L’India affama i poveri aiutati dai cristiani e ha ragione la Stampa a chiamarla nell’edizione cartacea di ieri “guerra a Madre Teresa”.
Autore: Kurdakov
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Compagni d’Italia, l’Unità s’è desta
17 marzo 1961. Si celebra il 100? anniversario dell’Unità politica dell’Italia. L’Unità non riserva all’evento neanche una riga in prima pagina, ma solo due articoli in terza pagina: 17 marzo 1861: Centenario del regno – Vittorio Emanuele II “assumeva” il titolo di Re d’Italia (non trapela un grande entusiasmo da questo titolo) e Due concezioni dello stato. Due articoli di analisi storica piuttosto neutrali, tutto sommato. Un altro articolo – Il centenario dell’unità (u minuscola nel testo originale) di Palmiro Togliatti – attinente all’evento verrà pubblicato domenica 26 marzo in occasione delle celebrazioni ufficiali, svoltesi all’epoca in giorno festivo, 9 giorni dopo la “data fatidica”.
17 marzo 2011. 150? anniversario. La cifra non è altrettanto solenne e “tonda” come quella di cinquant’anni prima, ma l’atteggiamento è ben diverso: dall’8 marzo nella prima pagina dell’Unità campeggia un tricolore con il “conto alla rovescia” per il giorno del 17 marzo. L’edizione del 17 marzo poi ha in prima di copertina una rappresentazione artistica dei “Mille” e vi troviamo scritto a caratteri cubitali I NUOVI MILLE con sottotitolo Gli italiani che fanno l’Italia, seguito da tre articoli sul tema dell’unità d’Italia. La seconda e terza di copertina hanno stampato sopra il tricolore italiano, chissà mai che possa servire per esternare il proprio patriottismo. A pagina 12 l’articolo di Bersani “Italia unita – alle radici della nostra democrazia. A pagina 16 un articolo che la occupa quasi completamente, forse l’articolo più “rivelatore”, che ha come bersaglio la “antipatriottica” Lega Nord. Infine, da pagina 17 a pagina 25 tutte le pagine sono dedicate all’unità d’Italia, ed in particolare alla ricerca dei “nuovi Mille” del “secondo Risorgimento”, quasi una nuova “Resistenza” (altro mito fondante da sempre caro al PCI/PDS/DS/PD).
Del resto, la svolta “patriottica” dell’ex(?)-PCI appare evidente nel confronto tra i simboli: in quello “classico”, utilizzato fino alla caduta dell’impero sovietico, una bandiera simile a quella dell’URSS si sovrappone e nasconde quasi del tutto quella italiana. Il simbolo del PD invece presenta in sé gli abbinamenti cromatici presenti nel tricolore italiano.
Per il resto, l’Unità, ora come allora, è un condensato di odio verso il “nemico del popolo” di turno (un tempo la DC, ora Berlusconi) e di lamentele su come vada male l’Italia dal momento che non è governata da loro. In questo purtroppo, nessun cambiamento in 50 anni.
Mi tornano alla memoria le parole di Samuel Johnson: “Un uomo a volte comincia come patriota solo seminando scontento, diffondendo resoconti di influenze occulte, di consigli pericolosi, di diritti violati, e di usurpazioni che avanzano. Questa pratica non è di certo un segno di patriottismo. Fomentare nella popolazione rabbia oltre l’esasperazione significa sospendere la pubblica felicità, se non distruggerla. Non è un amante del suo paese colui che senza necessità ne disturba la pace. Pochi errori, e poche colpe del governo possono giustificare l’appello alla folla…”. Sembra di leggere la cronaca italiana degli ultimi anni….
Non a caso lo stesso Johnson affermò più incisivamente che “Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un mascalzone”.
“Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona…” o no?
Relativamente alla situazione economica, il giudizio sul declino dei paesi capitalistici è netto:
Ma come vanno le cose nei paesi oltrecortina? ecco quanto riferisce Berlinguer:
Non è finita, perché Berlinguer prosegue dicendo che:
Non parliamo poi di altri fattori “secondari” di cui Berlinguer non fa parola, ovvero la cancellazione della libertà d’espressione, la vita in uno stato-canaglia pronto a carpire un minimo sospiro reazionario, controrivoluzionario per poi farti fuori o metterti in un gulag quale vrag naroda, nemico del popolo. Come riferisce chi ha visitato l’URSS in quegli anni senza paraocchi, quando un russo voleva interloquire liberamente con un occidentale, badava di andare in luoghi aperti, lontani da occhi ed orecchie indiscrete. Si veda ad esempio il film Le vite degli altri.
