La Regola pastorale, un classico per sacerdoti

La Regula pastoralis, scritta con intento programmatico da san Gregorio Magno all’inizio del suo pontificato (590-604), è l’opera più famosa del grande pontefice e, in assoluto, uno dei capolavori patristici più letti e meditati nella storia della Chiesa. Leggi tutto “La Regola pastorale, un classico per sacerdoti”

L’antipsichiatria e Franco Basaglia

La legge 180 del 1978 – la cosiddetta “legge Basaglia” – non ha sancito l’abolizione degli ospedali psichiatrici, ma l’abolizione della realtà sic et simpliciter. Nel testo legislativo, ad esempio, la parola “pericolosità” non compare neppure una volta. ? la stessa dinamica per cui nella 194/78, la legge sull’aborto, non compare mai la parola “madre”: si allontanano i vocaboli, nell’illusione che ciò contribuisca a far scomparire ciò che di concreto essi designano. Prima della 180, proprio la minaccia potenziale rappresentata dai malati di mente era stata, com’è giusto e naturale, tra le principali preoccupazioni del legislatore. Dopo, non ci si è più voluto pensare: per i basagliani, la pericolosità del malato mentale è solo un antiquato pregiudizio della società oppressiva, essa stessa autentica matrice di ogni comportamento deviante. Tra omicidi e suicidi, i bei risultati di queste idiozie sono quantificati dal sito vittimedella180.org: 350-400 morti all’anno.

Ma come si è giunti alla legge 180? Chi è stato Franco Basaglia? Fornirò, qui, solo alcune notizie in pillole, che possano però dare un’idea del micidiale brodo di coltura denominato correntemente antipsichiatria.

L’antipsichiatria è un insieme di tendenze in campo psichiatrico fiorite negli anni Cinquanta-Settanta del Novecento. I suoi principali esponenti a livello internazionale sono perlopiù individuati in David Cooper (che per primo, nel 1967, utilizza il termine “antipsichiatria”), Ronald Laing e Thomas Szasz. Come il nome stesso suggerisce, ciò che caratterizza l’antipsichiatria è l’opposizione radicale a tutto ciò che fino ad oggi si è comunemente inteso per psichiatria, ovvero il settore della medicina deputata al trattamento delle malattie mentali. Perché le malattie mentali, sostengono gli antipsichiatri, non esistono affatto. Prendo a prestito le efficaci parole di Corrado Gnerre: “[L’antipsichiatria si basa] su un giudizio ben preciso sulla malattia mentale, meglio: su un non-giudizio, ovvero sulla convinzione che la follia non possa essere davvero riconosciuta tale… e perché? Perché un atto e un comportamento possono essere giudicati ‘folli’ allorquando si parte da un criterio di giudizio che preveda il riconoscimento di una ‘norma’, cioè di una ‘normalità’; allorquando si parte dalla convinzione che esiste un ordine naturale e un disordine, una logica ed un’illogica, un bene ed un male. Ora, dal momento che l’antipsichiatria fa propria una visione delle cose completamente relativista, ecco dunque che non può riconoscere nessuno statuto alla malattia mentale. La follia non è più giudicabile come tale, perché non si può essere certi di cosa sia la normalità e cosa sia, invece, l’anormalità” ( La Rivoluzione nell’uomo, pp. 54-55). I folli, in quest’ottica, sono delle persone come tutte le altre, o forse addirittura privilegiate rispetto alle altre a causa dell’avvenuto superamento, in loro, delle arbitrarie categorie di pensiero e di azione imposte agli uomini dalle strutture reificanti della società capitalistica. Lo stesso Gnerre cita a questo proposito la “Lettera ai primari di manicomi”, pubblicata nel 1925 sulla rivista La Révolution surréaliste: “Non ammettiamo che si ostacoli il libero svilupparsi di un delirio che è legittimo, logico tanto quanto qualsiasi serie di idee o di atti umani (…). Senza insistere troppo sulla natura assolutamente geniale insita nelle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo adatti ad apprezzarle, affermiamo l’assoluta legittimità della loro concezione della realtà e di tutte le azioni che da essa derivano” (in op. cit., p. 55). Ai pazzi, dunque, come propugnavano i surrealisti, non va più imposto alcun vincolo, alcuna contenzione. La verità non esiste, la realtà non è quella che sembra: il modo di agire e la visione del mondo di un pazzo hanno lo stesso diritto di esistere di quelli di chiunque altro.

Segnalo di passaggio la matrice gnostica di tali concezioni (matrice che si fa del tutto esplicita nei testi di Laing) per passare direttamente al alcune notizie ed aneddoti riguardanti il maggior rappresentante italiano dell’antipsichiatria, Franco Basaglia (1924-1980).

