Il femminile in armi

Dalla vicenda delle donne brigatiste alla missione del genio femminile

Il primo aspetto che emerge, dopo aver conosciuto la vita vissuta dalle brigatiste Margherita Cagol, Barbara Balzerani, Anna Laura Braghetti e Adriana Faranda, è l’apparente contrasto tra il periodo prima delle Brigate Rosse e quello della vera e propria lotta armata. Risulta difficile capire quale sia stato il passaggio che abbia condotto delle brave ragazze a diventare donne spietate e sanguinarie. La sola motivazione politica non sembra essere sufficiente – peraltro riconosciuta loro a fatica da parte dell’immaginario collettivo – per spiegare un così radicale e assoluto cambiamento.

Barbara Balzerani nasce a Colleferro nel 1949, in una povera famiglia operaia, con pochi giocattoli e pochi stimoli culturali. Una vita di sacrifici, vissuta “in mezzo ai veleni delle ciminiere[1], con una mamma totalmente assorbita dal pesante lavoro di fabbrica, sempre troppo stanca per dispensare affetto e carezze alla propria bambina. Una studentessa, Barbara, che quando arriva a Roma per studiare e laurearsi non ha ancora vent’anni.

Adriana Faranda è “la testarda ragazza siciliana, che aveva amato l’arte, la musica, la trasgressione, la libertà e il rispetto per gli individui[2], un’aristocratica e madre di una figlia di nome Alexandra.

Anna Laura Braghetti è un’impiegata “truccata, ben vestita, profumata[3], inserita in una normale quotidianità fatta di lavoro in ufficio e chiacchierate al telefono con le zie.

Margherita Cagol, trentina di buona famiglia, nasce nel 1945. Trascorre i primi anni serenamente come quelli successivi dell’adolescenza, caratterizzati dall’assenza di inquietudini e ribellioni. Margherita è una ragazza attiva e piena di interessi: ama le camminate in montagna, sciare e giocare a tennis. A quattordici anni impara da sola a suonare la chitarra dimostrando da subito un notevole talento che esprimerà nei numerosi concerti di chitarra classica a cui partecipa con successo. Dopo essersi diplomata in ragioneria si iscrive alla facoltà di sociologia dell’Università di Trento. La scelta non viene fatta per una qualche particolare vocazione, ma solo perché l’università si trova vicino a casa. L’impegno nello studio la porterà a laurearsi, nel 1969, con il massimo dei voti e poi a vincere una borsa di studio per frequentare un corso di sociologia in un istituto di ricerca.

Una vita lineare e senza sbavature, caratterizzata anche da una forte fede cattolica espressa, piuttosto che come “adesione ai dogmi[4], attraverso l’amore per gli ultimi e il desiderio di lottare contro le ingiustizie per costruire un mondo migliore. Le domeniche a messa e i pomeriggi a fare volontariato con gli anziani negli ospizi di Trento.

Quattro donne, una aristocratica madre, un’impiegata e due studentesse di estrazione sociale opposta. Quattro mondi, quattro vite completamente diverse, ma dirette verso lo stesso approdo: il terrorismo armato nelle Brigate Rosse.

Si insiste sull’aspetto di normalità e tranquillità di queste donne prima della scelta della militanza, la scelta senza ritorno. Le brigatiste? Sono state tutte un tempo brave ragazze, figlie affezionate, studiose, timide, generose. Poi improvvisamente e senza alcun motivo apparente, ecco arrivare la svolta. La brava fanciulla con sani principi non si riconosce più. Sfuggente, misteriosa, insomma trasformata ha scelto la via della guerriglia[5]. In realtà, se si analizza il periodo storico di quegli anni e, in particolare, le radici storico-politiche delle Brigate Rosse, il percorso delle quattro donne non appare più così imprevedibile e inspiegabile, ma ne emerge una lineare coerenza tra la vita di prima e quella seguente. La stessa svolta della cattolica Margherita Cagol, che dalla messa e dal volontariato passa ad impugnare le armi nella lotta armata, non appare, alla fine, così incomprensibile e assurda.

Le radici religiose delle Brigate rosse

Il movimento delle Brigate Rosse, che prende forma in Italia nel 1970, ha le sue radici nella corrente marxista-leninista e, come tale, pur essendo la matrice dichiaratamente atea, nella pratica ripropone anch’essa la religiosità immanente e totalitaria che le è propria.

Infatti, come spiega il prof. Francesco Agnoli (Perché non possiamo essere atei. Il fallimento dell’ideologia che ha rifiutato Dio, Piemme, 2009), se si analizzano le grandi ideologie atee del Novecento (comunismo, fascismo, e nazionalsocialismo) si vedrà che, mentre da un lato negano l’esistenza di Dio e si adoperano per la costruzione di una società senza e contro Dio, dall’altro lato si presentano esse stesse sotto forma di una sorta di religione, di un atto di fede: lo Stato e la politica prendono il posto di Dio, facendosi essi stessi dio, i quali si sentono investiti del compito di costruire “un mondo razzialmente puro, economicamente giusto, eugeneticamente sano, socialmente equilibrato… un mondo perfetto, divino, utopico, paradisiaco”.

Comunismo, fascismo, e nazionalsocialismo hanno quindi in comune i medesimi dogmi: la realizzazione del paradiso in terra, la giustizia sociale e la creazione di un “uomo nuovo”, tuttavia, per ciò che concerne l’aspetto religioso, il comunismo ha qualcosa in più: quella comunista è l’ideologia che più di tutte assomiglia alla religione cristiana, presentandosi come una caricatura del cristianesimo. Rispetto al nazionalsocialismo (con le sue componenti nazionaliste, razziste ed eugenetiche) – spiega Agnoli – il comunismo appare infatti più universale, più accogliente, meno discriminatorio, ha un volto più attraente: la lotta dei poveri contro i padroni, dei deboli contro i forti, “tanto da affascinare anche tanti cattolici secolarizzati, soprattutto dopo gli anni del Concilio Vaticano II”. Il russo Berdjaev – spiega Agnoli – lo definì come una “caricatura dell’universalismo cristiano e della Chiesa cattolica”. Una caricatura, appunto, perché la violenza e la lotta di classe restano una necessità e tutti coloro che si oppongono o non si adeguano, vengono discriminati o spediti nei gulag o uccisi.

Come ha giustamente scritto Lowith – osserva Agnoli – il marxismo ateo che influenzò tutti e tre i totalitarismi, seppur con gradazioni diverse, rappresenta una “forma secolarizzata del pensiero biblico” in cui la lotta finale tra Cristo e l’Anticristo del cristianesimo, diviene nel marxismo la lotta finale tra borghesia e proletariato; alla missione storica del popolo eletto corrisponde la missione delle masse proletarie; la funzione redentrice universale della classe più degradata del marxismo è concepita sul modello religioso della Croce e Resurrezione; la trasformazione della città terrena nella città di Dio corrisponde nel marxismo alla trasformazione ultima del regno della necessità nel regno della libertà.

Questa impostazione ideologica è presente anche nelle Brigate Rosse, le quali sono “un’organizzazione terroristica di estrema sinistra che persegue lo scopo di combattere lo Stato, colpendolo nella sua essenza, al fine di creare un sistema in cui, chi deve essere alla base di ogni tipo di esigenza, è la classe operaia”. L’ideologia della prima ora è “quella presunta ‘epoca felice’ in cui si rivendicano, prima di tutto, i diritti dei più deboli”, la quale “a partire del 1976, assume tratti ben più militarizzati[6]. Per le Brigate Rosse “tutto il resto assume un aspetto secondario, la lotta contro lo Stato rappresenta l’unico scopo da perseguire[7]. “La lotta di classe domina su tutto[8] contro un capitalismo sfrenato e disumano, che finisce inesorabilmente con lo schiacciare i più deboli […] Una scelta sovversiva da portare fino in fondo, a cui credere come si crede a un dogma[9].

Quello delle BR è quindi un credo assoluto e totalitario che assorbe tutta l’esistenza di chi vi aderisce: “La sfera privata diviene funzionale alla sola causa rivoluzionaria, perché, l’adesione al credo terroristico, coincide con un’assolutizzazione incapace di lasciare spazio ad altro[10], come racconta chiaramente Faranda: “Chi sceglie di militare nelle BR lo fa con un’adesione quasi religiosa ad una chiesa: l’organizzazione diventa la nuova famiglia ed è poi difficile rompere i legami umani che si sono creati”.

