilkinson, il banditore della casa d’aste, ha spiegato come appare il volume: “La copertina è un po’ sinistra, perché la pelle vi appare con molte pieghe e macchie, e si capisce che viene da una testa barbuta“. Ha aggiunto che era frequente, all’epoca, rilegare gli atti dei processi con la pelle dei condannati liquidati. “Cose del genere si trovano nei musei“.

Cominciava la civiltà occidentale sotto egemonia anglosassone.

Ma i media non ve ne parleranno.

Parleranno invece dei crimini dell’Inquisizione. (Maurizio Blondet)

Note
1) April DeConick, “Gospel’s Truth“, New York Times, 1 dicembre 2007.

2) Simon Caldwell, “Book bound in skin of executed Jesuit to be auctioned in England“, Catholic News Service, 28 novembre 2007.

Un “enigma” nella vita di Corrado Augias

Lunedì 19 ottobre il quotidiano Il Giornale, a firma del giornalista free lance Antonio Selvatici , riportava in sintesi il contenuto del materiale racchiuso negli archivi segreti di Praga e per essere precisi, nell’«Archiv bezpenostnich sloek», contenente documenti ufficiali assolutamente attendibili.

Va quindi precisato che non si tratta di informazioni inventate da un giornalista, ma fanno riferimento alle testimonianze e ai rapporti ufficiali di ex membri dei servizi di sicurezza cecoslovacchi. E’ così che l’elegante e british Corrado Augias sembra proprio aver collaborato tra il 1963 e il 1967 – nome in codice “Donat” – con agenti di una nazione allora nemica nonché sottoposta alla dittatura comunista, incontrandosi in quattro anni ben trentacinque volte con il funzionario ceco “Jaros”, che lo contattò per la prima volta durante un ricevimento all’ambasciata bulgara il 30 maggio 1963.

Donat – Augias era così descritto: «CorradoAugias. Di circa 25 anni [ne aveva in realtà 28]. Iscritto al partito socialista da 2 o 3anni. Proviene da una famiglia della media borghesia. Ha sposato la figlia del sottocapo di Stato maggiore dell’aeronautica militare. Lavora in Rai».

Il quadro stilato sul nuovo “contatto” da parte degli uomini dell’Stb (ex servizi segreti cecoslovacchi) è quello di un giovane ebreo di buona famiglia, tendenzialmente di sinistra, costretto a svolgere un lavoro ben remunerato all’interno di una struttura rigida e politicamente ostile come era la Rai, monopolizzata al tempo dalla Democrazia Cristiana.

I motivi per cui Donat poteva essere loro utile erano sostanzialmente due: il primo era appunto legato al suo lavoro in RAI: «Mantenere un contatto amichevole per cercare, durante gli incontri attuali, informazioni sulle linee tv rispetto al Partito comunista, alle intenzioni propagandistiche verso la Cecoslovacchia ed infine verso il problema della coalizione governativa»; il secondo era legato alla sua situazione familiare, in quanto egli era il novello sposo di Daniela Pasti, figlia del noto generale Nino Pasti, sottocapo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare, tanto che nel dossier dedicato ad Augias è inserito un trafiletto di stampa che ha come oggetto «Nuovo incarico nella Nato del generale Pasti».

Nino Pasti fu per anni l’ufficiale italiano con il grado più alto nella Nato, in veste di vicecomandante supremo in Europa; poi, improvvisamente, si dimise dall’esercito e venne eletto per due mandati come senatore indipendente del PCI, segnalandosi per la sua adesione al gruppo internazionale “Generali per la pace e il disarmo”, legato alla Stasi, i servizi segreti della Ddr (Germania dell’est), tanto che il suo nome figura nel lungo elenco stilato dall’ex archivista del Kgb Vassilij Mitrokhin. Dai rapporti di Jaros emerge come a collaborare non fu il solo Augias, ma anche la moglie, la quale ad esempio consegnò l’elenco telefonico del ministero della Marina, meritandosi un lodevole giudizio perché, rispetto al marito, «dal punto di vista operativo più interessante perché di carattere avventuroso e coraggioso».