Marx, com’è noto, pone come fulcro del movimento storico (dialettica) la categoria del conflitto, che si svolge per lui tra capitalisti e proletari, ovvero tra sfruttatori e oppressi. ? dallo scontro mortale di tali forze che germinerà, un giorno, la società senza classi e senza ingiustizie. Nella seconda metà del Novecento l’identica ‘ideologia del conflitto’ verrà estesa da molti pensatori alle più disparate realtà sociali: uomini e donne (femminismo), adulti e giovani (contestazione giovanile), clero e laicato (cattolici del dissenso), eccetera: tutte realtà, per gli ideologi in questione, destinate a rapportarsi non in termini di conciliazione e servizio reciproco, ma di opposizione e lotta. Basaglia, come altri antipsichiatri, si incarica di estendere la medesima dialettica marxiana al rapporto tra sani di mente e malati psichiatrici. Questi ultimi sarebbero secolarmente oppressi e discriminati dai primi, che stabilirebbero un arbitrario ed escludente concetto di ‘normalità’ con lo scopo, inconfessabile, di scaricare sul mondo della patologia psichica i propri intimi conflitti irrisolti. La storia del malato è una storia di oppressione, che comincia in famiglia (‘istituzione della violenza’) per finire nel lavoro e nella società. Per far sì che i ricoverati prendano coscienza di queste dinamiche di esclusione e sopruso, Basaglia inventa una speciale antipedagogia. Fa partecipare i malati di mente a una sorta di lavaggio del cervello alla rovescia, cercando (parole sue) di “stimolare l’aggressività nascente facendo avvicinare la loro situazione a quella di altri ‘esclusi’, attraverso la proiezione di documentari in cui fossero evidenti le parti degli oppressi e degli oppressori“.

Quello di ridestare l’aggressività dei malati ‘oppressi’ è un pallino di Basaglia. In un articolo, dichiara che “su questa aggressività, che noi psichiatri cerchiamo per un’autentica relazione con il paziente, potremo impostare un rapporto di tensione reciproca che, solo, può essere in grado di rompere i legami di autorità e paternalismo, causa fino a ieri di istituzionalizzazione“. Come si suol dire, “chi semina vento raccoglie tempesta”. Sorvolando sugli episodi di cronaca che vedono pazienti in cura presso Basaglia ammazzare le mogli a colpi d’accetta, lo stesso psichiatra è oggetto, nel settembre 1977, di un tentativo di linciaggio da parte di un gruppo di contestatori denominato “Marge”: i suoi componenti si definiscono “ex delinquenti, emarginati, folli, prostitute“, e vogliono fare della marginalità una “coscienza nuova.

Tra le novità introdotte da Basaglia nella gestione dei manicomi (prima della legge 180) è compresa l’abolizione della distinzione rigida dei luoghi di degenza per uomini e donne. Già nel 1973, con Basaglia direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste, a diversi medici dell’équipe vengono recapitati avvisi di reato per “somministrazione di sostanze anticoncezionali con presunta violenza”; nel 1978, poi, arrivano quattro avvisi di reato ad altrettanti medici per “procurato aborto in donna consenziente”. Tutta l’équipe basagliana si autodenuncerà per lo stesso reato.

Fonti:

Corrado GNERRE, La Rivoluzione nell’uomo, Fede&Cultura 2008

Mario COLUCCI e Pierangelo DI VITTORIO, Franco Basaglia, Bruno Mondadori 2001

Franco BASAGLIA, L’utopia della realtà (a cura di Franca ONGARO BASAGLIA), Einaudi 2005

Mario GHIOZZI, “La psichiatria”, in I.D.I.S., Voci per un Dizionario del Pensiero Forte, http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/p_psichiatria.htm

Ermanno PAVESI, “L’antipsichiatria”, in I.D.I.S., Voci per un Dizionario del Pensiero Forte, http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/a_antipsichiatria.htm

http://www.vittimedella180.org

“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”

“Finita, / è finita. / La nostra favola è finita. / Semplice e tragico: / è finita. / Tutto qua”.

Era da un po’ che non risentivo Uno, la title track dell’omonimo album dei Marlene Kuntz datato 2007. Un bellissimo pezzo: denso, amaro, struggente. Tutti, chi più chi meno, possiamo riconoscerci in quell’ipnotizzante ritornello:

“C’è qualche cosa di sbagliato nell’amore, / c’è che quando finisce porta un grande dolore… / perché quando un’amicizia muore non c’è / questo spasimo che sa di tremenda condanna”.

“C’è qualcosa di sbagliato nell’amore”. Intendendo per amore quello tra uomo e donna, vi è davvero in esso, post peccatum, “qualche cosa di sbagliato”. Liti, sopraffazioni, disarmonie, incomprensioni, abbandoni: percepiamo, in tutto questo, una dolorosa deviazione dall’ideale, la violazione di un “dover essere” che si dimostra stranamente inattingibile.

Ho sentito dire, e mi trovo d’accordo, che lo stato normale dell’uomo è l’innamoramento. Siamo fatti per essere innamorati: innamorati di Dio. L’uomo che non si innamora di Dio è l’essere più monco e irrealizzato della terra: una larva grigia che non conosce i colori.

L’amore umano, l’innamoramento tra creature diverse e complementari come l’uomo e la donna, è stato progettato per essere metafora di quell’amore più grande che è l’Amore divino. Sicuramente è per questo che, dopo il peccato e l’allontanamento da Dio, tendiamo a trasferire sull’amore umano la nostra fame di assoluto.