Appartenere alle BR – spiegano Tonelli – Sintini – significa, dunque, perdere la propria individualità: non viene riconosciuta la libertà di pensiero, la possibilità di critica, non è consentito in alcun modo un momento di ritiro per ripensare e ritrovare se stessi in quel groviglio inestricabile di fatti, divenuto percorso obbligato e mostruoso, in cui non si è più padroni di decidere[11]. E ancora: “Quando si entra in clandestinità, si è costretti a dimenticare la famiglia, ad abbandonare le amicizie esterne e tutto ciò diviene spesso un modo per mettere alla prova la propria abnegazione di militante.  Il militante ‘rosso’ deve, dunque, rispettare regole ben precise, inderogabili, facendo continui sacrifici e rinunciando ad affetti e interessi estranei al fine sovversivo, in nome di quell’ideale rivoluzionario cui ha deciso di dedicarsi totalmente. Il gruppo diviene così ancora di salvezza e trappola. Se da un lato permette al soggetto di attuare ‘scelte audaci’, crea dall’altro una sorta di dipendenza psicologica[12].

Come si vede, le Brigate Rosse ricalcano in sostanza gli aspetti ideologici del socialcomunismo ai quali i loro fautori si ispirano: le masse proletarie dell’Urss sono qui sostituite dalla classe operaia che deve essere liberata dallo sfruttamento dei “padroni” (la nuova borghesia); anche qui è presente un dio, ma non è lo Stato, il quale deve anzi essere combattuto perché accusato di commistione con il capitalismo che schiaccia i più deboli. Dio è il gruppo armato, è lui il nuovo Gesù, liberatore dei poveri e degli oppressi. E per questa liberazione, così come lo è stato per il comunismo, tutto è lecito: l’uso della forza e delle armi sono legittimi, uccidere o morire durante un’azione è un fatto normale, anzi, di più, una necessità per portare avanti la rivoluzione: l’unico strumento per abbattere il capitalismo. E, al pari di un dio, è il gruppo che va “adorato”, l’idolo cui tutto va sacrificato. A lui va immolata ogni cosa: la propria famiglia, le vecchie amicizie, la vita di prima. Un’abnegazione totale, fatta di continui sacrifici e regole da rispettare come dei dogmi.

Più che una caricatura del cristianesimo, le Brigate Rosse assumono, a tratti, il fanatismo tipico di una setta religiosa. L’entrata nel gruppo avviene lentamente, un passo dopo l’altro, con una sorta di pressione morale e psicologica, finché non si riesce più a venirne fuori. Tonelli-Sintini scrivono: “Entrare in un’organizzazione clandestina è molto più facile del dire ‘non ci sto più, faccio marcia indietro’. In quest’ultimo caso, si è subito un traditore e diventa seriamente complicato uscire da quel vortice che assume forme risucchianti e totali. È questa paura di tradire e il senso di colpa che assale, ad impedire alla maggior parte dei militanti di staccarsi da questo tipo di politica. Al contrario, avvicinarsi al gruppo clandestino, risulta decisamente più semplice. Molte volte si tratta di un coinvolgimento progressivo, di una pressione morale, un passo dopo l’altro. Magari si comincia ospitando in casa propria un ricercato, finché non ci si ritrova coinvolti in azioni sempre più pesanti, fino al collo, in uno spazio che si stringe sempre di più”. Come testimonia la stessa Braghetti: “La mia scelta di entrare in un’organizzazione armata è stata il frutto di un lungo, lento corteggiamento, un avvicinamento graduale, passo per passo. Come un meccanismo che, prima di mettersi in moto faccia scattare tanti clic impercettibili, uno dopo l’altro, fino al momento finale quando ogni passaggio è compiuto e la macchina è avviata in tutta la sua potenza[13].

Una dipendenza psicologica progressiva, quindi, unita a un senso di colpa alimentato dalla paura di tradire, di tirarsi indietro. Una paura, di fatto, assolutamente motivata, perché chi decide di uscire dal gruppo passa immediatamente dalla parte dei traditori subendo la conseguente condanna a morte da parte del gruppo. Così come accadeva nella Russia di Lenin a chi non condivideva e non si uniformava, così accadrà a Faranda e Morucci: la loro opposizione alla decisione di uccidere Moro, li porterà fuori dalle BR costringendoli “a condurre una vita da latitanti, ricercati dallo Stato e dagli stessi ex compagni di lotta, che ora li vedevano come traditori, infiltrati e che presto li avrebbero condannati a morte[14]. Una persecuzione che per Faranda proseguirà anche durante gli anni del carcere: le Brigate Rosse non esistono più, ma lei continuerà a ricevere vessazioni e intimazioni da parte delle altre brigatiste detenute che non avevano tradito.

Una chiesa, quindi, le Brigate Rosse, con le sue regole e i suoi dogmi. Una religione dalla quale i brigatisti hanno assimilato anche il rito del cambio del nome di battesimo. Una prassi questa che in ambito religioso viene usata per rimarcare il fatto che si sta compiendo una scelta definitiva, che si è di fronte a una vocazione da portare fino in fondo con dedizione completa e totale, che si inizierà una nuova vita, un nuovo percorso. Margherita Cagol prenderà il nome di “Mara”; Barbara Balzerani, prima quello di “Maria” e poi di “Sara”; Adriana Faranda diventerà “Alexandra” e Anna Laura Braghetti sceglierà come nome di battaglia “Camilla”. Un rituale che tuttavia non funzionerà appieno: le proprie radici continueranno a farsi sentire e a suscitare sensi di colpa; la separazione tra la vecchia e la nuova vita non sarà, come vedremo, né serena né definitiva.

L’adesione al gruppo armato

Dopo aver accennato all’apparente natura atea delle ideologie del Novecento e agli aspetti religiosi del socialcomunismo a cui le Brigate Rosse fanno riferimento e attingono, possiamo ora tornare alla questione posta all’inizio, ovvero cercare di capire quale sia stato il passaggio che abbia condotto le quattro donne alla decisione estrema e radicale della lotta armata, passando da una vita apparentemente normale alla guerriglia, a fare cioè una scelta che dall’esterno appare difficilmente comprensibile e per la quale la semplice motivazione politica non sembra essere sufficiente.

La svolta di Barbara Balzerani è forse quella più evidente. Lei proviene dal proletariato oppresso dal sistema capitalistico, lo ha vissuto sulla sua pelle sin da piccola. Il pesante lavoro di fabbrica e quel mondo rassegnato e ingiusto, fatto di sacrifici e mortificazioni, si è preso tutte le energie e le carezze della madre. È durante l’infanzia che cresce in Balzerani quella conflittualità nei confronti della madre, che poi diverrà odio folle e disperato anche verso i padroni e l’intero quartiere operaio in cui è cresciuta. Anche il rapporto con il padre non è dei migliori, anch’esso caratterizzato da una forte ostilità, così come conflittuali sono gli anni dell’adolescenza e della scuola, la quale, al pari della famiglia, è considerata dalla giovane un’istituzione contro cui ribellarsi. La giovane Balzerani è immersa in un mondo immobile e chiuso, la Colleferro in cui vive non offre orizzonti né risposte a una ragazza come lei.

All’età di vent’anni, arriva finalmente la svolta: la possibilità di andare a Roma per studiare e laurearsi e, quindi, anche l’occasione di lasciarsi finalmente alle spalle l’odiato mondo. Balzerani arriva a Roma, con tanta rabbia dentro, la rabbia, ma anche il dolore, di tutta la sua vita. Prima aderisce al Movimento Studentesco romano, poi a Potere Operaio e infine approda nel Partito armato, dove nel 1976 incontra il suo compagno ideale Mario Moretti. Nella militanza Balzerani non trova solo l’amore che le è sempre mancato, ma per la prima volta sperimenta anche la sensazione di sentirsi veramente a “casa”.

La scelta di entrare nelle Brigate Rosse è quindi la logica conseguenza dei suoi primi vent’anni di vita. Finalmente la giovane ha trovato quel significato esistenziale che Colleferro non le offriva, finalmente la vita ha un senso, non più un futuro rassegnato e senza prospettive o, in alternativa, la rovina. Le cose si possono cambiare alla fine, si può lottare contro lo sfruttamento e l’oppressione. Balzerani aveva accumulato molti anni di rabbia, era finalmente arrivato il momento di restituirli con gli interessi.