 Il 7 febbraio 1967, il giorno prima di partire per New York a motivo del nuovo lavoro affidatogli (fu incaricato di piazzare negli Usa alcuni programmi culturali preparati da Roma), incontra per l’ultima volta Jaros, il quale gli propone di continuare la collaborazione anche negli Stati Uniti, con altri agenti. Così si espresse Donat: «Mi aveva assicurato la sua disponibilità dicendo che sarà sempre un grande amico della Cecoslovacchia. Non riusciva a capacitarsi che era l’ultima volta che ci vedevamo».

In difesa del noto giornalista è intervenuta ovviamente la Repubblica, che però si è limitata a deridere la questione, minimizzando i fatti e denunciando l’operazione come dettata dal padrone Berlusconi per screditare la testata giornalistica. Anche nella propria autodifesa Augias non entra nella questione, non smentisce direttamente le notizie date, ma si accontenta di fare la parte della vittima: “Calunniate calunniate qualcosa resterà”. E’ toccato ad altri, ieri a me”. E’ sì, è toccato ad altri, caro Augias, e tu lo sai molto bene…

Sui fatti iraniani.

In un momento in cui la comunità internazionale è concentrata su quello che sta avvenendo in Iran, mi sembra opportuno fare una sintesi per tentare di comprendere il più possibile la situazione, superando interpretazioni di comodo, basate sulle scarne e faziose notizie che i media nazionali riportano.

Prima di iniziare, quindi, è necessario liberarsi dagli stereotipi che ci vengono inculcati e che non permettono di analizzare con serietà e con libertà i disordini di questi giorni: non è vero che Ahmadinejad è un feroce dittatore che non ha alcun consenso popolare, ma non è neanche vero che la ribellione sia la solita “rivoluzione colorata”, ossia finanziata dalla Cia in collaborazione con il Mossad.

L’Iran sembra cioè muoversi con una logica tutta sua, tutta interna: per capirla cerchiamo di seguire le complesse trame che attraversano questa nazione e di cui gli aspetti sociali, politici e culturali non sono che il riflesso.

L’Iran è oggi un paese multietnico, in cui sono molto importanti le comunità locali, unite però dal collante religioso dell’islam sciita. Dalla rivoluzione del 1979 è una repubblica islamica, retta da una specie di sistema duale: da un lato ci sono organi politici non elettivi (cui si accede per cooptazione), in cui risiede il cuore del potere; dall’altra gli istituti (Parlamento, Presidente) eletti dal popolo. Al vertice della piramide del potere troviamo la Guida Suprema, massima espressione della Velâyat-e faqîh (in persiano significa “La tutela del giurisperito”), ossia quella dottrina ideata dall’ayatollah Khomeini secondo cui il giurista musulmano, in quanto esperto della legge (shari’a) che è emanata direttamente da Dio, ha il compito di sovrintendere a ogni azione del Parlamento perché si conformi a quella che il giurista stesso ritiene essere la corretta interpretazione della shari’a.

La Guida Suprema, dal 1989 l’Ayatollah Khamenei, nomina i sei membri religiosi del “Consiglio dei Guardiani della Costituzione”, composto da 12 membri, che ha il compito di approvare (giudizio insindacabile) le candidature alla presidenza della Repubblica e certificare la loro competenza e quella del parlamento, al pari delle più alte cariche giudiziarie. Di fatto con questo sistema il Consiglio dei Guardiani riesce a bloccare ogni legge che contrasti il potere dei religiosi e dei loro alleati. In queste ultime elezioni sono stati approvati quattro candidati: l’attuale presidente Mahmud Ahmadinejad, Mohsen Rezaei, Mir-Hossein Mussawi, Mehdi Karroubi. Ahmadinejad, laico ma religiosissimo, è visto come “l’uomo del popolo”, dalle modeste origini, il cui sostegno elettorale è da ricercare nei contadini abitanti le campagne e nei poveri lavoratori delle città. Egli appartiene alla seconda generazione dei rivoluzionari, cioè a quella che si è formata sui sanguinosi campi di battaglia nella guerra contro l’Iraq tra il 1980 e il 1988. Da iraniano sconosciuto, sale alle cronache politiche nazionali quando viene eletto sindaco di Teheran nel 2003, per divenire due anni dopo Presidente dell’Iran, vincendo tra la sorpresa generale le elezioni con il 61% dei voti.