La distanza dalla realtà non diminuisce quando Berlinguer parla di politica estera:
Bisogna dire che il concetto che i comunisti hanno della pace è ben singolare, se Giorgio Napolitano poté affermare nel 1956 che “l’intervento sovietico in Ungheria… oltre che ad impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo”
Ma andiamo avanti, e passiamo alla situazione dell’Indocina:
Nell’Estremo Oriente, è ora che gli Stati Uniti cessino di dare appoggio ai regimi marci di Van Thieu e di Lon Nol, affinché siano pienamente attuati gli accordi di Parigi sul Vietnam e affinché il popolo cambogiano possa sovranamente decidere del proprio futuro. Mandiamo da questo nostro Congresso il saluto più fraterno e l’impegno di operante solidarietà dei comunisti italiani agli eroici combattenti del Vietnam e della Cambogia.
Nel 1956 le elezioni non vennero tenute, in quanto il Nord – tra l’altro più popoloso – aveva nel frattempo “scelto il socialismo”, e nello stesso Sud – per dichiarazione dei suoi governanti di allora – c’erano in molti luoghi formazioni armate comuniste che le avrebbero influenzate. (…) Nel Sud Viet Nam i vietcong non erano totalmente padroni della situazione (…), ma le testimonianze concordano nel dire che, a quel tempo, essi, dove potevano giungere, uccidevano implacabilmente i capi villaggio, i maestri elementari, e insomma ogni pur piccolo funzionario fedele al governo; è da allora che le popolazioni cominciarono a essere raccolte nei cosiddetti ‘villaggi fortificati’. Non essendosi tenute le elezioni, la lotta armata riprese.
Perché i civili da anni – e tanto più ultimamente – abbandonano case, campi e ogni loro povero avere, e fuggono in massa verso le ultime zone difese dall’esercito del Sud, anziché attendere l’arrivo dei comunisti? (…)
Pietro Gheddo, direttore di una rivista missionaria milanese (è il maggior studioso italiano del mondo vietnamita, sul quale ha scritto anche dei libri molto letti nello stesso Viet Nam), riferisce: “Nel viaggio che ho fatto nel dicembre ’73 ho potuto visitare numerosi campi di profughi e ovunque ho sentito la stessa storia: gente che era scappata da villaggi e città della zona vietcong dopo uno, due, tre anni di vita sotto quel regime; tutti ripetevano che la vita era durissima, il controllo politico soffocante, l’eliminazione degli avversari politici sicura, la libertà religiosa quasi inesistente”. Anche tra i militari nordvietnamiti e vietcong prigionieri, quando Thieu, in base agli accordi di Parigi “voleva consegnarli ai vietcong, molti non volevano assolutamente acconsentire“. Ancora: “Un padre di sette figli fuggito dopo alcuni anni di esperienza comunista, mi diceva: ‘La vita è impossibile: controlli continui, lavoro gratuito per l’esercito nordvietnamita, tutto è proprietà dello stato, una serie di divieti che soffocano, lunghe serate di riunioni politiche in cui bisogna fare l’autocritica e accusare gli altri… Si instaura un clima di terrore, quelli che osano protestare, o anche solo fare domande indiscrete, scompaiono senza lasciare traccia. Dopo qualche mese la gente non pensa che a scappare a qualunque costo‘”. ? il noto quadro del comunismo staliniano.
Sempre nel dicembre ‘73 Gheddo ha visitato Hué, dove un sacerdote cattolico (di cui tacciamo il nome, perché ora la città è nuovamente in mano comunista) gli ha detto: “Prima del 1968 la città di Hué era la più contraria a Thieu e la più favorevole a un dialogo col F.L.N. Poi siamo rimasti una ventina di giorni ‘liberati’ dai vietcong e dai nordvietnamiti durante l’offensiva del Tet del febbraio-marzo 1968. In quell’occasione i comunisti fecero di tutto per alienarsi le simpatie della gente, fino a compiere massacri di civili – 3.000 cadaveri scoperti nelle fosse comuni – mai visti in precedenza. Dopo di allora, anche i capi dei movimenti studenteschi dell’università, che si erano pronunziati in favore d’un regime socialista, dichiararono che preferivano una dittatura nazionalista a una dittatura comunista“.