Anna Laura Braghetti è una femminista[15] che, con le Brigate Rosse, condivide la figliolanza a quel movimento di contestazione sorto alla fine degli anni ’60 passato alla storia come il Sessantotto. Un movimento che si declinerà in tre forme principali: studentesco, operaio e femminista il quale, pur con tutte le sue diversità, è qualificato da una visione critica della società nella quale il ruolo dell’individuo e le sue esigenze devono essere radicalmente ridefiniti.

All’interno dei gruppi guerriglieri “non esistono motivi di donna […]: non ci sono, non c’erano, non ci sono mai stati. I motivi sono di ‘ordine generale’, sono lo sfruttamento, la voglia di rivoluzione, motivi neutri, da uomo come da donna[16]. Ciò non significa che non ci possa essere, anche da parte di qualche femminista, una forma di attrazione verso la lotta armata quale mezzo estremo per manifestare il proprio rifiuto verso un sistema che relega la donna all’unico ruolo tradizionale di casalinga, moglie e madre. Un desiderio quindi di avviare una prova di forza, di dimostrare energia fisica, determinazione e coraggio verso quell’immaginario collettivo che vede nella figura femminile solo sottomissione, debolezza e fragilità. Un ribaltare i valori tradizionali con la forza, un’emancipazione armata, come si evince dalla seguente testimonianza, rilasciata da un anonimo funzionario del Vicinale al giornalista Gian Paolo Rossetti e riportata in un articolo-inchiesta del 1978 intitolato “Donne e Terrore”: “Nell’Italia del ’78 il terrorismo è donna, ormai siamo arrivati al femminismo armato. Non passa giorno senza che una ragazza sia protagonista delle cronache della violenza… carine, viso da brave figliole, sui 25 anni di età… sono fredde e padrone di sé e sparano da professioniste[17].

Una femminista, dunque, Braghetti, con un lavoro di impiegata in un’impresa edile. La sua vita sarebbe potuta andare avanti così, senza alcun bisogno di entrare nell’organizzazione armata, se non fosse intervenuto, come lei stessa racconta, quel “lungo, lento corteggiamento, quell’avvicinamento graduale” fatto di  “tanti clic impercettibili, uno dopo l’altro” finché “ogni passaggio è compiuto e la macchina è avviata in tutta la sua potenza[18]. Ovvero quel sottile e penetrante metodo di reclutamento – come precedentemente accennato – usato solitamente dalle sette religiose per reperire nuovi seguaci.

Un metodo subdolo che generalmente fa leva su debolezze o passioni personali: la persona viene posta al centro dell’attenzione, le si fa credere di essere unica e indispensabile, le si offrono gratificazioni in vario modo, si mettono in moto tutta una serie di allettamenti, finché il nuovo adepto non entra, convinto di aver fatto tutto da solo, che la sua adesione sia stata libera e volontaria.

La femminista Braghetti cercava un modo per cambiare il mondo: ecco la passione da cui partire per il suo coinvolgimento, come lei stessa racconta: “Forse il periodo in cui sono stata una spettatrice in platea è servito a decidere se farmi o no da parte definitivamente. Era un tempo di attesa, cercavo un modo per cambiare il mondo e tentavo di capire se le Brigate Rosse fossero o meno uno strumento per far diventare realtà il sogno rivoluzionario […] Perché anche se non avevo nessun peso politico nell’organizzazione e non ero passata per la normale trafila dei militanti BR, avevo un ruolo essenziale per i suoi progetti […] Fino a quel momento ero stata a guardare, avevo un atteggiamento di indulgente tolleranza […] non ero una protagonista, ero semplicemente la ragazza di Bruno[19].

Braghetti quindi osserva, pondera e tentenna, si chiede se quella sia la strada giusta per realizzare il suo sogno, nel gruppo milita anche Bruno, il suo compagno del momento, così decide di entrare come irregolare iniziando a condurre una doppia vita. Nemmeno un anno dopo le viene assegnato il ruolo fondamentale di prestanome dell’appartamento in via Montalcini numero otto, acquistato appositamente per il sequestro Moro. Inoltre, sarà proprio lei a sostenere economicamente l’operazione sia come vivandiera del Presidente che per la sopravvivenza degli altri inquilini.

Insomma, la macchina si è messa repentinamente in moto prima che forse Braghetti si sia resa conto di esserne di fatto già a bordo. La doppia vita che conduce inizia a pesarle sempre di più: di sera è la rivoluzionaria a tempo pieno nonché vivandiera del prigioniero Aldo Moro; di giorno è la donna truccata, ben vestita e profumata che lavora in ufficio e inventa scuse con le zie per spiegare come mai la sera non risponde mai alle loro telefonate: un giorno dall’amica del cuore, un altro al cinema, un altro in pizzeria… bugie, bugie e ancora bugie: “Con il passare dei giorni cominciavo ad apprezzare le dieci ore che trascorrevo fuori da quella casa, la possibilità di lasciare alle spalle Camilla e rientrare nei panni di Laura, truccata, ben vestita, profumata. Tutto il giorno vivevo nel mondo, lavoravo, chiacchieravo al telefono con la zia Franca[20], finché la situazione non precipita.

Le Brigate Rosse condannano a morte Moro. I dubbi di Braghetti aumentano, lei ritiene che il Presidente abbia già subito un lungo periodo di prigionia che l’ha profondamente segnato ma, alla fine, approva la decisione senza battere ciglio. L’uccisione di Aldo Moro, avvenuta il 9 maggio 1978, segna la fine della sua doppia vita, ormai non può più tornare indietro e iniziano anche per lei la clandestinità e la militanza che muteranno Braghetti in una terrorista a tutti gli effetti.

In conclusione, Braghetti nelle BR non ci entra, ma ne è lentamente inglobata, assorbita, coinvolta poco a poco, giorno dopo giorno, incarico dopo incarico, fino a rimanerne totalmente imprigionata.

Anche Adriana Faranda ha un sogno: “Una rivoluzione totale che possa liberare il mondo dal dolore[21]. Un dolore che, per l’ideologia sessantottina, non è mai il proprio, non un fatto privato – come osserva Tiliacos – “il dolore riconosciuto e ammesso era sempre quello dei poveri del terzo mondo, degli ultimi, della classe operaia, delle vittime dell’oppressione, dello sfruttamento, del razzismo. Il dolore e la morte potevano essere considerati soltanto nella sfera strettamente legata alla politica e alla lotta di classe[22].

Liberare il mondo dal dolore, quindi, un’utopia atea perfetta. Infatti, se Dio non esiste e Gesù non è il figlio di Dio di lui resta solo l’immagine di un rivoluzionario che ha fatto una brutta fine. E se Gesù è solo un uomo, non è nemmeno risorto e così anche la morte non ha più nessun significato. Non l’inizio di una vita nuova nel Paradiso terrestre, non un “ritorno a casa” tra le braccia amorevoli di un Padre, come afferma il Cristianesimo, ma la drammatica fine di questa vita nel nulla. Allo stesso modo, anche il dolore non ha più alcun significato, non un’istanza redentiva di comunione dell’uomo con la Croce di Cristo, “uno strumento di salvezza e un cammino di santità che aiuta a raggiungere il cielo[23], ma un ospite importuno e sgradito da allontanare e combattere.

Cristo ha mostrato che il dolore esiste e non può essere eliminato, ma non l’ha né cercato né esaltato, bensì accettato e portato fino in fondo. Il cristianesimo, infatti, non è la religione che esalta il dolore, ma quella che alla sofferenza dà un significato. Il patire e il morire, infatti, non sono l’ultima parola, perché alla passione e alla morte segue la resurrezione: il sepolcro è un sepolcro vuoto.

Se Dio non esiste, non esiste nemmeno un Paradiso futuro dove la sofferenza e la morte saranno bandite per sempre. Quindi, l’unico paradiso possibile è quello terreno e spetta all’uomo realizzarlo, con le sole proprie forze, per raggiungere la felicità. In una visione del genere il dolore è un ingrediente amaro, una realtà drammatica che impedisce il raggiungimento della felicità, ecco perché bisogna eliminarlo ed ecco perché, per realizzare il paradiso terreno, Faranda sceglie la rivoluzione: “Per realizzare questo mondo le dissero, è necessario lottare, bisogna essere disposti a combattere, forse a morire[24]. Unendosi alle Brigate Rosse, il dio-idolo armato, il messia rivoluzionario e combattente, redentore del dolore secolare e restauratore della felicità terrena perduta.