Mussawi, lo sfidante di punta, è lontanissimo dall’immagine che l’Occidente gli ha cucito addosso. Egli innanzitutto non è un “homo novus”, fu primo ministro dal 1981 al 1989, usato come pedina da Khomeini per contenere le ambizioni di Khamenei. In queste elezioni egli aveva l’appoggio delle città utilizzando, più di ogni altro candidato, i mezzi tecnologici (Facebook, Youtube ed sms) il che non è un particolare insignificante in un Paese dove il 60% della popolazione ha meno di vent’anni, di cui il 30% (23 milioni di iraniani) naviga regolarmente in internet. Razaei fu capo dei Guardiani della Rivoluzione sotto la presidenza di Rafsanjani dal 1989 al 1997 e trova il suo consenso nei quadri dei servizi segreti. Karroubi è visto come un “riformista sociale” e i suoi voti li avrebbe presi “rubandoli” nelle campagne ad Ahmadinejad. Egli ha usato argomenti super demagogici, promettendo ad esempio di distribuire direttamente al popolo gli introiti petroliferi, proposta che nessuno di quelli al potere penserebbe mai di realizzare. Va ricordato anche le modalità in cui si è svolta la campagna elettorale: per la prima volta gli sfidanti si sono affrontati liberamente in faccia a faccia, duelli dai quali è uscito sempre vincitore Ahmadinejad, il quale ha avuto gioco facile appellandosi a sentimenti anti-casta e anti-corruzione molto diffusi nel Paese, citando spesso le massime dell’ayatollah Khomeini, sentite come un “ritorno alle origini”, il che suonava come una non tanto velata critica all’attuale casta sacerdotale, giungendo perfino ad accusare apertamente Rafsanjani di parassitismo e corruzione.

Già, Rafsanjani. Ecco l’uomo che ha più responsabilità nei fatti che sono seguiti ai risultati elettorali. Infatti suo era il piano originario che mirava a sostituire il Presidente in carica con il “suo” uomo Mussawi, in vista del suo vero obiettivo: la carica di “Guida suprema”, spodestando Khamenei. Purtroppo per lui gli esiti finali stanno andando in una situazione inimmaginata da tutti gli uomini dell’alto clero, con un Iran sull’orlo di una rivoluzione, con una guerra civile imminente che rischia di mettere fine alla casta clericale e quindi alla teocrazia stessa. Ma andiamo con ordine: il progetto politico di Rafsanjani era quello di arrivare al secondo turno, sfruttando la bassa affluenza elettorale, per poi dirigere tutti i voti di Razaei e Karroubi in favore di Mussawi contro Ahmadinejad.

I fatti però sono stati clamorosi: maggioranza assoluta al primo turno del presidente in carica e poco importa adesso se favorita da brogli (che appaiono comunque certi) e grande partecipazione popolare, con l’83% dei votanti. Salta completamente il sogno di Rafsanjani, il quale però, insieme a Mussawi, si ritrova a gestire la dinamicità di un’enorme rivolta giovanile e popolare che si muove con un’anarchia di fini, cioè priva di uno scopo preciso e che, come in tutte le rivoluzioni, non sa ancora dove si fermerà e cosa potrà abbattere. In gioco cioè potrebbe finire la teocrazia di cui gli stessi Rafsanjani e Mussawi fanno parte; a rendere tale pericolo ancora più concreto, si è aggiunto la “discesa in campo” della guida suprema Khamenei, il quale, “annusando” i reali intenti del duo Rafsanjani-Mussawi, ha azzardato legittimare la vittoria di Ahmadinejad.

