Teatro e verità, ovvero la possibilità di rappresentare il vero [parte 2]

4. Il teatro religioso: un percorso nei secoli (Sofocle)
E’ importante ora prendere in considerazione alcune opere teatrali che segnano delle tappe espressive importanti sia del senso religioso dell’uomo che del cristianesimo. E’ chiaro che si tratta di una selezione del tutto incompleta; essa però tenta di richiamare l’attenzione su una collezione di testi che difficilmente possono essere superati nel loro valore sia contenutistico che artistico. E’ auspicabile che essi siano promossi, sia come lettura che come rappresentazione, dalle comunità cristiane alla ricerca di opere teatrali da valorizzare dentro la vastissima produzione mass mediatica.

(1) SOFOCLE: “Edipo Re” (e “Edipo a Colono”)
Tutte le tragedie greche sono portatrici di una riflessione drammatica sul problema dell’inevitabilità della morte. In questa loro profonda serietà sfidano il nichilismo gaio dell’uomo moderno. Nello stesso tempo esse mostrano, per contrasto, quanto sia stata grande la rivoluzione culturale cristiana, che ha cambiato radicalmente il pessimismo e la rassegnazione dei greci in una visione esistenziale piena di speranza e di fiducia: il destino umano non è più l’oscurità, ma la gloria di Dio a cui tutti possono partecipare se la accolgono in questa vita. Le tragedie greche in tal modo possono aiutare a comprendere sia la gravità del problema umano, che la novità della salvezza cristiana.
Tra esse spiccano due vette, entrambe di Sofocle, vale a dire Edipo Re e Antigone, appartenenti entrambe al cosiddetto ciclo tebano. La prima è la più famosa e convincente rappresentazione del problema dell’inevitabilità del destino e dell’insuperabilità umana del problema del male. Edipo lotta disperatamente contro una profezia avversa e finisce col porre in atto lui stesso inconsapevolmente le situazioni e le condizioni perché essa si attui. La tesi di fondo è chiarissima: l’uomo con le sue forze non può salvare se stesso; anzi, se tenta di farlo, sprofonda sempre più nel suo nulla.
Per rendere consapevole Edipo del suo male, che né lui né nessun altro riesce a conoscere e che sta causando una maledizione terribile su tutta la città di Tebe, Sofocle fa intervenire la figura profetica del cieco Tiresia:

Corifeo: “[…] l’indovino, colui che , ispirato dal dio, unico tra gli uomini possiede la verità”.

Essendo cieco fisicamente, non deve a sé la sua conoscenza della verità, ma agli Dei: per questo egli, non vedente, può vedere veramente, mentre gli altri, vedenti, non possono vedere, perché confidano solo in se stessi e così facendo si rendono ciechi. E con queste parole si rivolge ad Edipo, che insiste per sapere la verità sugli altri, e non sospetta che sarà invece una verità su di sé:

Tiresia: “Ahimè, ahimè! Tremenda cosa è sapere quando non giova a chi sa! […] E’ la forza della verità che mi sostiene. […] Dico che sei dentro un abisso di nefandezza e non lo vedi. […] Non è Creonte il tuo danno, tu sei danno a te stesso. […] Tu hai gli occhi per vedere, ma in che punto sei di miseria non vedi […]. […] la maledizione di tuo padre e di tua madre, ti inseguirà con il suo piede tremendo […]. E poi c’è una turba di altri guai che tu non conosci ancora […]. […] sappi che non c’è tra i mortali nessuno il quale cadrà abbattuto più miseramente di te”.

Quando poi Edipo scopre di essere lui il colpevole sconosciuto, Sofocle, impersonandosi sia negli interlocutori che in Edipo stesso, pronuncia la durissima sentenza sul misero essere umano:

Pastore: “[…] tu sei il più sventurato di tutti i mortali”.
Edipo: “Uh, uh, uh! Tutto è chiaro ormai. O luce del sole, ch’io ti veda ora per l’ultima volta! Io che da chi non dovevo nascere sono nato, i che con chi non mi dovevo congiungere mi sono congiunto, io che chi non dovevo uccidere ho ucciso!”
Coro: “Ahi progenie di mortali, come simile al nulla è vostra vita! Di felicità non più che un’apparenza ha ciascuno, e anche questa, appena avuta, subito declina e cade. Solo che a te come ad esempio io guardi e alla tua vita, Edipo miserando, cosa nessuna io reputo dei mortali felice”.

La conseguenza più drammatica è il desiderio di non vedere, di non sapere quanto sia grande il proprio male:

Servo: “[…] si percosse le orbite degli occhi. E gridava che così non avrebbero più veduto essi né i patimenti sofferti né i delitti compiuti”. […] Corifeo: “Disgraziato te! Per la coscienza che hai delle tue disgrazie, e per le tue disgrazie, disgraziato! Come vorrei non averti mai conosciuto!”

La saggezza greca non può andare oltre: le mancano le ali per alzarsi in volo, secondo la bella immagine suggerita da Giovanni Paolo II . Una di queste ali l’avrebbe, ed è la ragione; ma mancando l’altra, che è la fede rivelata, anche la prima diventa impotente a sollevare l’uomo. Tuttavia anche l’uomo naturale riceve qualche aiuto di grazia, senza il quale non potrebbe in alcun modo resistere: esso sembra manifestarsi in una specie di presagio di salvezza, in una tenue e misteriosa speranza che nulla riesce a togliere dal suo cuore e dal fondamento della sua ragione. Questa tragedia infatti trova una significativa continuità nell’Edipo a Colono, che Sofocle ha scritto alla fine della sua lunga vita. Nel momento in cui Edipo, mendico, cieco ed esule, accetta la sua povertà e la sua totale dipendenza dal Mistero, diventa sorgente di benedizione per la città di Colono che lo ha accolto e va incontro in pace alla morte predetta da una antica profezia. Anche qui la tesi di fondo è chiarissima: l’uomo che accetta il volere divino è condotto misteriosamente verso il superamento trascendete del suo altrimenti insuperabile male.
Quella di Sofocle è l’intuizione di una salvezza ignota, che l’uomo non può darsi da sé e che comporta alla fin fine l’uscita da questa vita di dolore. Non si tratta dunque ancora della speranza cristiana, che trasforma già il tempo presente in un cammino di compagnia con Dio fatto uomo ; si tratta però di un presentimento di questa possibilità, che traluce nell’abbandono di sé agli Dei da parte di Edipo.
Come si è detto, la conoscenza e anche la rappresentazione di queste due tragedie può essere un’occasione utile di riflessione sul mistero immenso da cui la vita umana dipende e in cui interamente si svolge, in opposizione alla mentalità positivista che non vede la profondità del dramma umano.

(2) SOFOCLE: “Antigone
La seconda vetta sopra citata è Antigone, la tragedia che narra le vicende drammatiche dei figli di Edipo rimasti a Tebe, governata dal re Creonte dopo l’esilio di Edipo.
E’ forse la più alta testimonianza pagana dell’esistenza di quella lex aeterna, stabilita da Dio, di cui parlano sia S.Agostino che S.Tommaso , da cui deriva la lex naturalis che tutti gli uomini, di qualsiasi luogo e tempo, sono tenuti a riconoscere e a rispettare: essa infatti si riflette nella coscienza attraverso la ragione. Sofocle è chiarissimo nel ribadire che le norme di questa legge sono superiori a quelle del principe e non sono modificabili dagli uomini. Esse erano già state richiamate chiaramente nell’Edipo Re:
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Coro: “[…] Presiedono a questo leggi dall’alto, nell’etere uranio create. Il padre Olimpo, lui solo, le generò, e non mortale natura di umani; e tali che oblio non potrà mai assopirle perché un grande iddio è in loro, da vecchiezza immune”.

Nell’Antigone diventano il tema dominante e mostrano l’ingiustizia e l’insensatezza del potere umano quando esso cerca di negarle. La protagonista non accetta l’ordine del re Creonte che vieta la sepoltura di suo fratello Polinice, il cui cadavere giace davanti alla città dopo che egli era stato ucciso in un tentativo fallito di rovesciare il tiranno: quest’ultimo dà questo ordine per ammonire i suoi sudditi e assicurare il suo potere, incurante della legge divina che impone la pietà verso i morti. Antigone cerca di convincere la sorella Ismene ad aiutarla a seppellire il fratello, ma questa si rifiuta di disobbedire all’ordine regale:

Ismene: “Considera tu, ora, di quale morte più atroce moriremo noi due abbandonate, se trasgrediamo il comando, la legge di un sovrano. […] Eccedere dai nostri limiti è una follia.
Antigone: “[…] Io lo seppellirò. E poi sarà bello morire. Cara a lui riposerò con lui a me caro. […] Rimani tu, qui, a disprezzare le leggi divine.”
Ismene: “Io non le disprezzo le leggi divine; ma nulla so fare contro la città”.

Ismene è il simbolo degli uomini vili, che pur conoscendo la verità e la giustizia si adeguano al potere che le calpesta ; ma si sente qui anche l’eco ante litteram di posizioni ideologiche moderne, che attribuiscono allo Stato il diritto di andare contro, in nome della ‘laicità’, alle leggi divine espresse nella lex naturalis, la cui osservanza sarebbe riservata ai soli credenti, come se esse non fossero invece il fondamento di tutta la società civile.
Antigone non si scoraggia e compie da sola la pietosa opera di sepoltura. Scoperta da una guardia, viene condotta davanti al re, nel dialogo col quale emergono le parole decisive del dramma:

Creonte: “Conoscevi il mio ordine, il mio divieto?”
Antigone: “Lo conoscevo […]”.
Creonte: “E tu hai osato sovvertire queste leggi?”
Antigone: “Sì, perché non fu Zeus a impormele. Né la Giustizia, che siede laggiù tra gli dei dei sotterranei, ha stabilito queste leggi per gli uomini. Io non credevo, poi, che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere a un mortale di sovvertire le leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei; quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero. Potevo io, per paura di un uomo, dell’arroganza di un uomo, venir meno a queste leggi davanti agli dei? Ben sapevo di essere mortale, e come no?, anche se tu non l’hai decretato, sancito! […] Subire la morte quasi non è un dolore, per me. Sofferto avrei invece, e senza misura, se avessi lasciato insepolto il corpo morto di un figlio di mia madre. Il resto non conta nulla. A te sembrerà ch’io agisca da folle. Ma chi mi accusa di follia, forse è lui, il folle. […] e tutti costoro direbbero che il mio atto è bello, se la paura non li obbligasse al silenzio.”

Creonte condanna a morte Antigone, ma si trova poi ad affrontare il figlio Emone, di cui la condannata era la promessa sposa. Anche attraverso le sue parole Sofocle ribadisce la medesima verità fondamentale:

Emone: “Penso a te solo, ora”.
Creonte: “Miserabile, contrastando il padre”.
Emone: “Perché vedo che l’errore ti conduce ad offendere la Giustizia”.
Creonte: “Offendere la Giustizia? Io difendo l’autorità mia, del re.”
Emone: “Non la difendi calpestando onori sacri”.

Nemmeno l’intervento di Tiresia, l’indovino attraverso cui Sofocle fa parlare la voce sacra della verità, che predice “la vendetta dell’Ade e degli dei” , distoglie il re dal suo proposito. La vicenda si conclude con la morte di Antigone, cui segue quella suicida di Emone e infine quella di Euridice, moglie di Creonte, anch’essa suicidatasi. Creonte, attonito e disperato, sprofonda nella sciagura che egli stesso ha causato.
Sofocle, già dalla fine del primo episodio, aveva svolto attraverso il coro questa riflessione di fondo:

Coro: “L’esistere del mondo è uno stupore infinito, ma nulla è più dell’uomo stupendo. […] fatto esperto di tutto, audace corre al rischio del futuro: ma riparo non avrà dalla morte […]. Fornito oltre misura d’ogni sapere, d’ingegno ed arte, ora si volge al amale, ora al bene; e se accorda la giustizia divina con le leggi della terra, farà grande la patria. Ma se il male abita in lui superbo, senza patria e misero vivrà […].”

Non è difficile notare che la tematica di questa tragedia è di grandissima attualità, in un momento in cui il relativismo dominante, unitamente al culto idealista per il potere dello Stato, nega l’esistenza di valori non negoziabili fondamentali, quali il diritto alla vita dei nascituri, il rispetto del mistero dell’uomo negli embrioni, la sacralità della famiglia e il suo diritto di educare, e via dicendo.

