PERLE PREZIOSE


Nelle ultime vacanze al mare ha destato in me una forte emozione l’ascolto di alcune perle, non solo letterarie, di Andrej Sinjavskij. Dal loro significativo contenuto ho potuto rendermi conto di quanto sia grave per la nostra società la perdita, la dimenticanza o addirittura il disprezzo per questi scritti, scritti che danno risalto alla Parola che salva, illumina e dà senso alla nostra vita e alla nostra morte. Questi scritti, per la loro vicinanza a ciò che di meglio ha espresso la cultura occidentale, ci fanno capire quanto avesse ragione Giovanni Paolo II quando diceva che l’Europa dovrebbe respirare coi suoi due polmoni, mentre continua a prevalere uno spirito di contrapposizione, questa volta da ovest, che è distruttivo e suicida!



Oggi, senza quella Parola, siamo di fronte alla CORRUZIONE DELLA PAROLA. Una parola che diventa portavoce di un inganno universale. Una parola che, invece di edificare, decostruisce; invece che chiarire, confonde e riempie di sgomento.

Perché abbiamo gettato alle ortiche una tale eredità? Mentre i monaci benedettini durante le invasioni barbariche trascrivevano e conservavano le perle letterarie e filosofiche degli antichi, le nuove ideologie progressiste, libertarie e libertine, amano bruciare – non solo metaforicamente -, queste opere. Senza questo alimento, però, muore e incenerisce una civiltà! Fa impressione leggere questi pensieri in un tempo che potrebbe farci precipitare nell’inferno liberticida dell’ex Unione Sovietica o della Germania nazista.

Per dare lustro a questo grande scrittore e filosofo russo, trascrivo alcune delle sue perle,

Claudio Forti

Grazie Claudio per l’interessante riflessione. Continuerò il lavoro di amanuense! fra Roberto Brunelli

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Buon giorno a tutti gli ascoltatori di Radio Maria!

Questo è un programma che tratta di perle preziose: una lettura di testi scelti di letteratura e di spiritualità cristiana. E io sono fra Roberto, un frate francescano che cerca di raccoglierle e di offrirvele. Ed ecco la prima, veramente incantevole.

«Non molto tempo dopo il mio arrivo nel lager, verso sera, un’ora prima della ritirata mi si avvicinò un tale e mi chiese con cautela se non volessi ascoltare l’Apocalisse. Mi condusse nel locale della caldaia dov’era più facile nascondersi a delatori e carcerieri. Lì, nella penombra di quel covile, simile a una caverna, si erano già raccolte e si rimpiattavano negli angoli, sedendo sui talloni, alcune persone. E io pensai che qualcuno avrebbe astratto da sotto il giubbotto il libro o il fascio di fogli, ma mi sbagliavo. Illuminato dai bagliori rossastri della caldaia, un uomo si alzò e cominciò a recitare a memoria parola per parola l’Apocalisse. Quindi il fuochista disse: “E adesso continua tu Fiodor!”. Fiodor si alzò e recitò a memoria il capitolo successivo. (Il significato russo del nome Fiodor è dono di Dio. Ndt.) Poi ci fu un salto nel testo, perché colui che sapeva la continuazione era a lavorare con il turno di notte. – Beh, lo sentiremo un’altra volta – disse il fuochista, e dette la parola a Piotr.

A quel punto mi resi conto che quei detenuti, tutti semplici contadini che avevano da scontare di 10 a 15, 20 anni di lager, si erano suddivisi tutti i principali testi della Sacra Scrittura; li avevano imparati a memoria, e incontrandosi segretamente di tanto in tanto li ripetevano per non dimenticarli. Tutta questa strana scena mi ricordò allora un romanzo dell’americano Bredbury: Fahrenheit 451. Il grado 451 è nella scala fahrenheit la temperatura alla quale prende fuoco la carta. E nel romanzo viene rappresentato appunto un futuro stato perfetto in cui ogni cosa è regolata dall’alto e i libri e la carta sono proibiti.

Quando nel corso di una perquisizione vengono scoperti dei libri, essi e le persone che li detengono vengono consegnati al fuoco. Alla fine del romanzo si narra che in certi luoghi fuori città, notte tempo, convengono in grotte e boschi, degli uomini, e uno dice: “Io sono Shakespeare”, e l’altro: “Io sono Dante”, o qualcosa del genere. E questo significa che il primo ricorda a memoria e declama qualcosa di Shakespeare, l’altro di Goethe, il terzo, di Dante.