 Le elezioni hanno cioè messo “in piazza” lo scontro interno al clero iraniano, tra Rafsanjani e Khamenei, scontro che non ha motivazioni solo religiose e politiche ma anche economiche. Vediamo quindi quali sono le forze sulle quali muovono la loro azione questi due personaggi. Intanto la premessa per capire la dinamica economica interna dell’Iran: se in Occidente i governi sono posseduti dal sistema bancario-finanziario, in Iran è il Ministero del Petrolio che comanda. E chi ha in mano la maggior parte del petrolio iraniano? Rafsanjani. E’ lui il padrone, per usare una terminologia cara ai suoi oppositori, della “Oil Mafia”.

Per capire l’importanza dell’oro nero in Iran basti pensare al fatto che Ahmadinejad da quando è Presidente ha cercato due volte di nominare ministro del petrolio un suo uomo, ma per due volte il parlamento, pagato dalla Oil Mafia, ha respinto le nomine; questo almeno fino all’agosto 2007 quando, su pressione di Khamenei, è passato il nome di Gholamhossein Nozari. Questo atto per Rasfanjani costituisce una perdita inaccettabile; da qui il suo ardito progetto, da qui l’inizio della sovversione iraniana. E’ sempre Rafsanjani, l’uomo tra i più ricchi dell’Iran, a gestire un vero impero finanziario, sfruttando posizioni di monopolio nel commercio con l’estero, oltre a possedere il bazar di Teheran e anche grandi proprietà terriere, fondando in alcune di queste più di trecento università private, all’interno delle quali studiano 3 milioni di ragazzi, i cui campus sono stati gli spazi dove più forte si è scatenata la protesta contro Ahmadinejad. Inoltre può godere del sostegno degli importantissimi chierici di Qom, città sacra all’islam sciita perché custode della tomba di Fatima. Furono proprio questi chierici che nel 1989 si opposero alla scelta di Khamenei, stabilendo che una vera Guida suprema doveva avere due qualità: una grande preparazione teologica ed essere “fonte di emulazione”, quest’ultima mancante a Khamenei (che non aveva seguito popolare) e che invece aveva Rafsanjani.

In quell’occasione per spuntarla Khamenei si appoggiò alle Guardie rivoluzionarie e ai servizi segreti. Per come stanno le cose oggi, ci troviamo di fronte ad uno scontro Khamenei-Ahmadinejad contro Rafsanjani-Mussawi. Sullo sfondo troviamo il vitalismo di un popolo giovane e stufo dell’ipocrisia dei religiosi che sono da troppo tempo al potere, che predicano la moralità quando vivono sulla corruzione degli introiti petroliferi e che oggi hanno occupato lo Stato, trasformandosi in una casta. Quello che questa rivoluzione in embrione sembra mettere in gioco è la legittimità del clero sciita, ossia le fondamenta del potere costituito, che è basato sulla “liberazione” dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi. Il problema è che il 60% degli iraniani non era ancora nato e non ricorda l’oppressione dello Scià, ma patisce solo quella presente della casta teocratica.

In questi giorni si sta decidendo se reprimere nel sangue la rivolta: se così sarà, potrebbe rappresentare un colpo decisivo per la legittimità di un potere che si pretende legittimato da Dio; infatti è alquanto difficile credere che Dio voglia mitragliare il suo popolo.

Il comunismo ateo uccide ancora: la Birmania

La Birmania, stato dell’Asia sudorientale, è balzato agli onori della cronaca per le proteste dei monaci buddisti e per le coraggiose denunce del premio Nobel Aung San Suu Kyi.

Quello che stupisce è che i nostri media tacciano il “colore” dell’attuale governo, limitandosi a parlare di “generali” o di “giunta militare”, lasciando quasi ad intendere che al potere ci sia una sorta di dittatura di destra ad opera di nipotini di Pinochet. Per questo è bene ricordare la storia e il presente di questo Stato che dal 1962 non conosce più la parole “libertà”.