Estratto dal libro La notizia dell’Essere – La comunicazione e il cristianesimo

Teatro e verità, ovvero la possibilità di rappresentare il vero [parte 1]

1. Introduzione al teatro: strumento di conoscenza
Il più antico mass media come strumento di diffusione di rappresentazioni della vita è il teatro. La sua origine si perde nella notte dei tempi e, se esso è già riconoscibile come modalità espressiva nelle primitive narrazioni cultuali e misteriche degli uomini preistorici, può essere collocata ben prima dell’invenzione della scrittura. Esso poi non ha mai cessato di essere presente in tutte le culture e le epoche storiche e ancora oggi resiste alle forze gigantesche degli altri strumenti di rappresentazione della realtà quali il cinema, la televisione e gli audiovisivi in genere. Questi ultimi tra l’altro devono proprio al teatro la loro idea o identità di base, in quanto ripropongono in cornici nuove l’antico palcoscenico su cui si tentava di rappresentare la vita e prendere coscienza del suo significato.
Come ha osservato Virgilio Melchiorre, ‘rappresentare’ significa ri-ad-presentare, cioè presentare nuovamente un fatto a qualcuno. Ma questo fatto cos’è? E’ la realtà; e perché la si rappresenta? Per cercare di comprenderla, cioè di identificarne la verità intera, il significato esauriente. Questa operazione è del tutto analoga a quella che si compie nella conoscenza: si giunge all’idea di una certa realtà e così facendo si scopre il piano ideale nel quale, per così dire, la realtà si sdoppia, si riflette, si conosce. Conoscere significa dunque avere non solo la percezione della realtà, ma anche la coscienza di essa nell’idea di essa: il piano reale e il piano ideale si incontrano nella nostra coscienza e conoscenza della realtà. Attraverso la conoscenza si scopre l’infinito universo dell’essere ideale, che supera la dimensione materiale delle cose e mostra il livello spirituale dell’essere, dimostrando con ciò che anche colui che conosce, cioè l’uomo, è un essere spirituale oltre che materiale.
Nel teatro accade qualcosa di simile, tanto che potremmo definirlo un vero e proprio strumento di conoscenza del reale. Quest’ultimo infatti – che viene rappresentato nella sua dimensione dinamica, cioè nella sua azione, e non solo in quella statica – viene osservato attentamente per poterlo comprendere nel suo significato, cioè, come si è già detto sopra, nel suo nesso con la totalità. E’ dunque un tentativo di conoscenza più profonda del reale, sia perché è considerato nella sua complessità dinamica e nelle relazioni che lo costituiscono, e sia perché viene osservato attentamente e accuratamente per scoprirne la verità ultima. La rappresentazione, similmente alla conoscenza, è anche un ‘raddoppiamento’ del reale, cioè un tentativo di rappresentare il suo contenuto ideale oltre a quello reale. Per esempio: la conoscenza di un oggetto triangolare reale conduce all’idea di triangolo, che appartiene al mondo ideale; allo stesso modo la rappresentazione del celebre discorso di Amleto conduce a delle idee complesse (le domande fondamentali dell’uomo, i desideri costitutivi di verità, di giustizia, di felicità, la grande questione dell’immortalità, e via dicendo): l’azione di Amleto – in questo caso il suo discorso – viene rappresentata perché diventi simbolo di questi contenuti ideali-spirituali, che sono implicati dentro la realtà dell’azione e nello stesso tempo la trasportano sul piano ideale-spirituale.
Ora, ciò che viene rappresentato nel teatro è il reale umano, vale a dire l’azione dell’uomo, e non quella degli oggetti inanimati come avviene nella natura. Dunque il teatro è un tentativo dell’uomo di conoscere la sua stessa azione, cioè alla fin fine se stesso: esso è un tentativo dell’uomo di capire chi è, di conoscere il suo mistero.
Si tratta pertanto di un’arte nobile e profonda, anche se naturalmente può essere usata male e addirittura in modo distruttivo: infatti può essere utilizzata per insinuare una conoscenza errata dell’uomo e quindi per diffondere una menzogna, sia in buona che in cattiva fede. E’ essenziale dunque che il teatro abbia un punto di verifica oggettivo, per poter accertare la verità dei suoi contenuti. Questo punto è dato dalla conoscenza globale che l’uomo raggiunge di sé attraverso l’indagine esistenziale, alla luce della ragione e della rivelazione. Se pertanto questa indagine conduce a riconoscere onestamente e ineluttabilmente la realtà insieme materiale e spirituale dell’uomo, un teatro che cercasse con grande abilità di mostrare l’uomo come semplice realtà materiale sarebbe falso e menzognero. Se invece una rappresentazione scenica aiutasse a cogliere vividamente questa duplice natura nell’uomo e le sue intrinseche relazioni, sarebbe un’opera istruttiva ed educativa preziosa per tutti. Il teatro dunque deve accettare di sottoporsi alla verifica oggettiva dei suoi contenuti e cercare di porsi sempre di più al servizio della verità.
La sua forza sta dunque in due fattori:
a) l’adesione alla verità;
b) l’uso artistico della parola, dell’azione, della musica, della sceneggiatura.
Il suo fine è quello di far sorgere nello spettatore una più chiara coscienza della verità, sia a livello logico che psicologico. La peculiarità del teatro rispetto al discorso scientifico è infatti proprio questa, che permette una mobilitazione anche psicologica dell’uomo verso la verità, provocata dall’efficace e intelligente rappresentazione della realtà la quale accende nell’uomo la forza dei sentimenti unitamente a quella della ragione.


2. Introduzione al teatro: avvenimento e finzione

In questo senso il teatro rimane un media insostituibile dalle moderne tecnologie elettroniche. In esso infatti sono in azione uomini reali che rappresentano un’azione reale: ciò che accade davanti allo spettatore è un avvenimento reale, che nonostante l’evidente finzione scenica viene fatto vibrare in qualche misura nella sua realtà originaria davanti agli osservatori. Anche qui si notano due fattori:
a) l’avvenimento rappresentato;
b) la finzione attoriale.
Il secondo fattore rappresenta evidentemente il limite costitutivo del teatro e la sua per così dire umiliazione; essa però è allo stesso tempo una occasione di positività sia per gli attori che per il pubblico, perché costringe all’umiltà di fronte alla realtà e al riconoscimento dell’impossibilità di possedere la realtà stessa. Il teatro dunque conduce, per lo più implicitamente o anche inconsciamente, ad inchinarsi di fronte alla maestà del reale, che non può essere riprodotto perfettamente o posseduto interamente o alterato o dominato dall’uomo.
Fatto salvo questo salutare riconoscimento, rimane il fatto che, pur sapendo tutti che è necessario passare attraverso una finzione, ciò che si può cercare di osservare è proprio l’avvenimento reale e il suo misterioso e profondo significato. La concentrazione del pubblico può portarsi sul fatto in sé, se non rimane scioccamente sulla superficie della considerazione delle abilità sceniche degli attori. Un pubblico maturo si porta sul fatto in sé, un pubblico superficiale sugli attori in quanto attori e non personaggi dell’azione. Quando si verifica la concentrazione sul fatto in sé, allora si genera la fascinazione del teatro, cioè la sua capacità di condurre lo spettatore dentro il mistero della realtà. Allora se il fatto rappresentato sarà commovente, il pubblico potrà rendersi conto di questo e commuoversi; se sarà illuminante, il pubblico potrà illuminarsi; se sarà divertente, il pubblico potrà divertirsi, e via dicendo.
La fascinazione dunque consiste nella capacità di portare il pubblico a concentrarsi sul fatto e a coglierne il significato. In questo senso si può dire che il teatro non solo mette in scena la realtà, ma paradossalmente fa cogliere la realtà attraverso la finzione molto più di quando essa accade realmente senza però essere attentamente osservata. Come nel caso del discorso di Amleto: se un domestico passando distrattamente avesse visto Amleto in quell’azione, avrebbe semplicemente fatto qualche osservazione sulla stranezza del suo padrone di casa e avrebbe subito pensato ad altro; rappresentare invece quella stessa azione davanti ad un pubblico attento e intenzionato a capire ciò che sta succedendo, porta a rendersi conto della potenza di quel fatto e del suo grande e profondo contenuto.
Il teatro dunque, quando è veramente opera d’arte, vince la banalità dello sguardo che quotidianamente portiamo sulla realtà: ci costringe ad osservare un particolare reale, riprodotto attraverso una umile ma accettabile finzione, e a renderci conto non solo del suo valore ma anche di quello della realtà intera.
In modi diversi, e per certi aspetti anche più efficaci, ciò può avvenire anche attraverso il cinema o la televisione o gli audiovisivi: essi però non possono appropriarsi, come si è detto, della caratteristica più importante del teatro che è la fisicità del fatto rappresentato e la presenza reale di uomini in azione in quel fatto. Per questa ragione il teatro rimane un media unico e prezioso: sia per il pubblico, che può stare davanti all’evento rappresentato in modo molto più vivo di quello reso possibile dalla semplice proiezione di immagini, e sia per gli operatori della rappresentazione, che possono fare esperienza continua di ciò che rappresentano e del rapporto diretto col pubblico. Da ciò deriva anche la capacità formativa del teatro: i fanciulli e i giovani e anche gli adulti che proveranno a cimentarsi con esso potranno ricevere grandi aiuti per la loro crescita personale.

3. Introduzione al teatro: quattro condizioni importanti
Va però osservato che ci sono delle condizioni precise perché questa positività si verifichi.
a) La prima condizione, come si è detto, è che si scelgano opere teatrali che esprimano la verità. La scelta da parte di una compagnia teatrale di opere che hanno un grande effetto scenico ma uno scarso o addirittura negativo contenuto veritativo pregiudica totalmente tutto quanto si è detto sopra. La menzogna trascina verso il basso sia il pubblico che gli attori e corrompe profondamente la loro ragione e il loro spirito. Non è raro purtroppo il caso che opere apertamente e gravemente menzognere abbiano un grande successo di pubblico, con tutte le conseguenze negative che questo comporta per la salute mentale e spirituale dell’intera società. Purtroppo questo accade anche perché pochi si interessano della diffusione di opere autentiche e costruttive e si impegnano fattivamente per questo.
b) La seconda condizione è che ci sia nell’opera scelta e nella sua rappresentazione un adeguato livello artistico. Ciò significa che l’opera teatrale deve avere non solo un contenuto vero da trasmettere, ma anche la capacità di farne percepire il fascino. L’arte è la rappresentazione del bello, cioè dell’attrattiva del vero. Questo nel teatro accade attraverso la forma artistica della parola, dell’azione, della musica, della sceneggiatura. Sono innumerevoli le opportunità artistiche del teatro: esso per esempio può creare un flusso emotivo e farlo crescere sapientemente, in modo da coinvolgere progressivamente lo spettatore; oppure può mostrare angoli di bellezza che si incastonano come perle nel corso della rappresentazione: è il caso di certe frasi, di certi gesti, di certi avvenimenti, di certe scene; oppure ancora può realizzare momenti di dialogo fortissimo col pubblico, attraverso interpellazioni dirette che fanno percepire il nesso con la verità proposta; o infine può dare, attraverso in questo caso la capacità degli attori, una rappresentazione viva dei personaggi e delle situazioni in cui agiscono, cosicché il pubblico percepisce cose che normalmente sfuggono completamente quando si osserva una persona.
c) La terza condizione è che il lavoro sia guidato o presentato da chi può aiutare a cogliere i contenuti e i significati di quello che si sta facendo. Si può rappresentare anche l’opera più edificante senza essere minimante consapevoli di quello che si sta facendo, come accade a certi cori polifonici che eseguono brani di altissima spiritualità come fossero semplici esercizi tecnici vocali. La presentazione che aiuti a cogliere il senso di ciò che si fa e che accade sul palco deve dunque essere rivolta non solo agli attori, ma anche al pubblico.
Occorre qui liberarsi da una falsa e pericolosa opinione che ritiene che l’opera d’arte si spieghi da sola. Questa falsa asserzione può andare bene solo per giustificare la pigrizia di chi non vuole dare un aiuto necessario a se stesso e agli altri. L’esperienza dimostra che nella stragrande maggioranza dei casi le opere d’arte non spiegano affatto se stesse e che il pubblico che le osserva o le ascolta è incapace da solo di cogliere il significato e quindi la bellezza delle opere più profonde e difficili, con il risultato che esse vengono accantonate e dimenticate. Lo dimostra il mercato discografico della musica classica: opere di altissimo valore artistico vendono meno di mille copie sul territorio nazionale, mentre le musiche più superficiali e artisticamente povere come quelle di tanta produzione del genere rock e pop vendono milioni di dischi; la musica classica non è ascoltata in gran parte perché non se ne capisce minimante il significato e nessuno prova a spiegarlo adeguatamente sui grandi media. All’opposto, quando quest’opera educativa è stata svolta si è visto un incremento esponenziale delle vendite e degli ascolti. Ci si guardi bene dunque dal rappresentare un’opera teatrale di alto contenuto senza una adeguata opera di studio e presentazione del medesimo. E allo stesso modo ci si guardi da presentazioni che si soffermano sugli elementi tecnici senza mai giungere al cuore di tutta l’opera, cioè al suo significato, al suo scopo, al suo contenuto, alla sua anima, al suo nesso con la vita di chi scolta. Queste presentazioni aride e superficiali sono più deleterie del silenzio voluto dall’opinione sopra citata: in questo senso, piuttosto che spiegare le cose in modo sbagliato o superficiale è meglio che non ci sia nessuna presentazione.
d) La quarta ed ultima condizione è che dopo la rappresentazione ci siano per il pubblico momenti di ripresa di ciò che si è visto. Ciò significa un lavoro sul testo dell’opera teatrale e sull’esperienza vissuta durante la sua rappresentazione. Quello che non è approfondito e custodito in questo lavoro viene perso inesorabilmente, specialmente nella condizione attuale in cui si viene sommersi dalla massa delle comunicazioni sopra descritta. Si tratta di un lavoro che può avvenire soprattutto se chi ha organizzato lo spettacolo chiamando la compagnia teatrale è determinato ad invitare il proprio la propria gente ad acquistare il testo e a ritrovarsi in incontri ben precisi per completare la comprensione dell’opera. E’ meglio vedere poche rappresentazioni teatrali ma ben sviluppate in questo lavoro, che vedere molte grandi opere che non hanno alcuna concreta e specifica continuità in chi le ha viste. Va osservato infine che questo lavoro non deve avere come sua ragion d’essere l’opera teatrale, ma la vita di una comunità permanente: deve essere cioè parte di un percorso più generale, di cui la rappresentazione scenica scelta è solo una tappa o il tassello di un mosaico. L’opera teatrale dunque non deve essere mai il fine del lavoro culturale di una comunità, ma solo un momento in funzione di esso.