“Se penso a quelle cose che morranno perché / non potremo più condividerle… / muoio anch’io”.

“Muoio anch’io”: cioè muore in me la mia essenza, se viene meno l’oggetto del mio originario e strutturale “essere innamorato”. La fine di un amore umano, nella misura in cui esso non è stato subordinato e finalizzato all’Amore divino, è sempre un disinganno: scopro di aver assolutizzato il relativo, ed ora al mio slancio mancano appigli.

“…questo è il mio tormento, la mia fatalità / il motivo della fine della favola…”.

Calasso e il Corriere delle Tenebre: buona gnosi a tutti

Quella tra Adelphi e Corriere della Sera, lo si sa, è una partnership collaudata. Non c’è pubblicazione importante della casa editrice milanese che non venga recensita, commentata o almeno segnalata sulle pagine del colosso giornalistico di via Solferino. Senza dubbio, le comuni frequentazioni ai vertici dei rispettivi dirigenti aiutano a mantenere buoni rapporti: questione di amicizie, e di finanziatori eccellenti. Insomma, aria di famiglia.

Ma al di là di questo, ci si può legittimamente chiedere quale sia l’intentio profundior che collega tra loro questi due indiscussi (e indiscutibili?) bastioni della cultura italiana.

Pare che il Corrierone nazionale sia il quotidiano più letto dai cattolici: la fama di equilibrio e moderatismo che lo contraddistingue, probabilmente, attira quell’ampia fascia di persone serie che si mantiene generalmente aliena dai toni troppo accesi e dalle faziosità più grossolane. Un giornale dall’apparenza sicura, al tempo stesso accessibile e colto: di certo, portandolo sotto il braccio all’uscita dalla Messa domenicale, non si rischiano occhiatacce da parte di nessuno. E pazienza se poi, in realtà, i contenuti proposti siano sottilmente ma metodicamente avversi alla concezione cristiana della vita.

Venendo all’Adelphi. Come non ammirare il perfetto bilanciamento dei suoi volumi, la linea impeccabile delle grafiche, l’accuratezza maniacale degli editing? Per non parlare, poi, dell’indubbia rispettabilità (sociale…) delle pubblicazioni. Quando, nel 1988, venne pubblicato Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso, non ci fu un solo borghese conscio della propria dignità che non lo acquistò e non lo pose nel punto più visibile della propria biblioteca.

Ma… Calasso, appunto. Oggi stesso, martedì 14 aprile, il deus ex machina della “benemerita” casa editrice si vede pubblicata dal Corriere, in due vistose paginone della sezione Cultura, una sintesi dell’introduzione da lui vergata per l’ultima novità del catalogo adelphiano: la traduzione italiana di un vecchio saggio dello studioso ebreo Sylvain Lévi (1863-1935), La dottrina del sacrificio nei Brahmana. L’edizione originale è francese, e data al 1898. Si direbbe che, per ripescare un saggio così vetusto e proporlo con tanta solennità al pubblico italiano del Terzo Millennio, Calasso debba pur avere le sue buone ragioni. Scopriamole.

La titolazione apposta all’articolo dalla redazione del Corriere è già piuttosto interessante: “Viaggio all’origine dell’India. Prajapati, il dio che creò gli dèi. E sarà dimenticato da tutti”. Di cosa si tratta? Come le didascalie si premurano di specificare, il nucleo della questione sta tutto nella “colpa del Padre”, cioè di Dio. Secondo la mitologia indù, infatti, “gli uomini si domandavano perché Prajapati avesse creato ladri, tafani, zanzare… Ma in realtà la creazione era percepita come una grave ferita alla pienezza dell’essere, così tutti sono condannati a cercare di restaurarla”. Il libro di Lévi fa il punto sul contenuto dei Brahmana, “i testi liturgici sull’origine del mondo e il significato del sacrificio rituale”.

Ricapitolando: colpa del Padre – creazione/origine del mondo – ferita – condanna – sacrificio rituale.

Chiarissimo, no?

Se per qualcuno non è abbastanza chiaro, abbandoniamo le titolazioni degli arguti redattori e facciamo lo sforzo di leggere il corposo articolo.

Articolo che, per la sua importanza, inizia addirittura in prima pagina. Calasso va subito al cuore (caldo e pulsante) del problema. I Brahmana, dice, “sono trattati in prosa sul sacrificio (sui molti tipi del sacrificio). Testi al tempo stesso di esegesi liturgica e di metafisica, perché il sacrificio è tutto e parlarne implica dire ciò che è”.

Il sacrificio è tutto, CONTINUA ALLE PAGINE 32 E 33.

Calasso, seriosissimo, ci informa del fatto che “il rito” (sacrificale) tende a “invadere la totalità del tempo”. I Brahmana costituiscono il luogo della “dottrina segreta” indù su quella che sembrerebbe l’essenza sacrificale del cosmo. In questa “grandiosa impresa di interpretazione”, Prajapati è il “personaggio dominante”: Dio, o per meglio dire il primo tra gli dèi. Le sue “vicende” sono “drammatiche”: “suicida, ferito in un agguato, disarticolato, agonizzante, minacciato di morte dal figlio primogenito”.