La Birmania, liberatasi dalla dipendenza inglese nel 1937, si trasformò in una repubblica indipendente il 4 gennaio 1948, iniziando però a subire forti pressioni dalle minoranze etniche che premevano per uno Stato Federale e che non mancarono di manifestare i loro dissensi ricorrendo ad atti di vera guerriglia. La debolezza della democrazia birmana permise così nel 1962 al generale Ne Win di imporre una dittatura militare, presentando il suo progetto politico nel manifesto “La via birmana al socialismo” in cui al centro stava la nazionalizzazione dell’economia da parte dello Stato (fine della libertà d’impresa) unita ad una rigida autarchia (la chiusura del mercato all’estero in un’ottica di autosufficienza nazionale). Tale progetto necessitava di un fedele guardiano, che reprimesse ogni “disturbo” (così è chiamata ogni azione/critica contro il governo) e fu trovato in un esercito dalle grandi dimensioni, che con le sue 500mila unità è il decimo esercito del mondo. Ritengo superfluo raccontare i risultati di questa politica, dato che ottenne gli stessi identici frutti di tutti gli altri Stati dove il comunismo si è realizzato.

Nel 1988 i tumulti studenteschi, passati alla storia come la “rivolta 8888” (dalla data 8/8/88), vengono repressi con forza, lasciando sul campo un migliaio di vittime. Tuttavia questi fatti indebolirono la giunta militare che due anni dopo, dopo ventotto anni, permise libere elezioni. Il problema fu che il NLD (Lega nazionale per la democrazia), il partito di Aung San Suu Kyn, ottenne ben l’80% dei consensi, provocando l’irritata reazione dello SLORC (Consiglio di restaurazione della legge e dell’ordine di Stato), partito spalleggiato dall’esercito, il quale si affrettò a cancellare i risultati elettorali e ad arrestare il leader dell’NLD. Per allentare le tensioni delle minoranze, il nuovo (vecchio) regime cambiò il nome dello Stato “Birmania” (legata all’etnia egemone dei Bamar) in “Myanmar”, etnicamente neutro.

Dal 1992 il governo è nelle mani del generale Than Shwe, colui che fu il braccio armato della repressione dell’88, e che tutt’oggi prosegue la “via birmana al socialismo”. Con lui la linea dura da dieci anni si esprime anche con la persecuzione delle minoranze cristiane (4% della popolazione) e islamiche (4%), arrivando a distruggere più di 3mila villaggi, con la conseguenza che così si sono creati 250mila esuli, costretti a muovere verso i campi profughi al confini con la Thailandia, dove non vi è né corrente elettrica, né medicinali, fondamentali per combattere parassiti, epatiti ed Aids; dove la fame è un terribile spettro quotidiano che costringe molte famiglie a cedere i loro bambini alla prostituzione o al lavoro forzato. Nell’agosto 2007 abbiamo visto la “rivolta dei monaci buddisti” ma va detto che questi non sono mossi tanto da motivi “etico-morali”, ma più da motivi economici, in particolare per l’aumento del prezzo del petrolio.

Infatti il buddismo, praticato dal 90% della popolazione, è stato ed è comunque uno strumento con cui il governo tenta di far accettare lo status quo (i monaci tra l’altro sono esentati dal servizio di leva e dai lavori forzati, oltre a godere di molti privilegi economici). Mai i monaci hanno avuto da che dire di fronte alla persecuzione ai danni di cristiani e islamici; mai si è alzata la loro voce di fronte alla confisca delle scuole cattoliche o al divieto di leggere la Bibbia, mai hanno protestato contro la negazione dell’accesso a ruoli dirigenti per cittadini di quelle religioni; mai hanno condannato la distruzione materiale delle croci sulle montagne (sostituite con pagode). Ecco quindi che l’Occidente dovrebbe fare più attenzione ad identificare quei monaci come “eroi”, “martiri per la libertà”. La realtà è, come abbiamo visto, ben diversa.

Il comunismo ateo uccide ancora: la Corea del Nord (1)

Dopo la capitolazione giapponese del 15 agosto 1945, Kim II Sung, leader comunista della resistenza e capo dell’Esercito rivoluzionario popolare, s’impose come assoluto leader coreano. La Corea dovette subire l’analogo destino della Germania: a fine 1948 fu ratificato un trattato in cui il nord (Repubblica Democratica Popolare con capitale Pyongyang) andava ai sovietici, il sud (Repubblica di Corea con capitale Seoul) agli americani. La Corea del Nord applicò subito le politiche economiche comuniste, il 5 marzo 1946 fu abolita la proprietà fondiaria feudale, il 10 agosto furono nazionalizzate tutte le grandi industrie, le banche, i trasporti, le poste e le telecomunicazioni. Tra il 25 giugno 1950 e il 27 luglio 1953 scoppiò la guerra di Corea: questa, al contrario di quello che alcuni vogliono ancor oggi far credere, non fu (per una volta) una guerra preventiva e d’aggressione americana ma il contrario: infatti il 25 giugno del 1950, in piena Guerra fredda, 800mila nordcoreani, appoggiati dai sovietici, varcarono in armi il 38? parallelo con l’obiettivo di conquistare l’intero Paese.