Sempre a Hué un altro religioso, il gesuita padre Urrutia, direttore del centro studentesco cattolico, gli riferì che in seguito a quell’esperienza del ‘68, quando nel ‘72 i comunisti, durante una nuova offensiva, giunsero a circa quaranta chilometri dalla città “Hué si svuotò quasi completamente dei suoi abitanti: fuggirono tutti verso il Sud, verso Danang, e tornarono solo mesi dopo, quando ogni pericolo era scomparso. In città non era rimasto che il 10% dei suoi trecentomila abitanti… All’ospedale su trenta medici ne rimasero tre, tutti stranieri. L’università si svuotò completamente, gli uffici e le fabbriche erano deserti, di bonzi non c’era più traccia. Siamo rimasti, con l’Arcivescovo, una ventina di sacerdoti su più di cento. Sembrava una città di morti… Poi” – concluse padre Urrutia – “mesi dopo, quando tornai in Europa, lessi su riviste cattoliche che in quel tempo la popolazione di Hué aspettava con ansia l’arrivo dei liberatori…“
In realtà sta qui, a giudizio di chi scrive, la più grande vittoria comunista: nel fatto che gli uomini liberi d’Europa e d’America siano sempre meno disposti ad agire in difesa della libertà, e che molti di loro, per tranquillizzarsi, accettino ad occhi chiusi la propaganda comunista.
La domanda che ci si pone è: Berlinguer sapeva e mentiva o non sapeva perché non voleva sapere (i mezzi per sapere li aveva) ? Credo che la risposta sia nota solo a Dio.
Possiamo però chiederci: Enrico Berlinguer è stato, oggettivamente, un servitore della giustizia e della verità? A questa domanda l’unica risposta che possiamo darci è un secco ‘no’. ? una risposta che non piacerà a quanti ritengono che, comunque, come cantava Gaber, “Berlinguer era una brava persona”, ma è l’unica risposta onesta che si può dare se non si vuole offendere la memoria dei milioni di uomini e donne vessati ed uccisi in nome del sol dell’avvenire.
Il lupo comunista perde il pelo….
«… Stalin si rese conto di come una semplice parola possa diventare un’arma tremenda, se la si carica d’ogni possibile ignominia mediante tutti i mezzi di cui dispone la propaganda moderna. Coniò allora, e per vent’anni si servì sistematicamente, del termine “nemico del popolo” (in russo “vrag naroda”), che gli consentì di paralizzare, tagliandolo letteralmente fuori dall’umano consorzio, chiunque non gli andasse a genio: nel Rapporto Crusciov al XX Congresso viene denunciato il terrore che anche i massimi dirigenti del partito avevano di tale qualifica. Dopo la guerra i comunisti esportarono la loro mirabile scoperta in Italia e in Occidente, dove il vocabolo prescelto fu “fascista”. Con questa accusa, scrive Del Noce, “si crea quel mito del fascismo in cui viene proposto un avversario mortale che nulla ha a che vedere col fascismo storico. Attraverso la trasfigurazione mitica, il concetto di fascismo si è estremamente dilatato, così che chiunque può venirne accusato: e giudice in ultima istanza di chi e di che cosa debba essere considerato fascista, dovrebbe restare il partito comunista”. Di quest’arma paralizzante i comunisti si servirono durante decenni in Italia non per uccidere e sterminare come in Russia, bensì per ricattare chiunque — persona o istituto — potesse esser loro d’ostacolo. Con la permanente minaccia di tale ricatto, essi imbavagliarono in innumerevoli occasioni la stampa, la radio, i canali televisivi, e asservirono ai fini della loro politica un elevato numero di intellettuali.»
Ma oggi il comunismo non c’è più, non è vero?
Tanto che non esiste dirigente del PCI/PD che, dopo la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, si sia più proclamato comunista o che non abbia dichiarato di non essere – o addirittura di non essere mai stato – comunista. Avendo presenti le considerazioni di Corti, l’esame di alcune prime pagine dell’Unità dell’anno appena trascorso fornisce una misura precisa di quanto l’attuale PD sia ideologicamente distante dal “vecchio” (e mai realmente scomparso) PCI.
Il “pelo” (i simboli e le parole attinenti ad uno scomodo e vergognoso passato) è stato cambiato, ma il lupo comunista non ha perso il vecchio “vizio”. Affatto. Del resto, com’è facilmente intuibile, non basta togliere falce e martello dal simbolo e la parola “comunista” dal nome per modificare una forma mentis strutturatasi nei decenni e mai sinceramente rinnegata.