I contadini del locale della caldaia avrebbero potuto dire di sé stessi la medesima cosa. L’uno: “Io sono l’Apocalisse, capitolo 22”; l’altro. “e io il Vangelo secondo Matteo, capitolo 3”. E così via, in una staffetta scandita da ciò che ognuno serbava nella memoria. E questo era cultura, nella sua successione, nella sua essenza primitiva, nella sua sopravvivenza clandestina, sostenuta da una catena della memoria, di bocca in bocca, di mano in mano, da una generazione all’altra, da un lager all’altro! Ma non di meno cultura! E in una delle sue manifestazioni più pure ed elevate. E se non ci fossero al mondo simili uomini e la loro tenace staffetta, la vita dell’uomo sulla terra perderebbe il suo significato».

Questo finale del libro di una testimonianza di Sinjavskij, come poi vedremo, ricorda un altro brano de I demoni di Dostoevskij, dove l’autore fa gridare a Stefan Trofimovic; «Io dichiaro che Shakespeare  e Raffaello stanno più in alto della liberazione dei contadini; più in alto dello spirito popolare; più in alto del socialismo; più in alto della giovane generazione; più in alto della chimica; quasi più in alto dell’umanità intera, giacché sono il frutto, il vero frutto di tutta l’umanità. E forse il frutto più alto che vi possa essere. È già stata conseguita la forma di bellezza senza il cui conseguimento forse non acconsentirei nemmeno a vivere!

Uomini piccini, cosa vi occorre per capire? Ma sapete voi, sapete voi che senza l’inglese l’umanità può ancora vivere! Può vivere senza la Germania; può vivere anche troppo facilmente senza i russi; può vivere senza la scienza; può vivere senza pane, ma soltanto senza la Bellezza non potrebbe vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo! Tutto il segreto è qui. Tutta la storia è qui!

E qui finisce Dostoevskij. Ma ora ritorniamo al brano di prima, di Sinjavskij. Una testimonianza vera! Non è la pagina di un romanzo, perché Sinjavskij è stato detenuto 7 anni in un gulag. E ha raccontato questo episodio, questa staffetta biblica, questa conservazione della Parola di Dio, che dava senso al buio della prigione di questi uomini. L’ha raccontata in una conferenza tenuta a Brescia nel 1977.

Andrej Sinjavskij è scrittore e critico letterario russo. Nasce a Mosca nel 1925. Pubblicò all’estero con lo pseudonimo di Amra Terk scritti contrari all’etica di regime, fra cui l’articolo programmatico “Che cos’è il realismo socialista”. Poi alcuni racconti di impianto fantastico, e una sorta di diario informale, chiamato Pensieri improvvisi. Pubblicato la prima volta nel 1966 e poi tradotto prestissimo in Italiano nel 67 dalla Iaka Book. Fu arrestato e condannato in un celebre processo nel 1966 con l’amico Marcovich Daniel, anch’egli colpevole di aver pubblicato in Occidente.

Liberato nel 1971, Sinjavskij emigrò nel 1973 a Parigi dove insegnò letteratura russa alla Sorbona. Dal 1979 pubblicò la rivista Syntacsis, portavoce di una vivace dissidenza estetica, più che politica. È morto a Parigi nel 1997. E già scriveva padre Domenico Mondrone nella rivista La Civiltà cattolica, nel 1967: “Non sapremmo staccarci da Sinjavskij senza dire qualche parola su un suo piccolo libro: Pensieri improvvisi, di recente edizione italiana. Sinjavskij, pur prigioniero, è ormai un uomo interiormente libero. E questa libertà lo ha fatto incontrare con Dio. «La voce di Dio – dice – risuonava nel deserto, nel silenzio. Abbiamo moltiplicato il rumore; abbiamo riempito tutto di noi stessi, dopodiché ci meravigliamo che il Signore non si manifestiEbbene, nel silenzio del confine siberiano egli ha avvertito la presenza di Dio e dalla sua anima è uscito un grido che lo definisce. «Smettiamola di insistere sull’uomo! È l’ora di pensare a Dio! Bisogna credere per la semplice ragione che Dio esiste! Signore, fatti conoscere. I pensieri intorno a Dio sono inesauribili e grandi come il mare! Signore, è meglio errare nel tuo nome, che dimenticarti!».