Due giorni dopo il Consiglio di sicurezza dell’Onu mise ai voti il ricorso a “sanzioni militari” contro gli invasori; approfittando della mancanza del delegato sovietico (che aveva diritto di veto) la proposta fu accettata all’unanimità. Così il contingente dei Caschi blu fermò l’avanzata nordcoreana, ma l’invio di 180mila “volontari” cinesi complicò la situazione Fu così che si arrivò nel ’53 all’armistizio (valido ancora oggi visto l’assenza di un vero trattato di pace) che fissava nel 38? parallelo la linea di confine tra le due Coree: la guerra aveva provocato la morte di 415mila sudcoreani, 34mila americani e 1 milione tra nordcoreani, sovietici e cinesi.

L’esito del conflitto fu festeggiato in Corea del Nord come una vittoria sugli Stati Uniti e non si è tutt’oggi smesso di sognare la conquista del Sud; fino al 1980 il popolo nordcoreano visse cullando l’idea del “momento decisivo” e per questo il governo di Pyongyang infiltrò numerosi agenti sovversivi in Corea del Sud, i quali furono responsabili di numerosi attentati, tra cui quello del 21 gennaio 1968, quando 31 agenti nordcoreani attaccarono la residenza presidenziale a Seoul, uccidendo 68 sudcoreani o l’abbattimento il 15 aprile 1969 di un EC-121 americano che sorvolava il Mar del Giappone (a 160 km dalle coste coreane) da parte di un MiG-21 nordcoreano, provocando la morte di 31 persone, senza dimenticare l’attentato del 1987 che causò la morte di 105 passeggeri del volo della Korean Airlines.

Dal 1993 la Corea del Nord attira invece l’attenzione internazionale per i suoi esperimenti nucleari: nel maggio di quell’anno infatti lanciò un missile Rodong nel Mar del Giappone, divenendo il nono Paese al mondo a possedere la bomba atomica. Nel 2003 si ritirò dal trattato di non proliferazione nucleare (TNP); il 4 luglio 2006 lanciò sette missili balistici scatenando una grave reazione internazionale che si aggravò tre mesi dopo con il primo test nucleare sotterraneo, provocando, oltre a sanzioni economiche, perfino la condanna da parte della Cina, alleata di sempre. Nel febbraio 2007 la Corea del Nord accettò di smantellare alcuni impianti nucleari in cambio di 400milioni di dollari in petrolio ed aiuti. Tuttavia proprio lunedì 25 maggio 2009 c’è stato un nuovo test ed è stato annunciato un altro lancio di un missile a corta gittata. Il problema nucleare nordcoreano è oggi a tutti gli effetti un serio pericolo per la sicurezza della comunità internazionale. Dopo questo rapido excursus storico, vediamo in dettaglio le caratteristiche del governo.

La Corea del Nord è retta da un regime comunista di tipo stalinista molto particolare, dato che si ha una sorta di “comunismo dinastico“: nel 1994 la morte del “Padre della Patria” Kim II Sung (al potere dal 1948) ha provocato la modifica della Costituzione, proclamando “l’eternità” della Presidenza al dittatore defunto, introducendo la continuità dinastica e quindi legittimando la presa del potere del figlio Kim Jong-il (nella foto)con il titolo ufficiale di “Caro Leader”. Il Paese si regge sulle due entità fondamentali di ogni regime comunista: il partito e l’esercito.