Estratto dal libro La notizia dell’Essere – La comunicazione e il cristianesimo

Sant’Agostino: l’uomo fatto ad Dominum

La scoperta della persona umana nella filosofia antica raggiunge il suo vertice con Sant’Agostino. Una straordinaria combinazione di fatti, doti, circostanze, oltre ai fattori misteriosi della personalità, gli ha permesso di essere al contempo erede della tradizione filosofica greco-latina e di quella biblico-cristiana, nel contesto di una ricerca personale drammatica della verità. Il risultato è la nascita di un nuovo pensiero filosofico e di una nuova letteratura antropologica e teologica che non solo darà forma a tutta la riflessione medievale, ma influenzerà costantemente tutta la storia della filosofia occidentale. Ciò che colpisce in Sant’Agostino è anzitutto la vivacità e l’unicità del suo stile: egli parla di sé, del mistero della sua esistenza e della sua anima, del desiderio costitutivo della ragione, della scoperta del suo stesso io, del suo rapporto con l’Infinito, cioè con Dio. Come ha giustamente fatto notare Christine Mohrmann “le Confessioni si presentano, viste nel quadro della letteratura antica, come una novità stupefacente”: si tratta della novità del “racconto autobiografico”, un nuovo genere letterario che “non si sviluppa in pieno se non nell’era cristiana”. Infatti “il Greco s’interessa in modo particolare all’astrazione, che vede, nell’individuo, l’immagine generale e l’idea piuttosto che i tratti personali”; il Romano è meno astratto, ma non abbiamo casi di veri e propri racconti autobiografici in prima persona, se non parzialmente nell’ambito della letteratura stoica, soprattutto con Marco Aurelio. Pur tenendo conto di queste influenze, non c’è tuttavia dubbio che sarà “l’importanza attribuita dai Cristiani alla vita intima e spirituale della persona” a preparare “il terreno a una letteratura autobiografica”. Si assiste infatti alla “crescente importanza dell’elemento personale nella letteratura cristiana in genere”. Questo dato è del resto intuitivo pensando al valore eccelso attribuito alla persona nel messaggio biblico-cristiano.


1. 1. Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te. Concedimi, Signore, di conoscere e capire se si deve prima invocarti o lodarti, prima conoscere oppure invocare. Ma come potrebbe invocarti chi non ti conosce? Per ignoranza potrebbe invocare questo per quello. Dunque ti si deve piuttosto invocare per conoscere? Ma come invocheranno colui, in cui non credettero? E come credere, se prima nessuno dà l’annunzio? Loderanno il Signore coloro che lo cercano?, perché cercandolo lo trovano, e trovandolo lo loderanno. Che io ti cerchi, Signore, invocandoti, e t’invochi credendoti, perché il tuo annunzio ci è giunto. T’invoca, Signore, la mia fede, che mi hai dato e ispirato mediante il tuo Figlio fatto uomo, mediante l’opera del tuo Annunziatore.

Perché invocare Dio?

2.2 Ma come invocare il mio Dio, il Dio mio Signore? Invocarlo sarà comunque invitarlo dentro di me; ma esiste dentro di me un luogo, ove il mio Dio possa venire dentro di me, ove possa venire dentro di me Dio, Dio, che creò il cielo e la terra? C’è davvero dentro di me, Signore Dio mio, qualcosa capace di comprenderti? Ti comprendono forse il cielo e la terra, che hai creato e in cui mi hai creato? Oppure, poiché senza di te nulla esisterebbe di quanto esiste, avviene che quanto esiste ti comprende? E poiché anch’io esisto così, a che chiederti di venire dentro di me, mentre io non sarei, se tu non fossi in me? Non sono ancora nelle profondità degli inferi, sebbene tu sei anche là, e quando pure sarò disceso all’inferno, tu sei là. Dunque io non sarei, Dio mio, non sarei affatto, se tu non fossi in me; o meglio, non sarei, se non fossi in te, poiché tutto da te, tutto per te, tutto in te. Sì, è così, Signore, è così. Dove dunque t’invoco, se sono in te? Da dove verresti in me? Dove mi ritrarrei, fuori dal cielo e dalla terra, perché di là venga in me il mio Dio, che disse: “Cielo e terra io colmo”?

La presenza di Dio nell’universo

3.3. Ma cielo e terra ti comprendono forse, perché tu li colmi? o tu li colmi, e ancora sopravanza una parte di te, perché non ti comprendono? E dove riversi questa parte che sopravanza di te, dopo aver colmato il cielo e la terra? O non piuttosto nulla ti occorre che ti contenga, tu che tutto contieni, poiché ciò che colmi, contenendo lo colmi? Davvero non sono i vasi colmi di te a renderti stabile. Neppure se si spezzassero, tu ti spanderesti; quando tu ti spandi su di noi, non tu ti abbassi, ma noi elevi, non tu ti disperdi, ma noi raduni. Però nel colmare, che fai, ogni essere, con tutto il tuo essere lo colmi. E dunque, se tutti gli esseri dell’universo non riescono a comprendere tutto il tuo essere, comprendono di te una sola parte, e la medesima parte tutti assieme? oppure i singoli esseri comprendono una singola parte, maggiore i maggiori, minore i minori? Dunque, esisterebbero parti di te maggiori, altre minori? o piuttosto tu sei intero dappertutto, e nessuna cosa ti comprende per intero?

Qualità inesprimibili di Dio

4.4 Cosa sei dunque, Dio mio? Cos’altro, di grazia, se non il Signore Dio? Chi è invero signore all’infuori del Signore, chi Dio all’infuori del nostro Dio? O sommo, ottimo, potentissimo, onnipotentissimo, misericordiosissimo e giustissimo, remotissimo e presentissimo, bellissimo e fortissimo, stabile e inafferrabile, immutabile che tutto muti, mai nuovo mai decrepito, rinnovatore di ogni cosa, che a loro insaputa porti i superbi alla decrepitezza; sempre attivo sempre quieto, che raccogli senza bisogno; che porti e riempi e serbi, che crei e nutri e maturi, che cerchi mentre nulla ti manca. Ami ma senza smaniare, sei geloso e tranquillo, ti penti ma senza soffrire, ti adiri e sei calmo, muti le opere ma non il disegno, ricuperi quanto trovi e mai perdesti; mai indigente, godi dei guadagni; mai avaro, esigi gli interessi; ti si presta per averti debitore, ma chi ha qualcosa, che non sia tua? Paghi i debiti senza dovere a nessuno, li condoni senza perdere nulla. Che ho mai detto, Dio mio, vita mia, dolcezza mia santa? Che dice mai chi parla di te? Eppure sventurati coloro che tacciono di te, poiché sono muti ciarlieri.

Aspirazione dell’anima a Dio

5.5 Chi mi farà riposare in te, chi ti farà venire nel mio cuore a inebriarlo? Allora dimenticherei i miei mali, e il mio unico bene abbraccerei: te. Cosa sei per me? Abbi misericordia, affinché io parli. E cosa sono io stesso per te, perché tu mi comandi di amarti e ti adiri verso di me e minacci, se non ubbidisco, gravi sventure, quasi fosse una sventura lieve l’assenza stessa di amore per te? Oh, dimmi, per la tua misericordia, Signore Dio mio, cosa sei per me. Di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Dillo, che io l’oda. Ecco, le orecchie del mio cuore stanno davanti alla tua bocca, Signore. Aprile e di’ all’anima mia: la salvezza tua io sono. Rincorrendo questa voce io ti raggiungerò, e tu non celarmi il tuo volto. Che io muoia per non morire, per vederlo.
5.6 Angusta è la casa della mia anima perché tu possa entrarvi: allargala dunque; è in rovina: restaurala; alcune cose contiene, che possono offendere la tua vista, lo ammetto e ne sono consapevole: ma chi potrà purificarla, a chi griderò, se non a te: “Purificami, Signore, dalle mie brutture ignote a me stesso, risparmia al tuo servo le brutture degli altri”? Credo, perciò anche parlo. Signore, tu sai: non ti ho parlato contro di me dei miei delitti, Dio mio, e tu non hai assolto la malvagità del mio cuore? Non disputo con te, che sei la verità, e io non voglio ingannare me stesso, nel timore che la mia iniquità s’inganni. Quindi non disputo con te, perché, se ti porrai a considerare le colpe, Signore, Signore, chi reggerà?

10.18 Chi può districare un nodo così tortuoso e aggrovigliato? ? sudicio, non voglio più riflettervi, non voglio guardarlo. Voglio te, giustizia e innocenza bella e ornata delle tue pure luci e di un’insaziabile sazietà. Accanto a te una pace profonda e una vita imperturbabile. Chi entra in te, entra nel gaudio del suo Signore; non avrà timori e si troverà sommamente bene nel sommo Bene. Io mi dispersi lontano da te ed errai, Dio mio, durante la mia adolescenza per vie troppo remote dalla tua solida roccia. Così divenni per me regione di miseria.