Krugovoj ci assicura che il Dio di Sinjavskij non è il dio astratto dei matematici e dei filosofi, cui ricorrono certi intellettuali, specialmente dell’Occidente, ma il Dio vivente e concreto, del Vecchio e del nuovo Testamento! Come il Dio di Pasternak. E ora leggiamo un brano da Pensieri improvvisi. Ecco Sinjavskij che racconta. «Stavo nel ristorante e mi guardavo intorno. Era giorno. I pochi avventori sembravano gente provvisoria, di provincia, o gente venuta per mangiare in un locale di lusso una volta nella vita. Capitato per caso, mi interessavano gli individui che erano lì altrettanto per caso. Lo sguardo mi andò sulla ragazza sempliciotta che, coi capelli fini fini, arricciati, la bocca enorme, spalancata, rideva forte mostrando grossi denti. Sbronza per l’effetto insolito del vino dolce. La guardai pensando che era mostruosa, e fui turbato da questo mostro soddisfatto di sé, che non si vedeva. Mi sembrò che non avesse il diritto né di sedere a quel tavolo, né addirittura di esistere. Non si vergognava di essere tanto ripugnante? E come poteva ridere, ripugnante com’era? All’improvviso mi colpì una riflessione; mi colpì tanto che continuo a pensarci su sebbene sia quasi l’ora di dimenticarmene. Pensai: che diritto hai tu di giudicarla, quando Dio stesso la sopporta, quando a tutti noi, brutti ed abbietti, Egli permette di esistere? Eccoci qui seduti, mentre noi ci disprezziamo pronti ad estirparci dalla faccia della terra, Lui che vede certamente tutta la nostra bruttura, ci lascia vivere pur potendo in un batter d’occhi stroncare la nostra sfrontata esistenza piena di millanteria! Chi ti autorizza a non ammettere un simile aborto, se l’ammette Lui, che è perfetto al di là di ogni misura? La coscienza della mia ingiustizia così evidente di fronte al Suo volere, mi portò a un improvviso buon umore. Mi feci beffe di me. Sebbene fossi scosso da un riso interno, mantenevo un contegno, visto che non ero solo nel ristorante: mi trovavo in compagnia di amici, ma in fondo all’anima mi dovevo frenare per non sbellicarmi, quasi avessi su di me uno sguardo affettuoso, accondiscendente. Adocchiando di tanto in tanto la ragazza che continuava ad essere la stessa, mi divertii come non mi capitava da un pezzo. Ma la mia allegria non conosceva più malignità, ed era piena di gratitudine verso il pensiero che mi aveva rivelato tutto questo, e che a sua volta rideva di me e di tutti noi con un sorriso buono, luminoso. E mi pare tuttora che in questo momento il Signore mi benedicesse per questo suo riso».

Ecco, anche padre Mandrone, gesuita della Civiltà cattolica, sceglie questo brano, e commenta: «Qui siamo al midollo del Vangelo. Anche in Sinjaskij sono evidenti i sintomi di un fenomeno che si va facendo strada tra i moderni sovietici: il bisogno di Dio, il cui nome torna in onore sotto la loro penna. E l’attesa, dopo tanta iconoclastia, della riscoperta di Cristo, soprattutto attraverso il significante mistero della sua Risurrezione.

E a proposito di Risurrezione, scelgo qui un piccolo aforisma di Sinjavskij, che dice: «Bisognerebbe saper morire gridando, o bisbigliando di fronte alla morte: “Urrà! Ci salva!». Ecco un pensiero veloce, ma profondo. Questa fede in un altro mondo verso cui salpiamo al momento della nostra morte. Continuiamo con qualche pensiero improvviso. Scrive Sinjavskij: «Accumulare denaro, accumulare cognizioni ed esperienze, accumulare letture di libri; collezionisti, re della numismatica, ricchi della carta da caramelle; accumulare glorie; ancora una poesia, ancora una parte; elenchi di donne, provviste di ammiratori, tacche sul calcio del fucile; accumulare sofferenze: Quanto ho patito, quanto ho sofferto…”; viaggi, seguendo luminose sensazioni; scoperte, conquiste, aumento dell’economia. Chi ha accumulato di più p ritenuto più illustre, più colto, più intelligente e più popolare. E in mezzo a tutto questo generale accumulare, BEATI I POVERI DI SPIRITO!».

Allora, questo brano ci fa capire che questo nostro accumulare è senza significato senza la povertà di spirito. E ora un altro suo pensiero: «L’attuale cristianesimo pecca di buona educazione: si preoccupa soltanto di non sporcarsi, di non mostrarsi indelicato; teme il fango, la grossolanità, la franchezza, preferendo una meticolosa mediocrità a tutto il resto. Hanno confuso la Chiesa del Cristo con un educandato per signorine per bene. Insomma, tutto quello che è vivo e brillante è passato in mano al vizio. Alla virtù non resta che sospirare e spremere una lacrimuccia. Essa ha dimenticato gli infuocati richiami della Bibbia. Invece il cristianesimo dev’essere audace, e chiamare le cose col loro nome! È giunta l’ora di rinunciare agli angioletti inghirlandati, perché diventino angeli più forti ed esigenti degli areoplani. Areoplani, non già per scimmiottare il mondo contemporaneo, BENSÌ PER SUPERARLO! Di questo passo si può cadere nell’eresia, ma l’eresia è meno pericolosa di quanto non sia L’ESSICCARSI DELLA RADICE! Signore, meglio errare nel tuo nome che dimenticarti! Meglio peccare per te che scordarti! Meglio perire che scomparire dalla tua presenza!»