Ma qual è il vero presupposto dell’“alto e inconfondibile pathos” di Prajapati?

Questo: “Non conosciamo un altro creatore che, al pari di lui, si perda nelle vicende della creazione, si sfibri nei rinnovati, spesso falliti, esasperanti tentativi di dare forma al mondo, di renderlo abitato da esseri pienamente viventi”. Questi “esseri”, infatti, che altro non sono che gli “dèi”, cominciano subito a farsi la guerra tra loro, divisi in due schiere contrapposte di “fratelli nemici”, e “presto dimentic[ano] e accanton[ano] il Padre, figura ormai inutile e sorpassata”. E non sono gli unici a farlo. “In fondo”, commenta Calasso, “gli uomini moderni non furono che gli ultimi a ignorare Prajapati”.

Al termine dell’opera creativa di Prajapati, “la visione che si presenta è un immane disastro”. Prajapati stesso “è sfinito, svuotato. Solitario come all’inizio era solitario, perché le creature si sono subito rivolte via da lui. Il fine dell’opera – gioia e cibo – non è stato raggiunto. Questo è lo sfondo su cui ogni altro evento si delinea: una scena di desolazione e di abbandono, come al termine di uno sforzo vano”.

La teologia della storia che ne consegue è terribile. Scrive Calasso che “tutta la storia, da allora, è il processo con cui Prajapati tenta di reintegrare le sue forze”.

“Mai un dio creatore è stato esposto come Prajapati al tormento, dall’interno e dall’esterno. Mai un essere divino è stato così dipendente dalla sua fisiologia. Dio solitario, ardente, suicidale, sessuale, le sue creature lo trattano con eccessiva familiarità, come se non si fossero ancora del tutto distaccate da lui. La creazione è una sequenza convulsa. Nessuno ha il tempo di fermarsi per onorare il Padre. E presto tutti lo fuggono. Ma come mai le creature abbandonarono Prajapati? Erano appena apparse e il Progenitore giaceva sfibrato, ‘svuotato’ (riricanah, termine perfettamente corrispondente alla kénosis paolina: ‘exinanivit se’). Subito, le creature gli voltano le spalle. Votato alla solitudine, prima e dopo avere creato, Prajapati non può mai gioire degli esseri che ha fatto esistere. È condannato a un perenne monologo, che a tratti può concentrarsi nell’‘ardore’, nel tapas”.

Ma la domanda ritorna: perché le creature abbandonarono Prajapati? Secondo Calasso “si può azzardare” una risposta, che è una risposta precisa. Le creature fuggono dal Padre “perché si vergognano di lui, perché riconoscono in lui il primo colpevole”. E la colpa, in fondo, è una sola: “la creazione s
tessa, quella ferita inferta nella pienezza, che l’aveva dispersa in un pulviscolo di esseri; quel passaggio irreversibile dal continuo al discontinuo, che ora avrebbe costretto tutti a vivere faticosamente tentando di ricomporre quel continuo – cioè il corpo stesso del Padre. E non sarebbero mai riusciti a farlo una volta per tutte
”.

“Ma, prima di giungere a quel punto – e quasi non volessero pensare a che cosa li aspettava –, fuggirono. Lasciarono di nuovo il Padre nel deserto degli esseri, e l’osservarono da lontano mentre scopriva un modesto sacrificio per tentare – già da solo – di migliorare la sua condizione. Eppure, quella cerimonia gli giovò. Per il puro fatto di offrire. Ma a chi? C’era solo il vuoto davanti a lui. Allora ricordò: Chi? – Ka – era il suo nome. Offriva se stesso a se stesso”.

Punto a capo, e Calasso porta a trionfale compimento la speculazione condotta: “Ma non sarebbe mai bastato. Per ricomporre Prajapati non sarebbe occorso nulla di meno dell’immane costruzione dell’altare del fuoco. Gli uomini pensavano ai diecimilaottocento mattoni di cui avrebbero avuto bisogno per innalzarlo, per ricomporre il Padre”.

La “macchina speculativa del sacrificio brahmanico” si compie, e chissà se i tranquilli lettori del Corriere hanno afferrato che cosa c’è sotto.

Post scriptum. Per afferrare “che cosa c’è sotto”, cfr. Maurizio Blondet, Gli “Adelphi” della dissoluzione. Strategie culturali del potere iniziatico, Edizioni Ares, Milano 1994. Cfr., inoltre, qui (e numeri seguenti, spec. 2, 4 e 8), qui e anche qui.

Miracoli 2: le Sacre Particole di Siena

Siena, 14 agosto 1730. Nella chiesa di San Francesco, una pisside contenente 351 ostie consacrate viene trafugata. In quel secolo di fede ancor viva e diffusa, il sacrilegio perpetrato provoca uno scandalo enorme in tutta la città, tanto che si decide di sospendere persino il tradizionale Palio. Tre giorni dopo, fortunatamente, le ostie vengono tutte ritrovate: abbandonate dai trafugatori – perché pentiti e convertiti? non si è mai saputo – in una cassetta per le elemosina.