La luce della verità nell’uomo interiore

10.16 Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nell’intimo del mio cuore sotto la tua guida; e lo potei, perché divenisti il mio soccorritore. Vi entrai e scorsi con l’occhio della mia anima, per quanto torbido fosse, sopra l’occhio medesimo della mia anima, sopra la mia intelligenza, una luce immutabile. Non questa luce comune, visibile a ogni carne, né della stessa specie ma di potenza superiore, quale sarebbe la luce comune se splendesse molto, molto più splendida e penetrasse con la sua grandezza l’universo. Non così era quella, ma cosa diversa, molto diversa da tutte le luci di questa terra. Neppure sovrastava la mia intelligenza al modo che l’olio sovrasta l’acqua, e il cielo la terra, bensì era più in alto di me, poiché fu lei a crearmi, e io più in basso, poiché fui da lei creato. Chi conosce la verità, la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. La carità la conosce. O eterna verità e vera carità e cara eternità, tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Quando ti conobbi la prima volta, mi sollevasti verso di te per farmi vedere come vi fosse qualcosa da vedere, mentre io non potevo ancora vedere; respingesti il mio sguardo malfermo col tuo raggio folgorante, e io tutto tremai d’amore e terrore. Mi scoprii lontano da te in una regione dissimile, ove mi pareva di udire la tua voce dall’alto: “Io sono il nutrimento degli adulti. Cresci, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me”. Riconobbi che hai ammaestrato l’uomo per la sua cattiveria e imputridito come ragnatela l’anima mia. Chiesi: “La verità è dunque un nulla, poiché non si estende nello spazio sia finito sia infinito?”; e tu mi gridasti da lontano: “Anzi, io sono colui che sono”. Queste parole udii con l’udito del cuore. Ora non avevo più motivo di dubitare. Mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza, che dell’esistenza della verità, la quale si scorge comprendendola attraverso il creato.

L’esistenza di Dio e delle cose

11.17 Osservando poi tutte le altre cose poste al di sotto di te, scoprii che né esistono del tutto, né non esistono del tutto. Esistono, poiché derivano da te; e non esistono, poiché non sono ciò che tu sei, e davvero esiste soltanto ciò che esiste immutabilmente. Il mio bene è l’unione con Dio, poiché, se non rimarrò in lui, non potrò rimanere neppure in me. Egli invece rimanendo stabile in sé, rinnova ogni cosa. Tu sei il mio Signore, perché non hai bisogno dei miei beni.

Bontà ed esistenza delle cose

12.18 Mi si rivelò anche nettamente la bontà delle cose corruttibili, che non potrebbero corrompersi né se fossero beni sommi, né se non fossero beni. Essendo beni sommi, sarebbero incorruttibili; essendo nessun bene, non avrebbero nulla in se stesse di corruttibile. La corruzione è infatti un danno, ma non vi è danno senza una diminuzione di bene. Dunque o la corruzione non è danno, il che non può essere, o, com’è invece certissimo, tutte le cose che si corrompono subiscono una privazione di bene. Private però di tutto il bene non esisteranno del tutto. Infatti, se sussisteranno senza potersi più corrompere, saranno migliori di prima, permanendo senza corruzione; ma può esservi asserzione più mostruosa di questa, che una cosa è divenuta migliore dopo la perdita di tutto il bene? Dunque, private di tutto il bene, non esisteranno del tutto; dunque, finché sono, sono bene. Dunque tutto ciò che esiste è bene, e il male, di cui cercavo l’origine, non è una sostanza, perché, se fosse tale, sarebbe bene: infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, e allora sarebbe inevitabilmente un grande bene; o una sostanza corruttibile, ma questa non potrebbe corrompersi senza essere buona. Così vidi, così mi si rivelò chiaramente che tu hai fatto tutte le cose buone e non esiste nessuna sostanza che non sia stata fatta da te; e poiché non hai fatto tutte le cose uguali, tutte esistono in quanto buone ciascuna per sé e assai buone tutte insieme, avendo il nostro Dio fatto tutte le cose buone assai.

L’armonia dell’universo

13.19 In te il male non esiste affatto, e non solo in te, ma neppure in tutto il tuo creato, fuori del quale non esiste nulla che possa irrompere e corrompere l’ordine che vi hai imposto. Tra le parti poi del creato, alcune ve ne sono, che, per non essere in accordo con alcune altre, sono giudicate cattive, mentre con altre si accordano, e perciò sono buone, e buone sono in se stesse. Tutte queste parti, che non si accordano fra loro, si accordano poi con la porzione inferiore dell’universo, che chiamiamo terra, la quale è provvista di un suo cielo percorso da nubi e venti, ad essa conveniente. Lontano d’ora in poi da me l’augurio: “Oh, se tali cose non esistessero!”. Quand’anche vedessi soltanto tali cose, potrei certo desiderarne di migliori, ma non più mancare di lodarti anche soltanto per queste. Che ti si debba lodare, lo mostrano infatti sulla terra i draghi e tutti gli abissi, il fuoco, la grandine, la neve, il ghiaccio, il soffio della tempesta, esecutori della tua parola, i monti e tutti i colli, gli alberi da frutto e tutti i cedri, le bestie e tutti gli armenti, i rettili e i volatili pennuti; i re della terra e tutti i popoli, i principi e tutti i giudici della terra, i giovani e le fanciulle, gli anziani con gli adolescenti lodino il tuo nome. Ma, poiché anche dai cieli salgono verso di te le lodi, ti lodino, Dio nostro, nell’alto tutti gli angeli tuoi; tutte le potenze tue, il sole e la luna, tutte le stelle e la luce, i cieli dei cieli e le acque che stanno sopra i cieli, lodino il tuo nome. Ormai non desideravo di meglio: tutte le cose abbracciavo col mio pensiero, e se le creature superiori sono meglio di quelle inferiori, tutte insieme sono però meglio delle prime sole. Con più sano giudizio davo questa valutazione.

L’insano dualismo manicheo

14.20 Non c’è sanità di giudizio in coloro che non gradiscono qualche cosa del tuo creato, come non ce n’era in me quando non gradivo molte delle cose da te create. E poiché la mia anima non osava non gradire il mio Dio, si rifiutava di riconoscere come opera tua tutto ciò che non gradiva. Di qui era giunta alla concezione delle due sostanze, senza trovarsi soddisfatta e usando un linguaggio non suo; poi aveva abbandonato quell’idea per costruirsi un dio esteso dovunque negli spazi infiniti, che aveva immaginato fossi tu e aveva collocato nel proprio cuore, ricostituendosi tempio del proprio idolo, abominevole ai tuoi occhi. Quando però a mia insaputa prendesti il mio capo fra le tue braccia e chiudesti i miei occhi per togliere loro la vista delle cose vane, mi ritrassi un poco da me, la mia follia si assopì. Mi risvegliai in te e ti vidi, infinito ma diversamente, visione non prodotta dalla carne.

Esistenza e verità

15.21 Rivolto poi lo sguardo alle altre cose, vidi che devono a te l’esistenza e sono in te tutte finite, ma diversamente da come si è in un luogo: cioè in quanto tu tieni tutto con la tua mano, la verità, e tutto è vero in quanto è, nulla falso se non ciò che si crede essere mentre non è. Vidi pure che ogni cosa si accorda non soltanto col proprio luogo, ma anche col proprio tempo, e che tu, unico essere eterno, non sei passato all’azione dopo estensioni incalcolabili di tempo. Tutte le estensioni del tempo, passate come future, non potrebbero né allontanarsi né avvicinarsi, se tu non fossi attivo e stabile.

La perversione della volontà

16.22 E capii per esperienza che non è cosa sorprendente, se al palato malsano riesce una pena il pane, che al sano è soave; se agli occhi offesi è odiosa la luce, che ai vividi è amabile. La tua giustizia è sgradita ai malvagi, e a maggior ragione le vipere e i vermiciattoli che hai creato buoni e in accordo con le parti inferiori del tuo creato. A queste i malvagi stessi si accordano nella misura in cui non ti assomigliano, mentre si accordano alle parti superiori nella misura in cui ti assomigliano. Ricercando poi l’essenza della malvagità, trovai che non è una sostanza, ma la perversione della volontà, la quale si distoglie dalla sostanza suprema, cioè da te, Dio, per volgersi alle cose più basse, e, ributtando le sue interiora, si gonfia esternamente.

Ascesa all’Essere

17.23 Ero sorpreso di amarti, ora, e più non amare un fantasma in tua vece. Ma non ero stabile nel godimento del mio Dio. Attratto a te dalla tua bellezza, ne ero distratto subito dopo dal mio peso, che mi precipitava gemebondo sulla terra. Era, questo peso, la mia consuetudine con la carne; ma portavo con me il tuo ricordo. Non dubitavo minimamente dell’esistenza di un essere cui dovevo aderire, sebbene ancora non ne fossi capace, perché il corpo corruttibile grava sull’anima, e la dimora terrena deprime lo spirito con una folla di pensieri; ed ero assolutamente certo che quanto in te è invisibile, dalla costituzione del mondo si scorge comprendendolo attraverso il creato, così come la tua virtù eterna e la tua divinità. Nel ricercare infatti la ragione per cui apprezzavo la bellezza dei corpi sia celesti sia terrestri, e i mezzi di cui dovevo disporre per formulare giudizi equi su cose mutevoli, allorché dicevo: “Questa cosa dev’essere così, quella no”; nel ricercare dunque la spiegazione dei giudizi che formulavo giudicando così, scoprii al di sopra della mia mente mutabile l’eternità immutabile e vera della verità. E così salii per gradi dai corpi all’anima, che sente attraverso il corpo, dall’anima alla sua potenza interna, cui i sensi del corpo comunicano la realtà esterna, e che è la massima facoltà delle bestie. Di qui poi salii ulteriormente all’attività razionale, al cui giudizio sono sottoposte le percezioni dei sensi corporei; ma poiché anche quest’ultima mia attività si riconobbe mutevole, ascese alla comprensione di se medesima. Distolse dunque il pensiero dalle sue abitudini, sottraendosi alle contradizioni della fantasia turbinosa, per rintracciare sia il lume da cui era pervasa quando proclamava senza alcuna esitazione che è preferibile ciò che non muta a ciò che muta, sia la fonte da cui derivava il concetto stesso d’immutabilità, concetto che in qualche modo doveva possedere, altrimenti non avrebbe potuto anteporre con certezza ciò che non muta a ciò che muta. Così giunse, in un impeto della visione trepida, all’Essere stesso. Allora finalmente scorsi quanto in te è invisibile, comprendendolo attraverso il creato; ma non fui capace di fissarvi lo sguardo. Quando, rintuzzata la mia debolezza, tornai fra gli oggetti consueti, non riportavo con me che un ricordo amoroso e il rimpianto, per così dire, dei profumi di una vivanda che non potevo ancora gustare.

Cristo Gesù, unico Mediatore fra l’uomo e Dio

18.24 Cercavo la via per procurarmi forza sufficiente a goderti, ma non l’avrei trovata, finché non mi fossi aggrappato al mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che è sopra tutto Dio benedetto nei secoli. Egli ci chiama e ci dice: “Io sono la via, la verità e la vita”; egli mescola alla carne il cibo che non avevo forza di prendere, poiché il Verbo si è fatto carne affinché la tua sapienza, con cui creasti l’universo, divenisse latte per la nostra infanzia. Non avevo ancora tanta umiltà, da possedere il mio Dio, l’umile Gesù, né conoscevo ancora gli ammaestramenti della sua debolezza. Il tuo Verbo, eterna verità che s’innalza al di sopra delle parti più alte della creazione, eleva fino a sé coloro che piegano il capo; però nelle parti più basse col nostro fango si edificò una dimora umile, la via per cui far scendere dalla loro altezza e attrarre a sé coloro che accettano di piegare il capo, guarendo il turgore e nutrendo l’amore. Così impedì che per presunzione si allontanassero troppo, e li stroncò piuttosto con la visione della divinità stroncata davanti ai loro piedi per aver condiviso la nostra tunica di pelle. Sfiniti, si sarebbero reclinati su di lei, ed essa alzandosi li avrebbe sollevati con sé.

La rivelazione biblico-evangelica

Come si è visto in riferimento alla concezione del ‘Logos’, l’annuncio cristiano ha influenzato profondamente la storia del pensiero filosofico ed in modo particolare l’antropologia e la teologia. Già l’Antico Testamento aveva offerto elementi importanti alla domanda di verità metafisica dell’uomo, ma aveva potuto farsi sentire poco al di fuori del popolo ebraico. Con l’avvento di Cristo si verifica invece un movimento missionario che in pochi secoli si diffonderà per tutto il mondo, mettendosi a confronto con innumerevoli situazioni esistenziali e culturali. Non va tuttavia dimenticato l’apporto già in se stesso rivoluzionario offerto dall’esperienza dell’Alleanza tra il popolo di Israele e Dio. Esso può essere sintetizzato nei seguenti punti:

– il monoteismo assoluto e reale, con la conseguente concezione fortemente unitaria dell’essere;
– la coincidenza tra Dio e l’essere (“Io-Sono”) inteso nel suo livello ultimo e assoluto, con la conseguente eliminazione sia del panteismo (coincidenza tra l’essere contingente e la divinità) che della separazione tra Dio e l’uomo;
– la concezione dell’uomo come “immagine e somiglianza di Dio”, per le sue caratteristiche di soggettività, coscienza, volontà, libertà, intelligenza, amore;
– la concezione della vita come rapporto con Dio attraverso la realtà umana in cui Lui abita, cioè il popolo riunito nell’Alleanza con Dio: l’uomo è invitato sempre a cercare Dio, nella certezza che egli risponderà alla sua domanda;
– l’uomo è peccatore, avendo rotto per sua libera iniziativa l’amicizia con Dio: deve dunque chiedere umilmente il dono della salvezza, attenderlo e cooperare alla sua venuta.