È la stessa Faranda a confermare che il suo ingresso nelle Brigate Rosse è stato da lei vissuto come un’adesione religiosa: “Chi sceglie di militare nelle BR lo fa con un’adesione quasi religiosa ad una chiesa: l’organizzazione diventa la nuova famiglia ed è poi difficile rompere i legami umani che si sono creati[25]. Una chiesa che si rivelerà però una setta crudele e sanguinaria, che le prenderà tutto, le chiederà il sacrificio di ogni aspetto umano della sua vita, compreso il distacco affettivo dalla propria figlia. Un’adesione religiosa che, anziché condurla al paradiso terreno agognato, le inculcherà una crescente desolazione interiore: non il dolore generico degli ultimi e degli sfruttati, ma un dolore interno ed esistenziale che la porterà fino all’apice di un totale smarrimento: “Aveva condannato i suoi sogni senza saperlo, la sua anima celava ora un buco nero, così profondo da fagocitare la vita, contro il suo volere, era ormai sperduta di fronte ad un’esistenza nella quale non riusciva più a identificarsi totalmente[26].

In conclusione, l’entrata di Faranda nelle Brigate Rosse ha i connotati di una vera e propria scelta religiosa, la sua è come un’adesione a una chiesa, un vero e proprio atto di fede, ma rovesciato. Faranda non crede in un Dio trascendente, ma affiderà la sua vita a un dio immanente, assassino e totalitario, che le chiederà tutto, le toglierà tutto e la lascerà sola e sperduta con una profonda sofferenza esistenziale.

Non ci resta ora che esaminare le motivazioni della trentina Margherita Cagol, la quale nel gruppo armato non ci entra, lei è tra quelli che lo fondano.

Tonelli – Sintini scrivono che Cagol “sentiva […] come imperativo, il dover dare il suo contributo per una società migliore, poco importavano i mezzi, ciò che contava era il risultato. Se fosse stato necessario imbracciare un fucile, l’avrebbe fatto, perché moralmente accettabile, oltre che politicamente doveroso” per combattere “un capitalismo sfrenato e disumano, che finiva inesorabilmente con lo schiacciare i più deboli”. “Di fronte a tutto questo – proseguono Tonelli – Sintini – la risposta non poteva essere quella evangelica, attinta dal cristianesimo, del porgere l’altra guancia ma quella più laica del ‘ribellarsi è giusto’. Sarà proprio la sua potente formazione cattolica a fornirle la determinazione utile ad agire concretamente. Una fede senza dubbi e incrinature: prima in Dio, poi nella Rivoluzione. Una scelta sovversiva da portare fino in fondo, a cui credere come si crede a un dogma[27].

Secondo Tonelli – Sintini sarebbero perciò la “potente formazione cattolica” di Cagol e la sua “fede senza dubbi e incrinature: prima in Dio, poi nella Rivoluzione” a spingerla a fondare le BR, ma questa tesi non appare convincente. Appare invece più plausibile che il grande salto nella militanza armata sia stato determinato da una visione distorta della fede cattolica che in Cagol risulta profondamente intrisa di quell’ideologia marxista-leninista e socialcomunista che tanto l’aveva affascinata durante gli studi universitari.

Abbiamo già detto all’inizio che Cagol si era iscritta alla facoltà di Sociologia dell’Università di Trento, non tanto per una particolare vocazione, ma solo per il fatto che la sede si trovava vicino a casa. Qui Cagol entra a far parte del Movimento Studentesco dove incontra Renato Curcio e, allo scoppiare del Sessantotto nel 1966, la giovane reagisce con entusiasmo sfilando nei cortei e prendendo parte all’occupazione della facoltà.

Quando nel 1967 il clima idilliaco si incrina, a causa della protesta contro la guerra in Vietnam, Cagol partecipa alla formazione teorica dell’Università Negativa ideata da Curcio, dove vengono approfonditi i testi ignorati dai corsi universitari, inclusi quelli di Mao, Marcuse e Guevara. Nello stesso anno entra insieme a Curcio a far parte della rivista Lavoro Politico di ispirazione marxista-leninista. Cagol lavora con passione in redazione, fa ricerche e passa intere giornate sui libri. Più tardi, tutta la redazione aderisce, anche se per un breve periodo, al partito comunista marxista-leninista d’Italia, una piccola formazione con il mito di un’imminente vittoriosa rivoluzione. Agitazioni e occupazioni continuano finché nel luglio del 1969 si laurea discutendo una tesi sulle diverse fasi dello sviluppo capitalistico con il professore Francesco Alberoni. Si racconta che al termine della discussione, Cagol abbia alzato il braccio sinistro con il pugno chiuso. Alberoni dirà di lei: “Devo dire che è stata una cosa assolutamente inaspettata. Come dire, non era nel personaggio. Non credevo che fosse così politicizzata[28].

Quindi, Cagol inizia l’università senza alcuna particolare vocazione e la conclude in modo fortemente politicizzato. In pochi ma intensi anni di studi “alternativi” ha già acquisito la formazione necessaria che la porterà al salto finale dalla fede cattolica alla fede nella rivoluzione armata. La formazione “alternativa” di Cagol è completamente incentrata nell’approfondimento dell’ideologia comunista: studia Mao, Marcuse, Guevara, si appassiona alle teorie marxiste-leniniste ed entra a far parte di gruppi e partiti a esse ispirati. Incontra persino appartenenti a ordini religiosi che la condividono, come il frate francescano che celebrerà il suo matrimonio con Curcio, conosciuto da Cagol durante le battaglie del Sessantotto.

Tuttavia, dopo aver visto gli aspetti profondamente religiosi del socialcomunismo, la svolta di Cagol non appare più così strana o incomprensibile. Abbiamo infatti visto come il socialcomunismo, pur essendo dichiaratamente ateo, si presenti in realtà come una caricatura del cristianesimo: Lowith, lo definisce una “forma secolarizzata del pensiero biblico”, Berdjaev una “caricatura dell’universalismo cristiano e della Chiesa cattolica”. Agnoli osserva che il comunismo ha un carattere attraente e universale nella sua lotta dei poveri contro i padroni e dei deboli contro i forti, fornendo a suo modo una risposta (materialista) al problema della giustizia e dell’equità, tanto da affascinare anche tanti cattolici secolarizzati. “In realtà, a ben vedere – spiega Agnoli –, si tratta di un abbaglio colossale: la violenza rimane necessaria, come lotta di classe, e funge da levatrice della storia; la discriminazione è assolutamente presente, via via nei confronti degli anarchici, dei cattolici e degli ortodossi, dei borghesi, dei compagni che non obbediscono, e  di tutti coloro che si oppongono[29]. Ecco perché, con questa visione ideologica alla base, il percorso delle BR non poteva che avere il suo logico approdo nella violenza armata.

Anche Cagol subisce quest’abbaglio e il lineare passaggio dallo studio teorico all’azione pratica. Nel 1969 Cagol è a Milano, che sta vivendo il cosiddetto “autunno caldo”; la città è un mondo in ebollizione e per Cagol un punto privilegiato di osservazione per studiare le contraddizioni del capitalismo. Tra riunioni e incontri a non finire nasce il Collettivo Politico Metropolitano, nel quale Cagol e Curcio conoscono i giovani che entreranno a far parte delle future Brigate Rosse. Dopo la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), il gruppo si trasforma in “Sinistra Proletaria” e, per la prima volta, matura l’idea di passare alla lotta armata. Presto cambierà di nuovo il nome prendendo quello definitivo di Brigate Rosse e avranno inizio quegli anni violenti e sanguinari fatti di sequestri di persona, ferimenti “dimostrativi” e una lunga catena di omicidi.