Le ostie sono immediatamente ricollocate al loro posto, ma – per motivi igienici e a causa del desiderio della folla di adorarle a fini riparatori – non vengono consumate. Con il passare del tempo, vengono quasi “dimenticate” in qualche tabernacolo della chiesa.

Le 351 ostie vengono riesumate solo quasi cinquant’anni più tardi. Lo stupore degli scopritori è lo stesso, forse, che coglie noi oggi: le ostie sono assolutamente intatte, incorrotte, prive addirittura di qualsiasi segno di ingiallimento dovuto al trascorrere del tempo.

Come è possibile?

Il materiale con cui sono fabbricate le particole, la farina azzima di frumento, è estremamente deperibile. In condizioni normali, una particola non consumata si riduce in poltiglia nel volgere di un paio d’anni, e poi in polvere. Dal 1730, a Siena questo inevitabile processo naturale è assente: come appena accennato, le ostie sono intatte ancor oggi, e tuttora esposte all’adorazione dei fedeli.

Oltre all’aspetto e al colore, persino il loro gusto è rimasto normale e inalterato: lo testimoniano le persone che, nel corso del tempo, sono state comunicate con alcune di esse proprio al fine di saggiare tale caratteristica (ragion per cui ne rimangono attualmente 223).

Sgombriamo subito il campo da alcune facili obiezioni. Le ostie sono le stesse del 1730: lo provano, tra l’altro, le tracce di un ferro particolare usato in quel periodo per produrle. Nessun accorgimento è mai stato adottato per assicurare la loro conservazione: qualsiasi accorgimento, tra l’altro, sarebbe stato vano dinanzi allo scorrere di quasi tre secoli di storia e al frequente tocco di mani umane con relativi microrganismi. Addirittura, il vetro della pisside in cui sono state a lungo racchiuse è divenuto sede di muffe e impurità: muffe e impurità che però, del tutto inspiegabilmente, non hanno intaccato le ostie immediatamente contigue. Più volte si sono eseguite delle controprove: si sono poste cioè le ostie prodigiose in appositi contenitori, frammischiate a particole non consacrate e appena prodotte. Queste ultime si sono sempre sbriciolate e disfatte in breve tempo; le ostie del 1730 mai.

Nel 1914 un illustre chimico, Siro Grimaldi, fu chiamato ad analizzare le ostie per mezzo di una serie di esami scientifici. La relazione finale le descrive come “lucide e lisce, con bordi netti, non sfrangiati né smussati. Prive di acari, tarli, di ragnatele, di muffe e di qualsiasi altro parassita animale e vegetale propri di quella farina di frumento con cui sono composte”.

Lo specialista non mancava di notare che “la farina di grano è il miglior terreno di coltura dei microrganismi, dei parassiti animali e vegetali, della fermentazione lattica e putrida”. Ma, nonostante la loro assoluta normalità, “le particole di Siena sono (…) in perfetto stato di conservazione, contro ogni legge fisica e chimica e nonostante le condizioni del tutto sfavorevoli in cui si sono venute a trovare”.

Conclusione: “un fenomeno assolutamente anormale: le leggi della natura si sono invertite”.

Dal 1730 al 1914, e dal 1914 al 2009, nulla di quelle ostie consacrate è mutato: un caso – scientificamente inspiegabile – di conservazione della materia. In altre parole, un miracolo: uno dei più clamorosi, peraltro, di quei “miracoli eucaristici” voluti da Dio proprio al fine di confermare il dogma più folle della fede cattolica: la Presenza Reale di Gesù Cristo in un cerchietto di pane.

Chi volesse verificare di persona non ha che da programmare una gita. Destinazione: Siena, piazza di San Francesco, chiesa di San Francesco, transetto sinistro. Le “Sacre Particole” vi vengono conservate nel periodo estivo.

(La maggior parte dei dati menzionati è tratta da Vittorio Messori, Pensare la storia, SugarCo).

Giovanni Cavalcoli, “La liberazione della libertà. Il messaggio di P. Tomas Tyn ai giovani” (Fede & Cultura)