Con Cristo questa concezione della realtà non viene abolita, ma portata a compimento. La novità può essere sintetizzata in questi punti:

– il monoteismo rimane assoluto e reale, ma assume il volto della Trinità che rivela l’unico Dio come realtà comunionale, caratterizzata dall’essere infinito, dall’intelligenza infinita e dall’amore infinito;
– Dio, con tutta la sua realtà personale, si fa uomo, manifestando apertamente il suo volto, il suo amore, il suo disegno, la sua parola e offrendo agli uomini la sua amicizia;
– Dio in Cristo compie sulla croce il sacrificio che redime l’uomo dal male e con la Resurrezione inaugura la nuova creazione: in tal modo l’universo viene liberato dal non-senso della sofferenza e della morte, trasformati in strumenti di redenzione; la vita diventa dono di sé, carità, resa possibile dal dono dello Spirito di Dio stesso;
– la persona umana, acquista un valore infinito, sia per la sua restaurata somiglianza con Dio, sia per l’ingresso della natura umana nella realtà divina: ogni uomo diventa ‘fratello’ di Dio stesso;
– lo strumento fondamentale della redenzione permanente dell’uomo diventa la Chiesa: una realtà comunitaria in cui Cristo stesso si identifica, e attraverso la quale si rende già presente e sperimentabile il destino finale dell’umanità;
– il destino dell’uomo è la partecipazione piena alla vita di Dio, in cui tutta l’umanità è portata a formare una sola cosa in Dio e in cui tutta la creazione viene portata a compimento.

Tutto ciò non si lascia ridurre a nessuna filosofia umana, ma nello stesso tempo è la verità più corrispondente alla domanda di verità del filosofo e dell’uomo in genere. La storia del pensiero occidentale non potrà più prescindere da questo annuncio. L’antropologia, di cui si sta tentando qui di seguire il cammino, ne resterà profondamente segnata: la concezione greca dell’anima immortale verrà valorizzata e potenziata, mentre verrà recuperato il valore della corporeità. L’uomo si presenta non più solamente come un essere dotato di conoscenze soprasensibili, ma come creatura nuova, abitata dallo Spirito di Dio e da Lui dotata di una energia sconosciuta all’uomo naturale. A dimostrare queste verità superiori alle forze della ragione umana è l’esperienza, che mostra all’osservatore attento quanto sia reale ed efficace l’energia proveniente dall’Altro che opera nell’uomo che lo accoglie. L’uomo quindi può percepire e riconoscere i fatti attraverso cui si documenta la verità conosciuta.

Lo Stoicismo: la riduzione dell’irriducibile

L’ontologia stoica è centrata sull’idea di Logos: l’essere risulta determinato da una razionalità, da un disegno, da una norma, che definisce sia la logica (cioè la verità e il metodo per riconoscerla), sia la fisica (cioè la realtà, nella sua struttura interiore e nei suoi dettagli), sia l’etica (cioè la norma della vita giusta).

Questo Logos coincide con il Fuoco che anima tutto l’essere e gli conferisce energia e orientamento. Si tratta in definitiva di Dio stesso, inteso come il principio attivo che permea tutto l’essere, il quale coincide con la realtà sensibile. Dunque una nuova versione del rigido materialismo epicureo, che esclude ogni realtà soprasensibile, benché non di stampo atomistico: tutto l’universo infatti è mosso da una forza razionale, il cui disegno è ben preciso e non più imprevedibile.

Ma con ciò viene rafforzata l’idea della meccanicità e necessità di questo sviluppo cosmico: tutto è rigorosamente determinato dal disegno universale e ogni cosa ha il suo posto e la sua funzione in senso meccanicistico. Dio stesso, il Logos, è una realtà impersonale e, per così dire, tecnico-razionalistica. L’uomo stoico si pone di fronte a questo immenso meccanismo cosmico, destinato a ripetersi sempre uguale infinite volte, e si rende conto che la strada della saggezza sta nel riconoscere la norma o ragione che governa tutte le cose ed adeguarsi ad essa facendola propria.

Opporsi ad essa non servirebbe a nulla, perché si tratta di una ineluttabile necessità, di un ‘fato’ inevitabile. L’uomo del resto porta dentro di sé qualcosa del Logos, vale a dire il fuoco-pneuma che chiamiamo anima: riconoscere dunque il Logos come norma di vita iscritta nella natura è la virtù. Ma anche in questa visione compatta e solida dell’essere si manifestano quelle incongruenze o crepe che aprono la via per orizzonti ben più ampi.

Nella teoria della conoscenza lo stoicismo sostiene che tutto è determinato dalla sensazione e dalla natura corporea di conosciuto e conoscente; ma dovendo definire i concetti universali la dottrina stoica parla di realtà incorporee, pur cercando di ridurle a puri effetti di realtà corporee. Nella descrizione dell’assenso alla verità parla della ‘libertà’ come della saggezza di chi si conforma ai voleri del Destino: ma ciò facendo introduce una realtà anomala al’interno del rigido meccanicismo universale; infatti in questo modo paradossalmente l’uomo appare come un ente superiore a tutto ciò che lo circonda, perché possiede una consapevolezza personale e libera che non è posseduta da niente altro, nemmeno dal Logos, inteso com’è in modo impersonale e materialistico.

Nonostante dunque la potenza invincibile della necessità universale, del fato, della logica impersonale dell’essere, lo stoico suo malgrado non fa che mettere in evidenza la non corrispondenza dell’uomo con questo contesto che lo genera: la sua umanità per così dire gli sfugge di mano e mette in scacco l’intero meccanismo, mostrando che sia l’essere proprio che quello universale portano dimensioni che non si lasciano incastrare in meccanismi automatici, neanche di estensione cosmica.

E il tentativo di far accettare all’uomo l’imponenza schiacciante dell’essere impersonale con il ricorso all’apatia, si rivela anche qui come provvidenzialmente controproducente, perché non fa altro che manifestare ancora di più l’irriducibilità del piccolissimo e insieme grandissimo fenomeno dell'”io” e la necessità quindi di ripensare tutto il vero spessore dell’essere totale che lo genera.

Lo stoicismo lascerà in eredità l’idea di Logos come parziale ma fondamentale intuizione della profonda razionalità dell’essere: il cristianesimo annuncerà che si tratta di una realtà personale e questo permetterà di comprendere veramente l’uomo e il suo posto nel mondo. Ciò risponderà anche all’esigenza della ragione filosofica, che intuisce l’irriducibilità del Logos.

Infatti, se è evidente che nella realtà c’è l’impronta di un ‘Logos’, cioè di una ragione, di un disegno, di un progetto (anche solo come dinamismo evolutivo carico di potenzialità razionale); e se è evidente che l’uomo rappresenta tra gli enti il vertice della produzione razionale, cioè il vertice dell’espressione del ‘Logos’ insito nella realtà; allora è evidente che questo ‘Logos’ – che si dimostra capace di produrre la realtà personale, cioè che si rivela un Logos che possiede la capacità di progettare, volere e realizzare tale realtà personale – è una realtà superiore alla persona umana come noi la conosciamo attualmente, perché essa non possiede tale capacità: dunque la realtà che progetta-vuole-realizza la realtà della persona dimostra di essere in primo luogo ‘persona’ – cioè dotata di razionalità, di coscienza, di volontà, di azione, di soggettività -, e in secondo luogo ‘persona superiore’ – cioè dotata di queste doti ad un livello più alto del nostro.

Perciò l’idea di ‘Logos’ proposta dagli stoici ha senso solo se esso è ‘Persona’ e non meccanismo. Se fosse meccanismo infatti saremmo di fronte ad una duplice difficoltà logica: anzitutto l’idea che da un meccanismo possa emergere un non-meccanismo, cioè la persona; quindi l’idea che l’essere sia impostato come meccanismo capace di produrre la persona senza avere a sua volta alcuna ragione del suo essere così – cioè l’assurdo di un essere dotato della capacità di produrre la persona senza avere alcuna ragione di esistere così: perché per esistere così, come un ente limitato – in quanto si suppone che non sia persona – o rimanda a sua volta a un essere illimitato -cioè persona – che lo produce, oppure è egli stesso l’essere illimitato – cioè persona – che non ha bisogno di altro per esistere perché è illimitato.

Un meccanismo capace di produrre la persona è dunque un controsenso logico sia nel passaggio dal meccanismo alla persona, che nella giustificazione della sua esistenza.

La fondazione Gates finanzia pubblicamente le organizzazione abortiste

La fondazione di Bill e Melinda Gates, il cui motto paradossalmente è “all lives have equal value”, figura tra i maggiori finanziatori privati di organizzazioni abortiste e anticoncezionaliste al mondo. I dati sono pubblicati dai siti pro-life americani e confermerebbero la potenza economica delle lobbies che, adeguatamente finanziate da governi ed enti privati, cercano in tutti i modi di diffondere nel mondo le legislazioni abortiste e le strutture dove realizzare aborti e la capillare diffusione di anticoncezionali e farmaci abortivi.

Proprio nella sua ultima enciclica, la Caritas in Veritate, così si è espresso papa Ratzinger: “Nei Paesi economicamente più sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale. Alcune Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell’aborto, promuovendo talvolta nei Paesi poveri l’adozione della pratica della sterilizzazione, anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti di fatto l’imposizione di un forte controllo delle nascite” (n.28).

Vediamo allora qualche particolare riguardante l’uomo più ricco del mondo e la fondazione cui si starebbe dedicando insieme con la moglie Melinda. In un dettagliato articolo di Samantha Singson, pubblicato nello scorso luglio da alcuni siti americani (http://www.lifesitenews.com/ldn/2009/jul/09070910.html), si riferisce dei 23 milioni di dollari offerti dalla Bill and Melinda Gates Foundation, insieme con la Hewlett Foundation e altre sedicenti “charitable foundations”, a sostegno dell’attività svolta dalla più potente organizzazione abortista mondiale, la IPPF (International Planned Parenthood Foundation): questa entità consociativa, nel proprio report ufficiale sulle iniziative svolte nel 2008, si vanta di aver contribuito alla realizzazione nel mondo di 650.000 aborti e di 24 milioni di “servizi contraccettivi” godendo del finanziamento di 17 governi nazionali nonché dell’ONU e dell’Unione Europea.

Altri articoli riferiscono di altri fondi stanziati precedentemente dai coniugi Gates all’IPPF (http://www.stopp.org/st001213.htmhttp://www.stopp.org/rr0309.htm). Altri ancora parlano dell’assegno di 287 milioni di dollari staccato dalla coppia Gates per la lotta contro l’AIDS, in polemica esplicita con la Chiesa Cattolica che rifiuta la diffusione del preservativo. In un articolo del New York Times si afferma che la loro fondazione avrebbe speso finora 522 milioni di dollari per “family planning” e programmi di “salute materna” (http://query.nytimes.com/gst/fullpage.html?res=9902E7DC1330F935A35754C0A9609C8B63&sec=&spon=&pagewanted=2 ).

Secondo i dati pubblicati da Wikipedia, la fondazione suddetta gode di un fondo di 26 miliardi di dollari. La Microsoft di un capitale di 270 miliardi di dollari. Bill Gates avrebbe un patrimonio personale di 40 miliardi di dollari. Melinda Gates è cattolica, e, stando al suddetto articolo del NYT, sembrerebbe personalmente contraria all’aborto : anche questo dato fa capire quanta tragica confusione ci sia nelle coscienze contemporanee, contese tra molteplici interessi ideologici, politici, economici, giornalistici. Suo marito Bill viene da una famiglia protestante congregazionalista (calvinista): ammira l’elevatezza morale del cristianesimo, ma non è praticante e sembra propendere per l’agnosticismo.