Sarà proprio Cagol a spingere per il passaggio alla lotta armata: “Margherita sceglie la lotta armata con convinzione e testardaggine, senza più voltarsi indietro. Non è Renato Curcio a trascinarla, è lei che trascina lui, nella convinzione che sia giusto, inevitabile, che quella sarà l’ultima delle guerre necessarie[30]. Come testimonia lo stesso Curcio: “Lei ha voluto l’organizzazione armata quanto me, se non più di me, è un fatto[31] e il brigatista Franceschini: “Renato passava il tempo a elaborare teorie e a scrivere documenti politici, ma quando si trattò di passare dalla teoria alla pratica, non so cosa avremmo fatto senza Mara[32].

Così scrive Cagol ai genitori per rassicurarli dopo l’arresto di Curcio: “Ora che Renato non c’è, tocca a me e ai tanti compagni che vogliono combattere questo potere borghese ormai marcio, continuare la lotta. Non pensate per favore che io sia incosciente… Voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi non ce ne sono altri. Questo Stato di polizia si regge sulla forza delle armi e chi lo vuol combattere si deve mettere sul suo stesso piano[33].

“L’ultima delle guerre necessarie”, anche Marx lo pensava: la violenza levatrice della storia; e pure Mao: la fine del passato oscuro e l’inizio di una nuova era, e anche i socialdarwinisti: un’esigenza di natura, e molti altri rivoluzionari ancora; chissà quante volte lo aveva sentito e letto nei suoi studi “alternativi” all’università; si trattava solo di mettere in pratica quello che aveva studiato con curiosità e passione, del resto la Storia aveva avuto più di un rivoluzionario convinto della bontà della guerra.

Non è, in conclusione, la “potente formazione cattolica” a spingere Cagol a fondare le Brigate Rosse, bensì la potente formazione comunista unita a un cattolicesimo distorto e secolarizzato. Del resto, gli aspetti dogmatici della Chiesa non le interessano, Cagol preferisce occuparsi di volontariato, si sente più una credente “del fare”, così come solo azione è la “religione” ateistica e immanente di Marx e Lenin. Una fede, quella di Cagol, quindi parziale, mutilata, azzoppata, superficiale, così come superficiali appaiono le sue analisi politiche e sociali: “Le descrizioni che fa della Milano del 69-70 come di una metropoli disperata, assassina, concentrazionaria, in cui masse di uomini in catene aspettano da un’ora all’altra la fiammata rivoluzionaria, sono al limite del delirio. Manca qualsiasi analisi sociale, una seria distinzione tra proletariato emarginato e operaismo garantito, un qualche confronto internazionale[34].

Le Brigate Rosse riusciranno a reclutare numerosi seguaci, con un sistema tipico di una setta religiosa, con dogmi e regole proprie, un potere totalitario e discriminatorio verso chi non si adegua e l’uso della violenza come unico metodo per realizzare i propri obiettivi. Non interessavano a Cagol i dogmi della Chiesa cattolica, ma sarà l’artefice di un gruppo terroristico dogmatico e violento, un dio-idolo rivoluzionario e sanguinario che le chiederà un prezzo sempre più alto da pagare, fino al sacrificio della propria stessa vita, uccisa a soli trent’anni durante uno scontro a fuoco con i carabinieri.

Come si vede, le brigatiste Balzerani, Braghetti, Faranda e Cagol provengono da mondi diversi: hanno vissuti e motivazioni diverse pur nel comune destino che le vede coinvolte nella lotta armata. Da ulteriori particolari sul loro vissuto e dalle testimonianze successive, emergono anche altri aspetti più personali e profondi, legati al carattere, attitudini e passioni, ma anche al proprio essere donne chiamate a confrontarsi con un ambito violento dominato da un agire specificatamente maschile. È a questi aspetti più intimi, personali, femminili, che dedicherò le pagine che seguono, aspetti che continueranno ancora a differenziarle l’una dall’altra rendendole, a seconda delle situazioni, l’una convinta l’altra dubbiosa, l’una audace l’altra timorosa, l’una di ritrovarsi l’altra di perdersi.

Il fervore in Cagol e Balzerani

Cagol: dalla chitarra alla rivoltella

La giovane Cagol è una vera forza della natura. Prima, piena di interessi e di entusiasmo, sportiva, attiva nel volontariato e studentessa esemplare. Poi, i giorni, le notti e la sua vita con Curcio interamente e instancabilmente dedicati alla causa politica. Cagol è perfezionista, concreta, sicura di sé e delle sue capacità, convinta della strada che sta per intraprendere, un vulcano di idee, sempre pronta a escogitare nuovi sistemi, una donna “del fare”, forte, un vero comandante che impara a usare la pistola con la stessa abilità dimostrata nell’apprendere a suonare la chitarra quando era più piccola: “Margherita eccelle [nella pratica delle armi], dimostrandosi molto più brava dei suoi compagni brigatisti: impara in fretta, concentrata e determinata com’è[35].

Il fervore della giovane Cagol parte da radici buone, lei è mossa da un desiderio di giustizia nei confronti degli oppressi, dalla voglia di cambiare e rendere il mondo un posto migliore. Il volontariato con gli anziani a Trento, diventa a Milano lotta contro il capitalismo dei padroni colpevoli di perpetrare ingiustizie verso le masse operaie. Amore per gli ultimi, quindi, e desiderio di spendersi in prima persona, perché di fronte alle ingiustizie non si può restare indifferenti.

Le qualità per fare qualcosa di buono, di bello e di grande ci sono tutte, ma Cagol, abbagliata dall’ideologia comunista, si perderà sui mezzi da utilizzare: la lotta armata e la violenza come prassi e dovere civile: “Margherita sentiva come imperativo il dover dare il suo contributo per una società migliore, poco importavano i mezzi, ciò che contava era il risultato. Se fosse stato necessario imbracciare un fucile, l’avrebbe fatto, perché moralmente accettabile, oltre che politicamente doveroso […] Di fronte a tutto questo, la risposta non poteva essere quella evangelica, attinta dal cristianesimo, del porgere l’altra guancia ma quella più laica del ‘ribellarsi è giusto’[36].

Balzerani: dietro la rabbia, il dolore

Anche Balzerani, esattamente come Cagol, si distingue da subito per la convinzione e la determinazione dimostrate nel portare avanti la lotta armata. Appena aderisce alle BR (1976) ricopre da subito un ruolo di primo piano entrando a far parte dell’esecutivo brigatista, dove vi rimarrà per quasi nove anni, cioè fino al giorno del suo arresto (19 giugno 1985): “Sia Mara che Barbara […] sebbene in periodi molto diversi, affrontano la sfida della latitanza con una convinzione che le contraddistingue dalle tante altre donne brigatiste che attraversano lo scenario della lotta armata e della clandestinità. Il loro coraggio e la loro forza non possono passare inosservate e in tutte le ricostruzioni storiche dell’esperienza politica e militare delle BR, i loro nomi risaltano e spiccano con decisione, lasciando in un modo o nell’altro il segno[37].

Entrambe le donne si troveranno ad assumere la guida del Partito armato. Cagol, dopo l’arresto di Curcio, prenderà le redini della Colonna torinese con il compito di riannodare le fila di un’organizzazione allo sbando, e organizzerà con successo la liberazione di Curcio dal carcere dove è detenuto. Analogamente Barbara, dopo l’arresto del compagno Moretti, diventerà la militante di anzianità maggiore ancora in libertà, assumendo la guida dell’ultima generazione delle Brigate Rosse.

Pur essendo quindi le due brigatiste accumunate da un’analoga passionalità, in Balzerani essa proviene verosimilmente da sentimenti opposti rispetto a Cagol: non l’amore nei confronti degli ultimi e oppressi, ma il dolore degli ultimi e degli oppressi. Quel dolore sotto la rabbia, unito a un senso di impotenza, sperimentato da Balzerani sulla propria pelle durante gli anni dell’infanzia e giovinezza a Colleferro.

Due passionalità fortissime ed entrambe fortemente sbilanciate. Quella di Cagol dall’amore verso l’impulsività, l’irriflessione, la spericolatezza, la superficialità; quella di Balzerani dal dolore verso la rabbia, il rancore, la rivalsa.

La passione: vizio o virtù? 

La passione è un moto della sensibilità, pertanto come tale non è in sé né buona né cattiva. Questa neutralità può trasformare la passione in un vizio se associata a un agire cattivo, o in una virtù se l’agire è buono. Per esempio, la passione per il vino può fare di un uomo un degustatore professionale oppure un alcolizzato.