Un altro pensiero: «Che piacere ti fa l’uomo quando per strada ti dice: “per favore?”, oppure: “Grazie!”, e lo dice con tanta grazia, come se ti augurasse la salvezza dell’anima. Solo su questo calore umano si regge il mondo!».

Allora Sinjavskij è anche un osservatore di piccole cose, ma di piccole grandi cose come sono appunto il ringraziamento che, come dice Chesterton, “è segno di intelligenza”. Questo brano invece è tratto da “Buona notte”, e racconta l’angoscia dei prigionieri, dei detenuti politici sotto il comunismo, quando cercano di tirar fuori dalla loro bocca nomi di presunti collaboratori: «Quando ti portano all’interrogatorio preghi la Vergine: “Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te…”. Mi sono chiesto spesso comepercorrendo quei corridoi, perché quelle preghiere che sgorgano silenziose e imprevedibili dalle nostre anime siano invariabilmente rivolte alla Santa Vergine. E non perché chiedi qualcosa. Beh, si, naturalmente chiedi che sia per te una sventura più sopportabile. Fuori dalla prigione ti sono rimaste due o tre persone che ti sono rimaste sempre vicine. Negli interrogatori quei diavoli puntano proprio a loro. Da due sei forse riuscito a stornare l’attenzione… “Tu sei benedetta tra le donne e benedetto il Frutto del ventre tuo!”. Proteggi, Signore, chi resta! Tu che hai partorito il Signore delle nostre anime, Tu, Madre di Dio, resta testimone per tutti noi, e avvocato in Cielo!”. Va già meglio, perché pensi che se le cose stanno così vuol dire che noi peccatori non s’è patito tanto su questa terra, per niente».

Sono racconti di esperienze di vita difficilissime. E adesso l’ultimo brano, con cui finiamo questa prima parte con Sinjavskij. «Un tempo l’uomo, nella sua cerchia familiare, era legato alla vita universale, storica e cosmica, in un modo assai più saldo di oggi. Pur avendo a disposizione giornali, musei, radio, televisioni, comunicazioni aeree, noi avvertivamo appena questo fondo comune. Non ne siamo molto compenetrati. Ci pensiamo poco. Con stivaletti di fabbricazione cecoslovacca, sigaretta messicana tra i denti, l’uomo di oggi scorre l’apparizione di un nuovo stato in Africa con la stessa facilità con cui assaggia un brodo di carne francese. Tutto questo contatto esteriore fittizio reca un carattere di informazione casuale, cucita. Nell’orto c’è un sorbo, mentre a Kiev c’è un tizio che si incarica della nostra educazione. Che a Kiev ci sia un uomo simile lo veniamo a sapere parecchie volte al giorno senza attribuire a un fatto del genere un particolare significato. (Anche noi sappiamo che a Roma, a Parigi, a Washington, eccetera, ci sono dei tizi. Ndt).  La quantità delle nostre nozioni e informazioni è enorme. Ne siamo sovraccarichi, senza che esse ci cambino qualitativamente. In pochi giorni possiamo fare il giro del pianeta; prendere un aereo e viaggiare, ma SENZA un vero PROFITTO SPIRITUALE, allarghiamo soltanto il nostro raggio informativo.

Confrontiamo adesso questi preteso orizzonti con lo stile di vita dell’antico contadino, che non si spingeva mai al di là del suo praticello e camminava tutta una vita nelle tradizionali ciabatte fatte a casa. Il suo orizzonte a noi pare ristretto, ma in verità quant’era grande questa serrata compagine concentrata in un solo villaggio. Persino il monotono rituale del pasto, in confronto col brodo francese o il rum di Jamaica, faceva parte di una cerchia di nozioni dal significato universale. Osservando il digiuno e le feste, l’uomo viveva secondo il calendario di una storia comune che cominciava da Abramo e finiva col giudizio universale. Per questo, tra l’altro, un qualsiasi proletario semianalfabeta poteva qualche volta filosofare non peggio di Tolstoj e innalzarsi al livello di Plotino, senza aver sottomano alcun testo, fuorché la Bibbia. Il contadino manteneva un legame permanente con l’immensa creazione del mondo, e sospirava nelle profondità del pianeta accanto ad Abramo.

Invece noi, scorso il giornale, moriamo solitari sul nostro divano angusto e superfluo. E in quel momento nessuna informazione ci serve! L’informazione diventa per noi come un paio di braghe di panno estero: un motivo per metterci in mostra e basta. Dove va a finire tutto il nostro orizzonte, tutta la nostra capacitò ricettiva? Quando ci togliamo i calzoni e ce li sfilano di dosso, oppure quando portiamo il cucchiaio alla bocca: prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava a farsi il segno della croce. E con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro».

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