In Vaticano per le attività informatiche si utilizzano come sistemi operativi Unix e Linux: non sembra essere un caso.

Epicuro: il materialismo impotente

Epicuro nega la realtà soprasensibile e afferma un ferreo materialismo, facendo suo l’atomismo democriteo. Ma poi dovendo spiegare realtà come l’anima razionale, o gli Dei, o le verità etiche, o l’ordine della materia, o l’infinità dell’essere, si ritrova come Democrito in un evidente imbarazzo.

 A livello ontologico generale emerge la contraddizione tra da una parte il riconoscimento dell’infinità, eternità e completezza dell’essere (secondo la grande eredità della filosofia eleatica), e dall’altra la concezione o riduzione di questo essere infinito nei termini della materia così come è data alla nostra conoscenza; cioè Epicuro mentre prende atto della illimitabilità dell’essere, lo limita a ciò che la sensazione ammette come esistente: quindi l’essere illimitato diventa limitato. Questa limitazione dell’essere diventa ancora più vistosa nel momento in cui viene negata la realtà delle idee, cioè dell’essere soprasensibile; per Epicuro non ha senso pensare qualcosa che non sia corporeo, se non il vuoto che non è in grado di produrre alcunché: ciò facendo non solo esclude una possibilità che l’essere potrebbe avere, ma ancor più nega una attualità – quella delle idee – che è constatabile anche dalla nostra limitata conoscenza dell’essere. Venendo perciò a trattare dell’anima razionale, egli tenta di spiegarla con la teoria atomistica:

[…] l’anima è un corpo costituito da parti sottili, disseminato per l’intero aggregato, estremamente simile a un soffio dotato di una mescolanza di calore, in alcuni casi più affine a questo, in altri a quello. C’è, però, una certa parte dell’anima che si è andata nettamente distinguendo per via della finezza anche di queste particelle, e tanto più, per tale motivo, è in stretta relazione con il resto dell’aggregato. E tutto questo, sono le facoltà dell’anima a mostrarlo, e pure le affezioni, la facilità dei movimenti, e i processi mentali: insomma, ciò senza del quale moriamo.

1 Come nel caso di Democrito, egli si rende conto che il fenomeno della coscienza, della conoscenza, del’io, si impone come un dato qualitativamente diverso rispetto al mondo degli oggetti. Ma, anziché riflettere adeguatamente su questa differenza ontologica, egli la risolve sbrigativamente in senso materialistico tentando di giustificarla con una struttura atomica più sofisticata, ma non ontologicamente diversa da quella di tutte le altre realtà corporee. Si evidenzia così la vera questione: c’è questa diversità ontologica tra l’”io” e le altre entità individuali, oppure l’”io” è spiegabile in tutta la sua essenza e in tutte le sue attività come un qualsiasi altro oggetto meccanicamente costruibile? Epicuro esclude a priori l’ipotesi della diversità perché incompatibile con la sua visione monistica dell’essere:

Ora, non è possibile concepire di per se stesso l’incorporeo, a parte il vuoto. Ebbene, il vuoto non può né fare né subire nulla, ma si limita a offrire ai corpi la possibilità di muoversi attraverso di sé. Cosicché, quanti dicono che l’anima è incorporea, dicono delle sciocchezze. Infatti, se fosse tale, non potrebbe né agire né subire mentre è evidente che entrambe queste proprietà appartengono all’anima.

2 In questo modo tutta l’eredità socratico-platonica-aristotelica viene azzerata, come se si fosse trattato di un castello in aria. Ma è davvero così semplice e giusto negare tutte le dimensioni dell’essere e del soggetto scoperte dai tre grandi ateniesi? Lo stesso Epicuro indagando le radici e i contenuti dell’etica finisce coll’ammettere implicitamente la diversità del soggetto umano rispetto al mondo meccanico della necessità. L’ideale del saggio diventa quello della imperturbabilità o atarassia: un tentativo di affermare la superiorità dell’uomo sulla realtà irrazionale che lo circonda; ma paradossalmente in questo modo si mette in evidenza l’irriducibile diversità dell’”io” sopra considerata. Lucrezio, il poeta dell’epicureismo, sviluppa questa intuizione nel suo De rerum natura, dove la differenza ontologica tra l’”io” e il mondo è avvertita nel modo più drammatico:

Quod [si] iam rerum ignorem primordia quae sint, hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim confirmare aliisque ex rebus reddere multis, nequaquam nobis divinitus esse paratam naturam rerum: tanta stat praedita culpa. Potrei non sapere del mondo le origini, ma dai segni del cielo e da molte cose create io sono certo che il mondo non è fatto per noi: tanto esso è fonte di male.

[…] quare mors inmatura vagatur? tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis navita, nudus humi iacet infans indigus omni vitali auxilio, cum primum in luminis oras nixibus ex alvo matris natura profudit, vagituque locum lugubri complet, ut aequumst cui tantum in vita restet transire malorum.

E la morte va in giro inaspettata. E il fanciullo, come naufrago gettato alla riva dalle onde infuriate, giace nudo a terra, senza poter parlare, bisognoso d’aiuto; e quando dall’urlo materno la natura l’ha buttato là nella luce piange e fa lugubre il giorno di lamenti: presagio del male che gli rimane di vivere.

3 Lucrezio giunge ad avvertire che c’è un dato irriducibile nell’uomo, che si manifesta nell’impossibilità di far coincidere la sua felicità con il piacere fisico:

[…] quoniam medio de fonte leporum Surgit amari aliquid quod in ipsis floribus angat Poiché nel mezzo della fonte dei piaceri sorge qualcosa di amaro che fa soffrire anche negli stessi fiori

4 L’epicureismo, volendo dimostrare la necessità della riduzione materialsitica dell’uomo, finisce col dimostrare il contrario, mostrando l’impotenza del materialismo a spiegare l’uomo e a realizzare la sua felicità.

Euclide e la scienza moderna: il mistero della matematica

 

La scoperta platonica delle idee trova un’applicazione rilevantissima nello sviluppo delle conoscenze matematiche e geometriche. L’uomo scopre le forme pure degli oggetti e la relativa possibilità di rapporti e costruzioni perfetti. Accanto ad un oggetto che ha la forma di triangolo appare evidente l’esistenza in sè della forma del triangolo e di tutte le leggi che la determinano. L’esistenza dell’idea diventa più evidente e più identificabile. La matematica dunque non introduce una novità assoluta, ma offre una notevole riprova alla dottrina delle idee. L’uomo perciò si conferma un essere in relazione con il sopransensibile, cioè con l’immutabile e l’eterno.

E’ necessario qui considerare la ripresa che questa tematica ha avuto parecchi secoli dopo Euclide. L’epoca moderna è stata infatti caratterizzata dalla scoperta della corrispondenza tra le leggi matematiche e quelle della realtà fisica. Uno dei primi a sorprendere questa curiosa corrispondenza fu Galileo Galilei, considerato l’iniziatore della ‘rivoluzione scientifica’. Egli arrivò a coniare la celebre sentenza:

 La matematica è l’alfabeto col quale Dio ha scritto l’universo.

Contemporaneamente a Galileo, fu Keplero, con le sue celebri leggi sulle orbite e sulle velocità dei pianeti, a dare conferma della costruzione matematica dell’universo. Successivamente numerosi grandi scienziati si sono interrogati su questo legame tra realtà fisica e razionalità. Le sempre maggiori scoperte scientifiche, quali soprattutto la teoria della relatività di Einstein, hanno mostrato sempre di più la profondità di questo legame, rendendo la matematica uno strumento indispensabile per qualsiasi intervento sulla realtà. L’era informatica ha dato a questa necessità una applicazione universale e capillare. Il contraccolpo filosofico di questo sviluppo scientifico, compreso quello delle geometrie cosiddette non-euclidee, è esattamente quello contenuto nella riflessione platonico-euclidea, vale a dire il rapporto tra la realtà sensibile e quella soprasensibile. E’ quanto viene notato dal grande matematico italiano Ennio De Giorgi (1928-1996):

 

La matematica è una delle manifestazioni più significative dell’amore per la sapienza. Come tale è caratterizzata da un lato da una grande libertà, dall’altro dall’intuizione che il mondo è fatto di cose visibili e invisibili e la matematica ha forse una capacità, unica fra le altre scienze, di passare dall’osservazione delle cose visibili all’immaginazione delle cose invisibili. Questo forse è il segreto della forza della matematica.

Tutto ciò che noi riusciamo a vedere nel finito ci appare incomprensibile e disarmonico, se non lo pensiamo come parte di un quadro più ampio di grandezza infinita. Il fatto che questo quadro infinito sia in gran parte sconosciuto non ci deve portare a negarne l’esistenza (Ennio De Giorgi Anche la scienza ha bisogno di sognare (a cura di F. Bassani, A. Marino, C. Sbordone) ed. Plus, Pisa, 2001)

 

 

L’astrofisico Paul Davies sviluppa queste riflessioni considerando l’aspetto ancora più stupefacente della razionalità insita nell’universo, e cioè il fatto che essa struttura l’universo stesso in modo che esso produca la mente umana, cioè quella realtà che diventa capace di decifrare la razionalità che l’ha prodotta:

Come avviene che le leggi dell’universo siano tali da favorire l’emergenza di menti a loro volta capaci di riflettere e modellare accuratamente queste stesse leggi matematiche? Come è successo che il cervello dell’uomo, che è il sistema fisico più complesso e sviluppato che conosciamo, abbia prodotto tra le sue funzioni più avanzate qualcosa come la matematica, capace di spiegare con .tanto successo i sistemi più basilari della realtà fìsica? Perché la mente, che si colloca al culmine dello sviluppo, si ripiega su se stessa e si collega con il livello base dell’esistenza, cioè con l’ordine retto da leggi su cui l’universo è costruito? A mio avviso questo strano loop suggerisce che la mente è qualcosa che è legata ai più fondamentali aspetti della realtà fisica, sicché se vi è un significato o un fine all’esistenza fisica, allora noi, esseri coscienti, siamo di sicuro una parte profonda ed essenziale di questo fine. (Paul Davies, in Bersanelli-Gargantini, etc, pp. 310-311)

 

Questo loop verrà ripreso più avanti quando si parlerà del Logos introdotto dagli stoici per designare l’evidente razionalità dell’universo: si vedrà come esso non può essere considerato un semplice ‘disegno’ insito nella realtà, ma deve essere riconosciuto nella sua soggettività assoluta, senza la quale non si spiega né la razionalità del reale, né tantomeno l’apparire in esso della soggettività umana. E’ interessante a questo proposito la riflessione di Benedetto XVI in un dialogo con giovani studenti:

 

La cosa sorprendente è che questa invenzione della nostra mente umana [la matematica] è veramente la chiave per comprendere la natura, che la natura è realmente strutturata in modo matematico e che la nostra matematica, inventata dal nostro spirito, è realmente lo strumento per poter lavorare con la natura, per metterla al nostro servizio, per strumentalizzarla attraverso la tecnica. Mi sembra una cosa quasi incredibile che una invenzione dell’intelletto umano e la struttura dell’universo coincidano: la matematica inventata da noi ci dà realmente accesso alla natura dell’universo e lo rende utilizzabile per noi. Quindi la struttura intellettuale del soggetto umano e la struttura oggettiva della realtà coincidono: la ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura sono identiche. Penso che questa coincidenza tra quanto noi abbiamo pensato e il come si realizza e si comporta la natura, siano un enigma ed una sfida grandi, perché vediamo che, alla fine, è “una” ragione che le collega ambedue: la nostra ragione non potrebbe scoprire quest’altra, se non vi fosse un’identica ragione a monte di ambedue. […] E così vediamo che c’è una razionalità soggettiva e una razionalità oggettivata nella materia, che coincidono. Naturalmente adesso nessuno può provare – come si prova nell’esperimento, nelle leggi tecniche – che ambedue siano realmente originate in un’unica intelligenza, ma mi sembra che questa unità dell’intelligenza, dietro le due intelligenze, appaia realmente nel nostro mondo. […] Ci sono solo due opzioni. O si riconosce la priorità della ragione, della Ragione creatrice che sta all’inizio di tutto ed è il principio di tutto – la priorità della ragione è anche priorità della libertà – o si sostiene la priorità dell’irrazionale, per cui tutto quanto funziona sulla nostra terra e nella nostra vita sarebbe solo occasionale, marginale, un prodotto irrazionale – la ragione sarebbe un prodotto della irrazionalità. Non si può ultimamente “provare” l’uno o l’altro progetto, ma la grande opzione del Cristianesimo è l’opzione per la razionalità e per la priorità della ragione. Questa mi sembra un’ottima opzione, che ci dimostra come dietro a tutto ci sia una grande Intelligenza, alla quale possiamo affidarci. Ma il vero problema contro la fede oggi mi sembra essere il male nel mondo: ci si chiede come esso sia compatibile con questa razionalità del Creatore. E qui abbiamo bisogno realmente del Dio che si è fatto carne e che ci mostra come Egli non sia solo una ragione matematica, ma che questa ragione originaria è anche Amore. Se guardiamo alle grandi opzioni, l’opzione cristiana è anche oggi quella più razionale e quella più umana. Per questo possiamo elaborare con fiducia una filosofia, una visione del mondo che sia basata su questa priorità della ragione, su questa fiducia che la Ragione creatrice è amore, e che questo amore è Dio. Benedetto XVI (6 aprile 2006, incontro con i giovani)