Padre Giovanni Cavalcoli è un sacerdote e teologo domenicano residente a Bologna. Nel corso della sua vita conventuale e di teologo ha avuto la fortuna di conoscere il Servo di Dio Padre Tomas Tyn (1950-1990), grande filosofo e teologo cecoslovacco della cui causa di beatificazione è ora Vicepostulatore (per un sintetico ritratto di Padre Tyn si può cliccare qui; si veda anche il libro dello stesso Cavalcoli, Padre Tomas Tyn. Un tradizionalista postconciliare, Fede & Cultura, Verona 2007, e il bel sito www.arpato.org).
Con il recente La liberazione della libertà. Il messaggio di P. Tomas Tyn ai giovani (Fede & Cultura, Verona 2008), Padre Cavalcoli ha voluto diffondere, per mezzo di una sintesi teologica accessibile a tutti, i contenuti del pensiero tyniano circa l’essenza della libertà umana. Obiettivi polemici sono alcune errate nozioni di “libertà” oggi particolarmente diffuse, come i concetti ateo, spontaneistico e panteistico della libertà. Il risultato dello sforzo divulgativo di Padre Cavalcoli è un breve libretto che compendia, in modo incisivo e didatticamente efficace, i fondamenti stessi della posizione cattolica a questo riguardo. Condotto per mano da Padre Cavalcoli e dalle interessanti citazioni di Padre Tyn riprodotte in appendice, il lettore apprende il primato della conoscenza intellettiva del fine sulla volontà, il necessario rapporto tra libertà e verità, la distinzione tra voluntas ut natura e voluntas ut libera, l’essenza della libertà “di perfezione” o “di esultanza”, l’intrinseca razionalità di una punizione eterna e severissima per chi, con il peccato, faccia cattivo uso della propria libertà, e molte altre cose. Il libro è consigliabile a chi, privo di studi filosofico-teologici, volesse farsi un’idea chiara e precisa di questi argomenti.
Meriterebbe qualche parola, infine, la casa editrice Fede & Cultura che ha stampato questo ed altri pregevoli saggi: mi limito a segnalarne il catalogo sul sito www.fedecultura.com.

Qualche miracolo per inquietare gli atheoi (1)

Come la Chiesa ha sempre affermato (e i Vangeli testimoniano abbondantemente), il miracolo è una delle prove più sicure della verità del cristianesimo. E lo è tantopiù oggi, in un’epoca in cui le conoscenze scientifiche a nostra disposizione possono accertare al di là di ogni dubbio la realtà o meno di innumerevoli fatti soprannaturali. Mi propongo quindi di riportare sinteticamente, “pescandoli” tra mille possibili, alcuni episodi particolarmente eclatanti e documentati verificatisi nel corso del Novecento.

Primo episodio: la guarigione di Marie Bailly (1902)

Nel 1902, Alexis Carrel era un giovane e talentuoso scienziato agnostico e positivista. Aveva già iniziato le ricerche in campo medico che più tardi, nel 1912, lo avrebbero condotto al Nobel.

All’epoca, specie negli ambienti medici francesi, si discuteva accesamente della verità o meno dei fatti di Lourdes.

Le convinzioni irreligiose e scientiste di Carrel lo portavano a diffidare e a negare: al punto che, quando nell’estate di quell’anno ne ebbe l’occasione, volle unirsi ad una comitiva di pellegrini per documentare personalmente l’inganno che, a suo parere, stava alla base dei presunti miracoli.

Fattosi illustrare da alcuni colleghi cattolici la dinamica di alcune guarigioni “miracolose”, Carrel sbottò: nulla di “impossibile” a priori, nulla che non si potesse spiegare, ad esempio, con l’immensa forza dell’autosuggestione. “Le guarigioni di cui voi mi parlate – diceva Carrel – sono quasi sempre frutto di complicati processi psichici, frutto quindi di autosuggestioni. Solo nel caso di guarigione di una vera malattia organica si potrebbe parlare di miracolo. Per esempio, una gamba tagliata che ricresce, un cancro che scompare, una lussazione congenita che improvvisamente guarisce”.

A mo’ di sfida, Carrel visitò alcuni malati della comitiva di pellegrini. Il suo scopo era indicare chi, tra loro, risultasse effettivamente inguaribile per vie naturali, in modo da poter convincere un osservatore imparziale, in caso di guarigione, di un reale intervento miracoloso.

Al termine delle sue visite, i malati da lui indicati come effettivamente inguaribili furono solamente quattro. “Ecco – dichiarò agli altri medici che viaggiavano con lui -, se una di queste quattro persone guarisse, saremmo di fronte a un fatto veramente strepitoso, tale da far crollare tutte le mie convinzioni scientifiche”.

La sua attenzione si appuntò in particolare su una pellegrina, Marie Bailly. Marie era gravissima: ventre gonfio, pelle lucida, costole sporgenti, addome teso da materie solide, sacca di liquido che occupava la regione ombelicale, febbre alta, gambe gonfie fino alle ginocchia, battito del cuore velocissimo. Si trattava di peritonite tubercolare allo stadio terminale: alla donna, constatò Carrel, rimanevano pochissimi giorni di vita. Forse, anzi, sarebbe addirittura morta già l’indomani. Dati i dolori indicibili che la attanagliavano, il Nostro le somministrò personalmente della morfina.

La diagnosi nefasta di Carrel fu confermata poco dopo anche da un altro medico.

Ecco – disse Carrel a un conoscente anch’egli recatosi a Lourdes in quegli stessi giorni -: data la gravità e l’assoluta irreversibilità della condizione clinica di questa Marie, se lei guarisse mi dovrei ricredere e convertire.

Ma naturalmente – pensava il giovane scienziato-scientista – non accadrà nulla di simile.