Analogamente, appassionarsi alla causa degli ultimi e degli oppressi, può suscitare una Margherita Cagol, pericolosa terrorista che brandisce con orgoglio il pugno chiuso al cielo e, poi, con la stessa mano una rivoltella pronta a sparare per uccidere, oppure una Anjeze Gonxhe Bojaxhiu (madre Teresa di Calcutta), con la schiena curva e lo sguardo basso alla ricerca degli scartati di Calcutta, ai quali tendere braccia confortanti e mani amorevoli pronte a curare le malattie più contagiose e temute.

Il fatto è che quando si parla di passioni si impone necessariamente un’analisi morale, mancando la quale si incorre nel rischio di farsi dominare dalle passioni, anziché dominarle, determinando la propria sicura rovina, come spiega san Giovanni Paolo II: “E vero che, ove la passione sia inserita nell’insieme delle più profonde energie dello spirito, essa può anche divenire forza creatrice; in tal caso, però, deve subire una trasformazione radicale. Se invece soffoca le forze più profonde del cuore e della coscienza, si consuma e, in modo indiretto, in essa si consuma l’uomo che ne è preda[38]. O come scrive Khalil Gibran: “La passione è una fiamma che, incustodita, brucia fino alla sua distruzione”.

Quindi, pur non essendo in sé né buona né cattiva, la passione può elevare l’uomo verso altezze nobili e buone, o sprofondarlo verso degradazioni autodistruttive e mortali.

All’interno del gruppo delle quattro brigatiste in esame, Cagol e Balzerani sono coloro che più di tutte sono state mosse da questo moto della sensibilità. Si è trattato per entrambe di una passione rovinosa e incontrollata, svincolata da interrogativi morali, che ha condizionato le loro decisioni portandole a compiere azioni malvagie fino al proprio drammatico epilogo: l’una a una morte prematura e l’altra all’ergastolo.

I dubbi in Braghetti e Faranda

Le BR hanno avuto al loro interno anche donne meno pasionarie, come Braghetti e Faranda, donne che sono state attraversate da profondi conflitti interiori e dubbi, che si sono chieste se le scelte che stavano per fare fossero giuste o sbagliate: “Esistono donne che in questo percorso restano più nell’ombra, presentandosi come figure meno nette, incisive e convinte, almeno in un primo momento (è per esempio il caso di Anna Laura Braghetti) od offuscate e lacerate dentro. Il caso più evidente è ravvisabile in Adriana Faranda. Soffermandosi sulla sua storia, pare che questa donna esista, tra grandi conflitti, in rapporto ad una realtà con la quale non si fonde mai interamente, mantenendo un distacco, seppure sottile, dal quale non riesce a separarsi[39].

I dubbi di Braghetti li abbiamo già accennati, abbiamo visto che la donna si interroga a lungo per capire bene se il sogno che ha di cambiare il mondo possa avverarsi attraverso le Brigate Rosse, ma, mentre osserva gli eventi dall’esterno come fosse una spettatrice in platea, senza rendersene conto ne viene lentamente risucchiata. Braghetti accetta alcuni incarichi, ma ancora non è persuasa e nel gruppo armato non ci entra. Inizia a condurre una doppia vita, divisa tra il ruolo di impiegata di giorno e di rivoluzionaria la sera, ma si tratta di una condizione che con il passare dei giorni le pesa sempre di più. Non è convinta nemmeno quando le BR decidono di uccidere Moro, anche se alla fine accetta la decisione senza opporsi. Sarà solo al precipitare della situazione, dopo l’uccisione del Presidente del Consiglio, quando gli eventi la travolgeranno completamente che entrerà anche lei in clandestinità. A quel punto cesseranno tutti i dubbi e le remore morali e anche Braghetti inizierà ad agire come una terrorista a tutti gli effetti.

Anche Faranda non è convinta, né prima di entrare né durante la sua permanenza nelle BR: “La Faranda, arrivata nelle BR tra mille dubbi e indecisioni, aveva sempre avuto nei confronti di quell’organizzazione, parecchie perplessità politiche […] Entrare nelle Brigate Rosse, avrebbe voluto dire distaccarsi, per chissà quanto tempo, dalla figlia Alexandra ma è il momento di agire, di saltare il fosso e di entrare in clandestinità […] I primi tempi ne soffrì fortemente ma non poteva caricare di certo i compagni con la sua angoscia che forse non avrebbero nemmeno capito […] Eppure, benché vivesse una desolazione tutta interiore, non riusciva però a nascondere fino in fondo il suo dolore, trapelava dal suo sguardo, tanto che se ne accorse persino una sua compagna brigatista, Anna Laura Braghetti […] Adriana, durante tutta la permanenza nelle BR, assume atteggiamenti spesso contraddittori alle regole da seguire […] e si ribella all’idea di sacrificare ogni aspetto umano alla causa collettiva della rivoluzione[40].

Anche Faranda, al pari di Braghetti, non è d’accordo con la decisione di uccidere Moro, ma a differenza di costei, Faranda si oppone apertamente, pagando molto caro il suo dissenso: “Insieme a Morucci, Adriana condivide l’opposizione alla condanna a morte di Moro, che la condurrà fuori dalle BR: inizieranno così a condurre una vita da latitanti, ricercati dallo Stato e dagli stessi ex compagni di lotta, che ora li vedevano come traditori, infiltrati e che presto li avrebbero condannati a morte[41].

Il partito armato non ammette riflessioni morali 

Entrare nelle Brigate Rosse significa dover rinunciare a qualsiasi analisi morale. Non è consentito fermarsi a riflettere per verificare se quello che si sta facendo sia giusto o sbagliato, se si possono percorrere altre strade, ogni decisione che il dio-partito-armato prende è automaticamente giusta perché lui ha deciso che è così. Ai seguaci della “setta” armata non sono concesse analisi sul bene o sul male, ma semplicemente di conformarsi ai dogmi assoluti e totalitari del gruppo, alle sue regole e decisioni, pena il passaggio automatico dalla parte dei nemici e la conseguente condanna a morte. Nel momento in cui si diventa adepti delle BR, si perde il diritto a esercitare il proprio libero arbitrio, come evidenzia chiaramente questa testimonianza di una militante anonima: “Senti che incidi davvero, che conti, che la stampa parla di te ma tutto questo diventa frustrante quando dici, voglio pensare davvero, vedere se tutto questo è giusto o sbagliato, capire e chiederti come combattere lo Stato […] L’unica salvezza che hai è la durezza, devi difenderti sempre, non puoi mollare un attimo la tensione ideologica, è questo l’unico mantello di sicurezza che hai. Non puoi avere un dubbio. Se dai segni di debolezza sei finito[42].

L’unico sistema per soffocare e zittire la voce della coscienza, che tenta di emergere sollecitando un giudizio morale, consiste quindi nel procurarsi una cecità volontaria, polarizzandosi esclusivamente sull’ideologia, e poi nel reagire con durezza, un metodo adottato anche da Faranda per reprimere tutti i dubbi e i rimorsi che ha: “Se sembrano ancora più ‘dure’ dei loro compagni è anche perché le brigatiste, rispetto agli uomini, fanno più fatica a saltare il fosso della lotta armata e quando lo fanno vogliono dimostrare a se stesse, con il massimo della coerenza, che è stata una scelta giusta.

Anche i protagonisti della rivoluzione comunista – da cui le BR traggono le proprie radici ideologiche – ritenevano la legge morale un inutile orpello. Lenin avrebbe affermato: “Per noi non esiste e non può esistere il vecchio sistema di moralità e di umanità […] La nostra moralità è nuova […] A noi tutto è permesso […] Sangue? E sangue sia”. Mentre Stalin avrebbe detto: “Ivan il Terribile era estremamente crudele. Ma bisogna far vedere perché doveva essere crudele. Uno degli errori di Ivan il Terribile sta nel fatto che non ha sterminato fino alla fine cinque grandi famiglie feudali […] lui ammazzava qualcuno e poi pregava e si pentiva a lungo. Dio era per lui un impaccio in questa opera. Bisognava essere ancor più risoluti[43]. Appunto, assoluta coerenza e fedeltà, anche in questo, alla propria matrice ideologica di provenienza.