 

Tornando sul piano antropologico, la scoperta della matematica comporta dunque una maggiore evidenza della sorprendente capacità umana di porsi in rapporto con le idee, cioè con la realtà soprasensibile, che con Rosmini potremmo chiamare l’essere ideale. E’ a questo livello che si colloca la grandezza umana, non tanto nel senso di una capacità intellettiva-cerebrale, ma piuttosto in quello di una collocazione ontologica che precede e rende possibile ogni espressione conoscitiva contingente. Quella platonico-euclidea si presenta come una conquista irreversibile, un punto di non ritorno contro cui si scaglieranno inutilmente tutte le teorie materialistiche sulla formazione e sulla costituzione dell’essere umano. E’ quanto si deve osservare ora riprendendo a percorrere il cammino antropologico della filosofia antica.

 

 

 

 

 

 

 

Aristotele: l’enigma dell’intelletto agente

La complessa ontologia aristotelica non rinnega sostanzialmente la grande scoperta platonica del soprasensibile, ma introduce in essa numerose modifiche che da una parte determinano e rafforzano la concezione del soprasensibile stesso, dall’altra lo privano di alcuni aspetti di grande valore che Platone aveva invece conquistato e sostenuto.

Aristotele anzitutto sostituisce all’idea platonica due diverse realtà: quella della forma (eidos) e quella del concetto universale o genere (genos). Quest’ultimo non ha una sua realtà ontologica indipendente dagli enti da cui viene ricavato: il concetto di ‘casa’, per esempio, non ha una sua realtà separata dalle case esistenti, ma è un nome comune con cui vengono denominate le case esistenti. La forma invece, che è l’essenza della cosa concreta esistente, può essere pensata separatamente come concetto, o può esistere separatamente nel caso delle pure forme immateriali (Dio e le intelligenze motrici delle sfere celesti).

La forma per Aristotele non è un universale, ma è sempre una realtà determinata: non esisterebbe questa casa se non esistesse questa forma di casa. Dunque ogni ente deve possedere necessariamente una forma. Trattandosi di esseri viventi questa forma deve essere vivente, cioè un’anima. E trattandosi di esseri razionali deve essere un’anima intelligente. L’essere poi nel suo livello eterno e immutabile non può essere altro che forma pura e intelligenza pura, cioè soprasensibile, non mescolata in alcun modo con la materia che è mutabile. Fatta dunque eccezione per gli esseri soprasensibili, tutti gli altri sono composti di materia e forma, cioè sinoli. L’essere per eccellenza rimane in sostanza la forma, cioè l’essenza immutabile ed eterna del singolo ente. Se dunque da una parte Aristotele ha negato l’esistenza delle idee trascendenti insegnate da Platone, dall’altra non ha potuto evitare di tornare in qualche modo ad esse attraverso la strada delle forme. Certo, lo stagirita nega che l’uomo possieda una conoscenza innata di queste essenze, e afferma che le può raggiungere solo attraverso la strada della conoscenza delle realtà sensibili: la capacità però di leggere il sensibile e di coglierne l’essenza o i concetti universali, richiede, come ha osservato acutamente Rosmini, che si ammetta nell’uomo un fattore soprasensibile a priori.

Su questo punto Aristotele ha oscillato tra un iniziale sensismo (cioè riduzione della conoscenza al dato dei sensi) e un successivo riconoscimento dell’elemento trascendente che si manifesta nella conoscenza umana. Egli arriva ad ammettere in più testi che l’essere in quanto tale è la prima cosa intesa dall’intelletto, il che significa riconoscere la presenza di un concetto universalissimo alla base di tutti gli altri concetti. Anzi, egli ha cercato di definire, sebbene ancora parzialmente, che cosa sia il fattore intelligente che si manifesta nell’uomo. Anche in questo caso ha mantenuto alcune rilevanti incertezze, ma non mancano nel suo sistema osservazioni di grande valore per il nostro percorso antropologico. Cerchiamo dunque di seguire il suo itinerario, partendo dalla celebre distinzione tra potenza ed atto. La realtà sensibile, cioè la materia, è potenza, cioè capacità o possibilità di ricevere pienamente la forma; la realtà soprasensibile, cioè la forma, è atto, cioè attuazione di quella capacità. Ciò significa che l’essere sul piano soprasensibile è perfetto e compiuto, mentre sul piano sensibile è in divenire ed è contingente.

In tal modo Aristotele arriva alla concezione di Dio come atto puro, come Principio primo, come causa finale che attrae tutte le cose, come vita perfetta e puro pensiero, eterno ed immobile (cioè non soggetto al divenire). Così la platonica Idea del Bene e dell’Uno, oggetto di dottrine non scritte, diventa nel pensiero aristotelico la realtà ben definita del Divino:

Ora, il pensiero che è pensiero per sé, ha come oggetto ciò che è di per sé più eccellente, e il pensiero che è tale in massimo grado ha per oggetto ciò che è eccellente in massimo grado. L’intelligenza pensa se stessa, cogliendosi come intelligibile: infatti, essa diventa intelligibile intuendo e pensando sé, cosicché intelligenza ed intelligibile coincidono. L’intelligenza è, infatti, ciò che è capace di cogliere l’intelligibile e la sostanza, ed è in atto quando li possiede. Pertanto, più ancora che quella capacità, è questo possesso ciò che di divino ha l’intelligenza; e l’attività contemplativa è ciò che c’è di più piacevole e di più eccellente. Se, dunque, in questa felice condizione in cui noi ci troviamo talvolta, Dio si trova perennemente, è meraviglioso; e se Egli si trova in una condizione superiore, è ancor più meraviglioso. E in questa condizione Egli effettivamente si trova. Ed Egli è anche Vita, perché l’attività dell’intelligenza è vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attività, che sussiste di per sé, è vita ottima ed eterna. Diciamo, infatti, che Dio è vivente, eterno ed ottimo; cosicché a Dio appartiene una vita perennemente continua ed eterna: questo è, dunque, Dio. (Metafisica, XII, 7)

1 Con queste parole Aristotele ha senza dubbio segnato uno dei vertici del pensiero filosofico di tutti i tempi. La connessione tra essere e intelligenza appare nella sua evidenza e conduce al riconoscimento luminoso dell’esistenza di Dio. La scoperta platonica del soprasensibile, pur ferita da alcuni passaggi aristotelici, viene in definitiva portata al suo livello supremo con l’affermazione di Dio come intelligenza assoluta. Aristotele tuttavia non riesce ad evitare la tentazione, tipica di tutta la storia delle filosofia, di togliere qualcosa a ciò che ha appena definito come assoluto; ciò infatti che non si sente di riconoscere all’intelligenza assoluta è la capacità di pensare il finito, anche l’uomo, condannandolo ad essere necessariamente ignorato da quell’essere ultimo e bene supremo che per sua natura dovrebbe essere l’intelligenza cui nulla sfugge:

[…] se esso [l’intelletto divino] non pensa nulla, in nulla verrebbe a risiedere la sua dignità ma esso si troverebbe nello stato di un uomo addormentato; se, invece, esso pensa ma pensa qualcosa che sia diversa da sé stesso, allora il suo pensiero viene a dipendere da qualche altra cosa […] E’ chiaro, quindi, che esso pensa la cosa più divina e veneranda, e che non muta mai il suo oggetto […]. Epperò l’Intelletto pensa sé stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è pensiero di pensiero. (Metafisica, XII, 9)

Quest’ultima irragionevole limitazione ha conseguenze gravi sul piano antropologico, perché chiude all’uomo la possibilità di realizzare ciò per cui è fatto, cioè il rapporto con l’infinito. Aristotele tuttavia, nonostante questa incongruenza che sarà superata solo dal cristianesimo, non solo fa sua la visione platonica dell’uomo come essere dotato di anima soprasensibile, ma tenta di entrare in questa realtà: non si limita cioè a constatare fenomenologicamente l’ineludibile esistenza di una realtà non-materiale nell’uomo, ma cerca di coglierne la caratteristiche ontologiche. Dopo aver rilevato l’esistenza nell’uomo di un anima vegetativa (che governa la generazione, la nutrizione e la crescita) e di una sensitiva (che governa le sensazioni, gli appetiti e il movimento), lo Stagirita si sofferma sulla terza, che è quella razionale: essa si dimostra in grado di cogliere le forme intelligibili, così come quella sensitiva è capace di cogliere le forme sensibili. Con ciò ribadisce la teoria platonica, senza però accettarne l’innatismo:

Quel che dunque, nell’anima, chiamiamo Nous (e intendo, con questo nome, ciò con cui l’anima pensa e opina) […] non è ragionevole che esso sia commisto col corpo […]. E hanno ragione quelli che dicono che l’anima è il luogo delle forme ideali: salvo che ciò non va detto di tutta l’anima, ma solo di quella pensante, e che le forme ideali non vi esistono in atto ma solo in potenza. Aristotele, L’anima, III, 4 (traduz. Di G.Calogero, in Stiria della logica antica, Roma-Bari 1967, p.2)

2 Dunque l’anima razionale non possiede le forme ideali come realtà in atto (innate dunque), ma solo in potenza. Ora, per spiegare l’attività di quest’anima razionale – cioè l’apprendimento cosciente delle forme intelligibili – si pone il problema di due potenzialità che devono essere attuate e connesse: da una parte infatti abbiamo l’intelligenza come capacità e quindi potenza di conoscere, dall’altra abbiamo le sensazioni e le immagini della fantasia in cui sono contenute in potenza le forme intelligibili da conoscere. Per esempio: se la mia intelligenza si trova di fronte all’immagine di un cavallo – che può venire dalla sensazione visiva immediata o da un ricordo della memoria – può arrivare a cogliere in quella immagine l’idea di cavallo, cioè una forma intelligibile, che va al di là della singola immagine da cui è stata ricavata; ora, se la mia intelligenza fosse solo una capacità ricettiva passiva, come potrebbe ricevere l’idea di cavallo da una immagine che la contiene solo in potenza? Occorre qualcosa che ricavi questa idea dall’immagine e la comunichi alla mia intelligenza:

E c’è dunque un intelletto potenziale in quanto diventa tutte le cose e c’è un intelletto agente in quanto tutte le produce, che è come uno stato simile alla luce: infatti anche la luce in un certo senso rende i colori in potenza colori in atto. E questo intelletto è separato, impassibile e non mescolato e intatto per sua essenza: infatti l’agente è sempre superiore al paziente e il principio è superiore alla materia […]. Separato, […] questo solo è immortale ed eterno […].

3 Dunque il singolo uomo è dotato solo di un intelletto potenziale o anche di un intelletto agente? Aristotele afferma che quest’ultimo è nell’anima per tutta la vita dell’uomo, pur provenendo dal di fuori ed essendo divino. Tuttavia non ha precisato se esso sia individuale, e come possa arrivare dal di fuori, e in quale rapporto sia con l’io. Queste incertezze del grande fondatore del Peripato hanno posto le premesse per l’accesa discussione medievale tra i filosofi arabi e l’Aquinate che si vedrà più avanti. Qui è importante considerare la conquista aristotelica del riconoscimento dell’esistenza nella persona umana di un principio attivo intelligente soprasensibile, senza il quale non si spiega la conoscenza umana dell’intelligibile, cioè delle idee o forme. Purtroppo lo Stagirita, pur essendo stato definito il migliore discepolo di Platone, non ha accettato del suo maestro quella parte della dottrina delle idee che permetteva di scoprirne il pieno valore ontologico, vale a dire il fatto che le idee sono enti eterni, immutabili, infiniti, irriducibili al piano materiale dell’essere. Questa imponente e invincibile intuizione del filosofo dei dialoghi dovrà attendere alcuni secoli prima che il vescovo della cittadina africana di Ippona la riproponga nella sua solare evidenza e nel suo fondamentale valore metafisico.