A Lourdes, Marie Bailly stava talmente male che non fu possibile nemmeno immergerla nelle piscine. Carrel ne constatò personalmente lo stato clinico: era tecnicamente in agonia.

Il miracolo avvenne davanti alla Grotta, durante una cerimonia religiosa. Di fronte agli occhi stupefatti e increduli di Alexis, il ventre gonfio e devastato di Marie cominciò ad abbassarsi gradualmente fino alle dimensioni fisiologiche. La respirazione e il battito cardiaco si normalizzarono. Il colorito del viso tornò perfettamente sano.

La moribonda, dopo essere stata affetta dalla malattia per cinque lunghi anni, era improvvisamente e completamente guarita nello spazio di mezz’ora.

Carrel si convertì immediatamente al cattolicesimo. Fino alla sua morte, avvenuta nel 1944, continuò a svolgere la sua professione di scienziato sulla scorta di un principio che è rimasto famoso: poca osservazione e molto ragionamento portano all’errore; molta osservazione e poco ragionamento portano alla verità.

In un suo libro del 1941 si trova scritto: “L’uomo ha bisogno di Dio come ha bisogno di acqua e di ossigeno. Congiunto con l’intuizione, col senso morale, col senso estetico e con la luce dell’intelligenza, il senso sacro fa sì che la personalità possa pienamente sbocciare. Non c’è dubbio che la riuscita della vita richieda lo sviluppo integrale di ciascuna delle nostre attività fisiologiche, intellettuali, affettive e spirituali. Lo spirito è nello stesso tempo ragione e sentimento (…). Noi dobbiamo ascoltare Pascal con lo stesso fervore con il quale ascoltiamo Cartesio”.

Quel senso di vuoto dell’ateo…

Nel corso della sua vita, ogni ateo – ogni ateo “dichiarato”, ma anche ogni ateo semplicemente “pratico” – comincia prima o poi ad avvertire nel profondo del suo essere una strana sensazione di vuoto.

Dapprima quasi inavvertita, occultata magari per anni dal tumulto delle occupazioni, dei progetti e dei piaceri oppure relegata superficialmente nel cantuccio dei “momenti no”, la sensazione di cui parlo è destinata ad affiorare, un giorno, nella sua piena realtà e riconoscibilità.

Una sottile angoscia, un senso acuto ed amaro dell’inutilità e futilità di tutto, un inspiegabile inappagamento invadono l’anima.

Nulla di ciò che “prima” bastava a dare senso e pienezza al quotidiano appare più significativo e importante: amici, avvenimenti, amanti, vocazioni lavorative, rapporti famigliari, passatempi.

Una noia coriacea, un disinteresse di fondo, un improvviso deficit di speranza occludono ogni possibile orizzonte futuro.

Il presente appare soltanto un’interminabile ripetizione, un’insensata routine.

Le persone, “gli altri”, diventano meccaniche e patetiche marionette, prive di vera connessione e rapporto con le esigenze più autentiche di colui che versa in questo stato d’animo.

L’amore autentico e disinteressato per la moglie, il marito o il fidanzato, o anche l’affetto per un amico, sembrano realtà irreali, obliate in un passato di illusioni.

? a questo punto che la solitudine e la riflessione diventano situazioni “pericolose” e odiate: è proprio in tali momenti di introspezione, infatti, che il senso di vuoto emerge con più forza, gettando l’anima in una vera e propria angoscia. Nei casi più accentuati, la tentazione del suicidio appare invitante, seducente: non essere più, scomparire nel nulla… nel nulla illusorio creato da un’immaginazione indifferente ai Novissimi.

Se l’ateo confidasse la sua situazione a uno psicologo, quest’ultimo sarebbe forse così sprovveduto da parlare di “depressione” o “esaurimento”, e da prescrivere di conseguenza qualche passeggiata o qualche psicofarmaco. Ma non di questo si tratta.

Il senso di vuoto di cui parlo è generato dall’assenza infinita di Dio.

? un’assenza “infinita”, quella di Dio, perché Dio stesso è infinito: siccome ogni cosa è nulla al Suo confronto, l’uomo cui manca Dio vive come se gli mancasse tutto. E di fatto è così.

Si tratta, in verità, di un vero e proprio “assaggio” anticipato – anche se di gran lunga mitigato – della dannazione. Ma non è ancora la dannazione.

? la stessa Misericordia di Dio ad aver predisposto per ogni uomo e per ogni donna che non Lo riconosce, che non Lo ama e che non Lo prega una tale esperienza di infelicità e di abbandono.

Proprio grazie a questa esperienza, l’ateo ha l’opportunità di cambiare. Può riconoscere il fallimento di una vita costruita sull’orgoglio, sull’autosufficienza, sulla vanità, sul piacere e sull’egoismo.

Può riconoscere il proprio bisogno costitutivo e strutturale di un Amore e di un Perdono infiniti.