Madri e rivoluzione

Tre delle quattro brigatiste in esame, hanno visto intrecciarsi la propria condizione di essere o diventare madre con la strada intrapresa nelle BR, un aspetto peculiarmente femminile che ha profondamente inciso sul loro precorso all’interno del gruppo armato provocando sofferenze e lacerazioni ed evidenziando una sostanziale incompatibilità tra l’essere madre e la lotta armata, tra il “dare la vita” e il “dare la morte”.

Cagol, la maternità sottratta

Ci troviamo all’inizio del 1971, le BR sono già passate alla lotta armata, ma non sono ancora entrate in clandestinità, quando Cagol e Curcio, sposi da poco più di un anno, scoprono di aspettare un figlio. Il bambino è da subito accolto con gioia da entrambi, visto che desiderano diventare genitori, iniziano così a fare tutti quei progetti che ogni coppia sposata solitamente fa in queste occasioni, anche se, nel loro caso, vi è in più la necessità di conciliare la cura del nascituro con gli impegni politici che occupano interamente la loro vita. I coniugi Curcio appaiono uniti e felici, certi di riuscire nell’impresa, di più: il figlio che aspettano potrebbe essere l’occasione per rimettere tutto in discussione, visto che di scelte definitive non ne sono ancora state fatte.

Appena un mese dopo, i coniugi Curcio prendono parte ai durissimi scontri con la polizia in un quartiere di Milano, durante un’occupazione di case organizzata in favore dei proletari. Cagol viene arrestata e le percosse che riceve dagli agenti le procurano un aborto. Dopo il fermo di polizia e una perquisizione nell’appartamento dove vivono, Curcio viene licenziato dalla Mondadori dove lavora. In seguito a questi avvenimenti i coniugi Curcio cambiano casa e, poco dopo, decidono di entrare definitivamente in clandestinità.

La perdita repentina del figlio segna quindi uno spartiacque nella vita dei coniugi Curcio, e forse anche nell’evoluzione della lotta armata, come emerge da una testimonianza del compagno di lotta Franceschini: “Credo che dopo la perdita del figlio lei non abbia più pensato alla sua vita in termini ‘normali’, vale a dire con la prospettiva di una famiglia… certo, se fosse nato quel figlio credo che la vita sua come quella di Renato sarebbe stata profondamente diversa[44].

La rivoluzione in cui crede le ha strappato via dal grembo il figlio tanto desiderato, così, in maniera repentina e violenta come violenta è l’ideologia alla quale Cagol ha scelto di votarsi. Qualcuno potrebbe dire “se l’è cercata, se aspetti un bambino non vai a fare la guerra in città”, ma l’ideologia spesso abbaglia e, se unita a un’indole impulsiva, può portare ad azioni avventate.

La letteratura scientifica sul post-aborto ha più volte evidenziato un aumento della rabbia e della collera nelle donne che abortiscono, ma anche una maggiore inclinazione ad assumere dei comportamenti a rischio. Ciò può avvenire perché semplicemente alcune donne si preoccupano di meno se vivono o muoiono dopo un aborto, altre possono cercare di auto-curare un senso di depressione con una scarica di adrenalina prendendosi dei rischi. La rabbia unita a un comportamento rischioso e alla perdita della voglia di vivere è una combinazione pericolosa che può portare facilmente a scontri fatali con gli altri. E spiega perché vi sia un’elevata incidenza di omicidi tra le donne che hanno una storia di aborto.

L’inclinazione a prendersi dei rischi, Cagol ce l’aveva già da prima dell’aborto, tuttavia Franceschini si accorge che l’amica è cambiata, che quel senso di normalità che, nonostante una scelta di vita rischiosa, era pur sempre presente, ora non c’è più: Cagol non pensa più alla sua vita in termini “normali”, per lei niente sarà più come prima.

Perdere un figlio è sempre un fatto doloroso, ancor più se quel figlio era atteso, voluto, amato, ma con un sovrappiù di pena se quella perdita è stata causata dai propri ideali, provocata da quello Stato di polizia già tanto odiato. Una strada sola si apre ora davanti, fare in modo che un sacrificio così incommensurabile non sia stato inutile, che quella perdita immensa possa avere almeno un significato: credere nei propri ideali fino in fondo, sacrificare se stessa in maniera totale, estrema, prendersi fino in fondo tutti i rischi necessari per la causa rivoluzionaria, unire alla passione per la rivoluzione il dolore lacerante per la perdita subita e la rabbia moltiplicata per cento nei confronti dello Stato che le ha assassinato il figlio; darsi totalmente fino ad annientarsi, perché ora che il figlio le è stato strappato dalle viscere, vivere o morire è lo stesso, ma morire uccisa in uno scontro in battaglia è forse l’unico epilogo accettabile.

Balzerani, la maternità rifiutata

Anche Balzerani deve fare i conti con un aborto, ma il suo non è involontario, lei sceglie di non essere madre. È lei stessa a parlarne: “Cosa mi attraversava la mente alla vigilia del mio ingresso nelle Brigate Rosse? […] Avrei dovuto riflettere su quanto sarebbe mutata la mia vita […] anche per me si avvicinava il tempo di mettere da parte, fino a conservarli solo nell’amorevolezza del ricordo, affetti, amicizie, vissuto e prospettive di futuro […] compresa la gelida sensazione di sterile vuotezza per l’amore di quel figlio che non ho consentito di crescermi dentro[45].

Balzerani rinuncia volontariamente alla maternità, non sappiamo se questa rinuncia sia stata fatta prima di entrare nel BR o quando già ne faceva parte, ma la sua testimonianza suggerisce che tra i due eventi (aborto e BR) un collegamento c’è. Dalle sue parole (“l’amore di quel figlio”) possiamo inoltre dedurre che forse il suo aborto volontario avviene, non perché detesti essere madre o perché l’idea di un figlio la ripugni, ma verosimilmente perché la maternità è incompatibile con quel determinato periodo della sua vita, infatti non avere intenzione di rimanere incinta in un determinato momento della vita è ben diverso dal non volere un figlio.

Un rifiuto, in tal caso, coerente: se scegli la lotta armata e quindi di sparare con la consapevolezza di uccidere, puoi avvertire una dicotomia tra il “dare la vita” e il “dare la morte”, tra il “venire al mondo” e il “mandare all’altro mondo”. “Avrei dovuto riflettere su quanto sarebbe mutata la mia vita” – afferma Balzerani con un tono colmo di rimpianto -, riflettere forse sul fatto che aderire alle BR avrebbe significato non solo “mettere da parte… affetti, amicizie, vissuto”, ma anche rinunciare a tutte le “prospettive di futuro” inclusa quella di essere madre.

Il no alla vita di Balzerani è una rinuncia sofferta, una rinuncia che le ha lasciato una “gelida sensazione di sterile vuotezza”, ma che non ha cancellato il suo status di madre, anche se di un figlio non nato. È infatti con un sentire di madre che lo chiama “figlio”, non bambino e nemmeno “grumo di cellule” o “tumore” come tanto va di moda tra le femministe di quel periodo. E se quello a cui hai rinunciato è un figlio, allora tu sei e rimani per sempre una madre anche se gli hai detto di no, perché hai scelto di far parte di un movimento violento dispensatore di morte, assolutamente inconciliabile con la nuova vita che ti è sbocciata dentro.

Faranda: una madre

Quando entra nelle Brigate Rosse Faranda è già madre di una figlia di nome Alexandra, ma per portare avanti la rivoluzione totale in cui crede si convince che tutto debba essere sacrificato anche il ruolo di genitore. Nella realtà questo proposito fallirà, i legami di sangue continueranno a farsi sentire creandole conflitti e desolazioni interiori, nonché una non celata insofferenza verso le regole totalitarie del partito armato che impone ai suoi seguaci un distacco totale dalla vita di prima e una assoluta abnegazione alla causa collettiva.

Faranda si ribella a queste regole non interrompendo mai completamente i contatti con la famiglia, perché sono l’unica occasione per riuscire ad avere notizie della figlia. Per sentirsela vicina, nonostante la lontananza fisica, sceglie proprio Alexandra come nome di battaglia, ma non funziona, Faranda non è felice e si vede: “Adriana parlava con gli occhi. E i suoi nerissimi e sempre lucidi, dicevano con chiarezza che era triste. Che si portava dentro un’eterna malinconia, un magone ignoto agli altri[46], racconta la compagna di lotta Braghetti.