Platone: la scoperta del soprasensibile

Platone è lo scopritore della teoria delle idee, cioè di una fondamentale verità ontologica che è al contempo anche una fondamentale verità gnoseologica, vale a dire antropologica.

L’esistenza delle idee, infatti, con tutte le loro caratteristiche, indica e dimostra l’esistenza della realtà soprasensibile, e allo stesso tempo mostra la natura soprasensibile del soggetto umano che le conosce. L’uomo cioè, per il fatto di conoscere e possedere delle idee, manifesta la sua irriducibilità al dato finito e meccanico. Non a caso Platone associa alla teoria delle idee quella dell’immortalità dell’anima.

Le idee esprimono l’essenza stabile delle cose, immutabile rispetto alla mutabilità delle singole realizzazioni (l’idea di cavallo è immutabile, nonostante che i singoli cavalli muoiano e vengano rimpiazzati da altri): […] è evidente che le cose in se stesse hanno una propria essenza stabile, non sono per rapporto con noi, né sono trascinate da noi in su e in giù con la nostra immaginazione, bensì sono per se stesse in rapporto con la loro essenza, come sono per natura . […] c’è di ciascuna cosa un genere e una essenza in sé e per sé Dunque la realtà si pone su due piani diversi: uno immutabile ed eterno, colto dall’intelletto; l’altro mutabile e transitorio, colto con i sensi: […] vi è una forma di realtà che è sempre allo stesso modo, ingenerata ed imperitura, che non accoglie dal di fuori altra cosa, né essa passa mai in altra cosa, e non è visibile né percepibile con altro senso. Ed è questo, appunto, che all’intelligenza toccò in sorte di contemplare. E bisogna ammettere che di nome uguale e ad essa somigliante vi è una seconda forma di realtà che è sensibile, generata in continuo movimento, che nasce in un qualche luogo e nuovamente di là perisce. E questa si comprende con l’opinione che si accompagna alla sensazione.

In questo importante passo del Fedone, che riprende le cose sopra esposte, Platone applica la teoria ontologica delle idee – cioè della realtà soprasensibile “ingenerata e imperitura”, “non visibile”, assoluta, in sé e per sé, vale a dire ciò che è “puro, eterno, immortale, immutabile” – all’uomo.

Quest’ultimo infatti possiede l’intelligenza che gli permette di cogliere questa realtà soprasensibile e invisibile, oltre alla corporeità che gli permette di percepire ciò che è mutevole, visibile, sensibile. Dunque l’intelligenza non è riducibile alla corporeità, ma si ricollega ad una realtà diversa che caratterizza l’uomo, cioè l’anima.

Mentre la sensibilità è affine a ciò che è corporeo, l’intelligenza è affine a ciò che è soprasensibile, cioè a ciò che ha le caratteristiche del ‘divino’: ” La realtà in sé, quella realtà del cui essere noi diamo conto formulando domande e dando risposte, si trova sempre nelle medesime condizioni, o a volte in un modo e a volte in un altro? L’uguale in sé, il bello in sé e ciascun’altra cosa che è in sé, insomma il puro essere, può mai subire in sé mutazione alcuna, di qualsiasi genere essa sia? Oppure ciascuna di queste cose che è in sé, essendo e uniforme ed in sé e per sé, si trova sempre nella medesima condizione e non può subire mai, per nessuna ragione e in nessun modo, alcuna alterazione?

“E’ necessario, o Socrate, che rimanga sempre nella medesima condizione ” rispose Cebete.

” E che diremo delle molte cose belle, come ad esempio uomini, vestimenti, e di tutte le altre cose di questo genere, che designamo come “belle” o come ” uguali”, e di tutte le altre cose che designamo con lo stesso nome che hanno le cose in sé? Permangono sempre nella medesima condizione, o, proprio al contrario delle cose in se, non sono mai identiche né rispetto a se medesime né rispetto alle altre e, in una parola, non sono mai in alcun modo nelle medesime condizioni? ‘”.

“E’ proprio così ” disse Cebete. ” Non permangono mai nelle medesime condizioni “. “E non è forse vero che, mentre queste cose mutevoli tu le puoi vedere o toccare o percepire con gli altri sensi corporei, quelle, invece, che permangono sempre identiche non c’è altro mezzo con cui si possano cogliere, se non col puro raziocinio e con la mente, perché queste cose sono invisibili e non si possono cogliere con la vista ? ”

” Verissimo ” rispose ” è quello che dici “. ” Poniamo dunque, se vuoi, ” egli soggiunse ” due specie di esseri: una visibile e l’altra invisibile”

” Poniamole ” rispose.

” E che l’invisibile permanga sempre nella medesima condizione e che il visibile non permanga mai nella medesima condizione “.

” Poniamo anche questo ” disse.

” Ebbene, che altro c’è in noi ” riprese Socrate ” se non, da un lato, il corpo e, dall’altro, l’anima?

” Non c’è altro” disse.

” E il corpo a quale delle due specie di cose diremo che è più simile e più affine? “.

” E’ chiaro a tutti che è più simile e più affine alla specie visibile “.

” E l’anima è visibile o è invisibile? “.

” Agli uomini, almeno, o Socrate, non è visibile” disse.

” Ma noi non stiamo ora parlando di cose visibili o invisibili alla natura umana? O tu pensi a qualche altra natura? “.

” Sì, alla natura umana”. ” Che cosa diciamo, dunque, dell’anima? Che è visibile o che non è visibile?”. ” Che non è visibile”.

” Allora è invisibile “. ” Si”.

” Dunque, l’anima è più simile all’invisibile che non il corpo; questo, invece, è più simile al visibile “.

” Di necessità, o Socrate “.

“E non dicevamo poco fa anche questo: che, cioè, quando l’anima si avvale del suo corpo per fare qualche indagine, servendosi della vista o dell’udito o di altra percezione sensoriale (infatti far ricerca per mezzo del corpo significa far ricerca per mezzo dei sensi), allora essa è tratta dal corpo verso le cose che non permangono mai identiche ed erra e si confonde e barcolla come ubriaca, perché tali sono appunto le cose cui si attacca? ”

” Certamente “.

” Ma quando l’anima, restando in sè sola e per sè sola, svolge la sua ricerca, allora si eleva a ciò che è puro, eterno, immortale, immutabile, e, avendo natura affine a quello, rimane sempre con quello, ogni volta che le riesca essere in sè e per sè sola; e, allora, cessa di errare e in relazione a quelle cose rimane sempre nella medesima condizione, perché immutabili sono quelle cose alle quali si attacca. E questo stato dell’anima si chiama intelligenza” .

“Perfetto !” disse.

“Ciò che tu dici è bello e vero, o Socrate “.

” Orbene, in base alle cose dette prima e a quelle che abbiamo dette ora, a quale delle due specie a te pare che l’anima assomigli di più? “. “A me pare, o Socrate, che chiunque, anche il più duro di mente, debba ammettere, messo così sulla strada, che l’anima, sotto ogni rispetto, è più simile a ciò che è immutabile che non a ciò che non è immutabile”.

” E il corpo? “. ” All’altro” . ” Considera ora la questione anche da quest’altro punto di vista. Quando anima e corpo sono uniti insieme, la natura impone al corpo di servire e di lasciarsi governare e all’anima di dominare e di governare. Orbene, anche per questo rispetto, quale dei due ti pare simile a ciò che è divino e quale a ciò che è mortale? O non ti pare che ciò che è divino debba governare e comandare, e ciò che è mortale debba essere governato e servire?”.

“A me pare”. ” Dunque l’anima a quale dei due assomiglia? ”

“E’ chiaro, o Socrate, che l’anima assomiglia a ciò che è divino e che il corpo assomiglia a, ciò che è mortale ” . ” E ora osserva, o Cebete, se dalle cose che abbiamo dette non consegue che l’anima sia in sommo grado simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme, indissolubile, sempre identico a se medesimo, mentre il corpo è in sommo grado simile a ciò che è umano, mortale, multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai identico a se medesimo. Abbiamo qualcosa da dire contro queste conclusioni, o Cebete? O non è così? “. “No, non abbiamo nulla da dire”.

 

L’anima dunque “è la dimensione intelligibile, metempirica, incorruttibile dell’uomo” .

Ciò comporta la sua immortalità, in quanto distinta radicalmente da ciò che è corporeo e quindi mortale. Oltre alla prova già contenuta nella citazione precedente, Platone aggiunge anche quest’altra nel Fedro: Ma, poiché si è dimostrato che è immortale ciò che si muove da sé, nessuno proverà vergogna nell’affermare che appunto questa è l’essenza e la definizione dell’anima. Infatti, ogni corpo a cui l’essere in movimento proviene dall’esterno, è inanimato; invece, quello a cui proviene dal suo interno e da se stesso è animato, perché la natura dell’anima è appunto questa. Ma se è cosi, ossia se ciò che muove se stesso non può essere altro se non l’anima, allora, di necessità, l’anima dovrà essere ingenerata e altresì immortale.

Anche le cosiddette “dottrine non scritte” di Platone, che costituiscono il vertice della sua ontologia, indicano la grandezza del soggetto uomo, che si scopre in relazione con l’essere ultimo e assoluto. Tali dottrine non scritte cercano di portare a compimento il discorso ontologico sviluppato con la teoria delle idee.

Queste ultime, per quanto pressoché divine, non possono infatti costituire il livello ultimo dell’essere, in quanto sono molteplici e non possono quindi rappresentare quel principio unitario cui tutto l’essere rimanda: anche le idee in definitiva fanno parte dell’essere, che è una realtà insieme unica e molteplice. L’essere è ultimamente l’Uno. Nello stesso tempo questo Uno è il Bene. E’ questo il fondo, l’orizzonte, la fonte di tutto l’essere. La cosa straordinaria è che l’uomo, con l’atto più serio della sua razionalità, lo intuisce: […] l’idea del bene è il limite estremo del mondo intellegibile e si discerne a fatica, ma quando la si è vista bisogna dedurre che essa è per tutti causa di tutto ciò che è giusto e bello: nel mondo visibile ha generato la luce e il suo signore, in quello intelligibile essa stessa, da sovrana, elargisce verità e intelletto, e chi vuole avere una condotta saggia sia in privato sia in pubblico deve contemplare questa idea».

Il Bene stesso comunica la conoscenza di lui, cioè la verità, rimanendo egli superiore a tale conoscenza; la conoscenza comunque di questa realtà superiore è la qualità più alta dell’uomo e lo rende un soggetto eccelso:

Ora, questo elemento che agli oggetti conosciuti conferisce la verità e a chi conosce la facoltà di conoscere, di’ pure che è l’Idea del Bene; e devi pensarla causa della scienza e della verità, in quanto conosciute. Ma per belle che siano ambedue, conoscenza e verità, avrai ragione se riterrai che diverso e ancora più bello di loro sia quell’elemento. E come in quell’altro àmbito è giusto giudicare simili al sole la luce e la vista, ma non ritenerle il sole, così anche in questo è giusto giudicare simili al Bene ambedue questi valori, la scienza e la verità, ma non ritenere il Bene l’una o l’altra delle due. La condizione del Bene dev’essere tenuta in pregio ancora maggiore. […] anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal Bene la proprietà dì essere conosciuti, ma ne ottengono ancora l’essere e la sostanza, anche se il Bene non è sostanza, ma qualcosa che per dignità è potenza trascende la sostanza.

Se dunque già la teoria delle idee mostrava la trascendenza dell’uomo, tanto più la consapevolezza del livello ultimo dell’essere, cioè dell’Uno-Bene, suggella questa trascendenza come un fatto imponente e ineludibile.

La metafisica platonica costringe a prendere atto del mistero uomo, un essere che si colloca sia nella dimensione sensibile che in quella soprasensibile.