La cricca militare dei “comunisti illuminati” risiede nella capitale, Pyongyang, girando in Mercedes e arricchendosi con ogni genere di traffico illegale, su tutti quello della droga e della falsificazione dei dollari, mentre il resto del Paese muore di fame. Facendo leva sull’assenza di un trattato di pace, il Paese è severamente militarizzato: il servizio militare è permanente per ogni cittadino adulto, senza esclusione di sesso. Se nel 1972 si calcolavano 400mila effettivi, oggi l’esercito è composto da più di 1 milione di uomini, a cui vanno aggiunti 7 milioni di riservisti, numeri che fanno della Corea del Nord la nazione con il maggior numero di soldati al mondo in rapporto con la sua popolazione (40 arruolati ogni 1000 abitanti!).

La politica economica disastrosa, che passa sotto il nome di Juche, non è che la ripetizione del binomio autarchia-autodeterminazione che rifiuta il commercio internazionale perché “contrario al bene dei lavoratori”. In questo modo la Corea ha conosciuto gravissime carestie: quella tra il 1994 e 1998 fu talmente intensa (le fonti ufficiali parlano di 220mila vittime, mentre le ONG ritengono che il numero si aggiri sui 3 milioni) che costrinse il Paese per la prima volta nella sua storia, ad uscire dal proprio isolazionismo, chiedendo l’aiuto internazionale: il mondo arrivò a concedere 1 miliardo di dollari (il secondo piano di assistenza internazionale più ingente della storia dopo quello della Ex-Jugoslavia); tuttavia rimane aperto l’annoso problema dell’utilizzo di questi aiuti da parte di Kim Jong-il, poiché egli non consente agli organismi internazionali di vigilare sulla loro elargizione.

L’ostinata continuazione di quelle teorie economiche oggi hanno ridotto più di 13 milioni di persone (su un totale di 22 milioni) alla fame. Per evitare ogni opposizione il regime di Pyongyang ha compiuto ogni sforzo per eliminare l’analfabetismo e oggi praticamente tutti sanno leggere e scrivere: questo infatti garantisce, mediante un’istruzione perfettamente controllata, l’indottrinamento del popolo, basti pensare al fatto che la Corea del Nord figura al 172? posto su 173 per quanto riguarda la libertà nell’informazione, davanti solo all’Eritrea. Perfino l’utilizzo dei cellulari e l’ascolto della radio, dopo un’iniziale apertura nel 2002, già due anni dopo furono nuovamente vietati. Gli altri media, invece, mantengono vitale, in un Paese che si definisce ateo, il culto della personalità del Caro Leader.

Sempre servendosi di questi strumenti, il regime comunista nordcoreano base la propria forza sul terrore e la psico-propaganda, in un miscuglio di paura (“Siamo circondati dai nemici”), di militarismo, per cui il primato militare è fatto credere necessario alla popolazione per un imminente “grande balzo in avanti” di maoista memoria, e di folle orgoglio razziale (“Siete la razza più pura dell’Asia”). Fa sempre parte della Juche, l’ideologia del regime, l’aggregazione coatta del popolo in adunate, canti e marce, a volte fino ai campi di morte. Infatti recentemente la comunità internazione è venuta a conoscenza dell’esistenza di 12 campi di concentramento dove sarebbero rinchiusi per “reati politici” più di 200mila prigionieri e dove si svolgerebbero torture, stupri, esperimenti medici (terribile in questo senso è il Campo 22 dove sarebbero internate 50mila persone) e aborti forzati. Incredibile come si possa venir arrestati non solo perché sospettati di essere personalmente dissidenti, ma basta esserne un familiare: il regime perseguita fino alla terza generazione, per estirpare il cattivo sangue che ha generato il seme del dissenso.

Ultime due annotazioni: la prima è che la Corea del Nord è l’unico stato al mondo in cui non vi sono handicappati. I bambini con qualche disabilità vengono uccisi negli ospedali o nelle case per purificare le masse, rendendole così più forti, intelligenti e in salute; l’altra è che a Pyongyang, città che prima della guerra di Corea era il centro delle attività cristiane, mancano all’appello 35mila cristiani, fatti sparire nel nulla da un regime che oggi è visto, dalle organizzazioni missionarie cristiane, come il più persecutorio del mondo.