Può ottenere nuovamente, per mezzo del pentimento e dei sacramenti della Chiesa, la comunione di Grazia con il Dio di infinita gioia e di infinita pienezza, quel Dio che “non è venuto per i sani, ma per i peccatori”. E, assieme alla comunione d’amore con Dio, può pervenire gradualmente – forse per la prima volta – alla comunione di autentico amore con le altre persone.

Ogni sua ferita, ogni sua colpa saranno medicate e lavate nel sangue dell’Agnello.

Se avrà il coraggio della conversione, cesserà per lui l’esperienza del vuoto e del nulla. Tutte le cose acquisteranno ai suoi occhi un volto nuovo, e un senso di pienezza e di pace lo accompagnerà d’ora in poi.

Tutto questo accade; accade realmente.

La negazione della solidarietà morale: l’eresia nel cuore del liberalismo

Religiosamente considerati, gli uomini sono divisi in due grandi “città”: la città dei giusti (Città di Dio) e la città dei malvagi (Città del diavolo).

In virtù del battesimo – anche solo “di desiderio” – e della vita di grazia, ogni giusto è membro vivo del Corpo Mistico di Nostro Signore Gesù Cristo: la Chiesa cattolica nei suoi invisibili confini.

In virtù del peccato, ogni malvagio è membro del “quasi-corpo mistico” costituito da satana e dalle creature da lui sedotte.

Nessun uomo, per quanto esteriormente ignaro, può sottrarsi dal militare nell’una o nell’altra delle due “città” contrapposte.

Ciascuna delle “città” – quella dei giusti e quella dei malvagi – sperimenta al proprio interno un’invisibile e misteriosa solidarietà morale.

Nel Corpo Mistico di Cristo avviene tra le anime un incessante scambio di intercessioni, di grazie, di meriti. ? la comunione dei santi: il bene compiuto da un’anima si ripercuote misticamente sulle altre – fossero anche infinitamente distanti nello spazio e nel tempo -, generando effetti ignoti e meravigliosi. La santità di uno produce in mille altri la santificazione; la perseveranza di uno consente che mille altri perseverino; la preghiera di uno rende possibile a mille altri la salvezza.

Nel “quasi-corpo mistico” di satana avviene una dinamica simile, benché non identica: tra i malvagi non può darsi vera solidarietà morale, ma solo una “pseudo-solidarietà morale” dovuta alla comune inclinazione al male. Anche quando dediti ai medesimi disegni, infatti, i membri della Civitas diaboli rimangono tra loro estranei, non partecipi. Ma la “pseudo-solidarietà morale” agisce ugualmente: sulla terra o all’inferno, ogni malvagio non può fare a meno di spingere altri alla malvagità e al peccato.

? proprio la deliberata ignoranza di questo principio – il principio della solidarietà morale – a costituire l’errore fondamentale del liberalismo.

Sulla libertà e in particolare sul liberalismo, ideologia anticattolica germinata sul tronco del protestantesimo e del deismo cinque-settecenteschi, è consigliabile in via preliminare la lettura di una grandissima Enciclica di Papa Leone XIII: la Libertas praestantissimum del 1888. Qui darò per assodati i contenuti del pensiero leonino, limitando le mie considerazioni all’aspetto preso in esame fin dal titolo: “La negazione della solidarietà morale: l’eresia nel cuore del liberalismo”.

Fu John Stuart Mill (On Liberty) ad enucleare con la maggior precisione un concetto-cardine già embrionalmente ravvisabile in Locke e Voltaire: non si può mai interferire con la libera scelta dell’individuo, salvo nel caso di danno direttamente arrecato a terzi.

Ora, è evidente che con una tale affermazione si nega implicitamente la verità di fede della solidarietà morale. Ogni atto, buono o cattivo, si ripercuote invisibilmente su altre persone: in particolare, persino il peccato più solitario e nascosto può avere conseguenze drammatiche non solo su chi lo compie, ma anche su numerosi altri, forse sconosciuti e lontani. Religiosamente parlando, è chiaro che non esiste un atto malvagio che non arrechi danno a terzi.

Tutto ciò può essere compreso anche a partire da un ulteriore versante: con il peccato, la persona si sottrae a quel progetto provvidenziale che la designa strumento di salvezza non solo per se stessa, ma anche per il suo prossimo. Chi si sottrae alla volontà di Dio – lo ripeto: anche con l’atto più solitario e “privato” – defrauda il suo prossimo di un contributo di santificazione disposto eternamente da Dio stesso.

Ecco che l’assioma milliano – così ricco di apparente buonsenso – si palesa ad uno sguardo di fede irreale e menzognero.

Con ciò non si vuole affermare che, di conseguenza, ogni peccato debba essere sanzionato come reato dall’ordinamento giuridico: su questo, San Tommaso d’Aquino ha dettato criteri giusti e profondi. Ma è evidente che tutta la costruzione ideologica del liberalismo, anche “conservatore”, cade a pezzi. E presunti “diritti civili” come quello a una “morte pietosa”, al consumo “privato” di droga, all’aborto, al divorzio e via dicendo si rivelano improponibili.

Lascio a chi vuole riflettere il compito di riferire quanto esposto al caso di Eluana Englaro.