Questi tormenti interiori per il distacco dalla figlia contribuiscono a tenere vivi i dubbi che aveva all’inizio nei confronti delle BR: sacrificare ogni aspetto umano alla causa collettiva è un “dogma” che non accetta e la fa soffrire, ed è proprio questa sofferenza a spingerla a riflettere sulla bontà o meno della propria scelta, a porsi interrogativi morali, a non farsi accecare totalmente dall’ideologia. Del resto, Faranda era entrata nelle BR perché pensava che “una rivoluzione totale” potesse “liberare il mondo dal dolore”, ma questa rivoluzione a cui aveva aderito a lei non la stava affatto liberando, ma anzi le stava infliggendo un doloroso fardello interiore che giorno dopo giorno la consumava.

Per riuscire ad andare avanti con questo fardello dentro, Faranda reagisce comportandosi con estrema fermezza e durezza, come lei stessa racconta: “Se sembrano ancora più ‘dure’ dei loro compagni è anche perché le brigatiste, rispetto agli uomini, fanno più fatica a saltare il fosso della lotta armata e quando lo fanno vogliono dimostrare a se stesse, con il massimo della coerenza, che è stata una scelta giusta. Le donne che per loro natura sono più portate a scelte solidaristiche ci si dedicano quindi con la stessa passione totalizzante con cui si dedicano all’amore per il proprio uomo e con cui curano i figli[47].

In sostanza, visto che il prezzo da pagare è così alto tanto vale entrare nel ruolo della brigatista e agire, come richiesto, in modo estremo e radicale, anche se ciò significa violentare la propria natura, come racconta il suo compagno di vita e di lotta Morucci: “Seguire le regole le costava un enorme sacrificio, eppure generalmente era molto pignola… Come le altre donne che militavano nelle BR, anche Adriana si comportava con estrema fermezza. Insomma anche se la guerra era estranea alla sua natura, proprio perché l’aveva intrapresa facendo innanzi tutto violenza su se stessa, agiva in un modo estremo e radicale[48].

Un agire estremo e radicale che non solo non sanerà la frattura originaria presente nella sua natura di madre alla quale deve rinunciare, ma che ne creerà una ulteriore anche nella sua natura pacifica di donna: due fratture che si amplieranno, dilateranno, ingrandiranno sino a precipitarla nel vuoto di un profondo smarrimento esistenziale.

Le madri sono madri per sempre

La maternità (abortita o portata a termine) ha quindi avuto un’influenza in ciascuna delle tre brigatiste nell’ambito del proprio legame con le BR. Un ruolo che ha influenzato le loro azioni e sentimenti, evidenziando in tutte la sostanziale incompatibilità con il proprio essere madre e la lotta armata, ma anche il fatto che una volta che sei diventata madre, anche se per poche settimane prima di abortire, questa matrice la porterai sempre con te.

La femminista Lidia Ravera scrive: “La maternità è un fatto fisico […] Le donne restano sempre lì, accanto ai loro figli, restano madri. Per vocazione, per natura, per istinto, per convenzione, per tradizione… non so, comunque non scappano, non mollano. Le madri sono madri per sempre, non esistono le ex madri, come non esistono gli ex assassini: se hai dato la vita, se hai tolto la vita farai sempre i conti con quello che hai fatto. Nel bene, nel male. Dolorosamente, felicemente, nel profondo[49].

E questo vale anche se il figlio è stato abortito. Infatti, il concepimento di un figlio pone sin dall’inizio della gravidanza la donna nello status di madre: Balzerani lo chiama figlio il bambino che ha volontariamente abortito, e se da una parte c’era un figlio dall’altra parte non può che esserci ancora una madre, perché – come spiega giustamente Ravera – le ex madri non esistono. Quindi dopo un aborto, spontaneo o volontario che sia, è impossibile ritornare allo stadio precedente di donna che non ha mai avuto figli, ma si rimane nello status di madre: madre di un figlio perso, morto, ucciso, che non c’è più.

Come osserva in maniera del tutto laica il noto prof. di psicologia della personalità Aldo Carotenuto: “Se possibile, l’aborto dovrebbe essere evitato in tutti i modi e questo non per particolari valori o principi, ma semplicemente per il fatto che la ferita che un aborto lascia aperta nell’anima della donna non si rimargina mai. Il ricordo, le emozioni, il pensiero per il figlio che sarebbe potuto nascere ma che è stato strappato non si affievoliscono e continuano a tormentare la persona giorno dopo giorno. […] Abortire equivale a distruggere un’opera d’arte, è come se un grande pittore, creato un bellissimo quadro, lo distruggesse all’improvviso. Eliminare un’opera immortale, non è un’azione sulla quale si può passare sopra, rappresenta un grande problema che mai potrà essere del tutto superato. La perdita di un figlio, quindi, è un aspetto delicatissimo e difficile nell’esistenza di una donna, un aspetto con il quale occorre fare i conti[50].

Il distacco dalle radici di origine in Cagol e Balzerani

Abbiamo visto come il “dogma” di recidere la vita e i legami precedenti, imposto dalle BR ai propri adepti, abbia creato grandi conflitti interiori a Faranda, a motivo della sua condizione di madre, e di come Braghetti abbia continuato a condurre una doppia vita, con un piede fuori e uno dentro il gruppo armato, senza mai staccarsi dal suo lavoro né dai contatti con le zie fino a quando il precipitare degli eventi non l’ha costretta a farlo. Ma anche le pasionarie Cagol e Balzerani hanno incontrato problemi a staccarsi completamente dalle proprie radici, quelle radici che le legavano alla propria famiglia di origine.

Cagol, amate radici

Il legame profondo e connaturato con le proprie origini, sarà una costante in tutto l’arco della breve vita di Cagol. Un amore grande e ricambiato quello con la sua famiglia di origine, la quale non le farà mai mancare affetto e sostegno, nemmeno durante gli anni più duri della clandestinità.

Cagol viene dalla classica famiglia felice, trascorre un’infanzia e una giovinezza serene, si iscrive all’università di Trento solo perché si trova vicino a casa, durante gli anni di studio non frequenta più di tanto l’ambiente del Movimento Studentesco, perché il padre vuole che la sera rientri a casa presto. Cagol non si ribella, suo padre è affettuoso e presente e per lei accettare le sue regole non è un problema. Il senso forte che ha per la famiglia la porta a tenere i contatti anche con la famiglia di Curcio: quando per motivi politici lui si trova a viaggiare da una città all’altra del Sud è Cagol a scrivere alla cara mammy per aggiornarla sull’attività politica del figlio. Anche la scelta della Chiesa in cui celebrare il loro matrimonio, dopo la laurea, ricadrà su un luogo vicino a casa, il Santuario di San Romedio nella Val di Non, per far contenti i genitori. E nemmeno dopo il trasferimento a Milano con il marito, Cagol non interromperà mai i contatti con la famiglia: appena l’attività politica glielo consente, scrive lunghe lettere alla madre dove le racconta della sua nuova vita e delle cose che fa.

Finché gli eventi non prendono un’accelerazione, prima con le lotte e gli scontri di fabbrica, poi con la decisione di passare alla rivolta armata e, infine, con la scelta della clandestinità. Nonostante siano mesi caotici e confusi, Cagol si preoccupa di trovare il tempo per scrivere e rassicurare i genitori: “Abbiate fiducia nelle mie capacità e nella mia ormai grossa esperienza. So cavarmela in qualunque situazione e nessuna prospettiva mi impressiona o impaurisce. Vi voglio più bene che mai[51]. Una corrispondenza che continua anche dopo l’arresto di Curcio, quando è costretta a prendere in mano la Colonna torinese e tutti i giornali li dipingono come pericolosi e sovversivi: “Ora che Renato non c’è, tocca a me e ai tanti compagni che vogliono combattere questo potere borghese ormai marcio, continuare la lotta. Non pensate per favore che io sia incosciente… Voi direte, sono questi i mezzi da usare? Credetemi non ce ne sono altri. Questo Stato di polizia si regge sulla forza delle armi e chi lo vuol combattere si deve mettere sul suo stesso piano[52].

Sarà solo dopo la scelta definitiva della clandestinità che non comunicherà il nuovo indirizzo ai familiari, ma in tutto il suo percorso nelle BR Cagol “non riuscirà mai davvero ad abbandonare la sua ‘vecchia famiglia’, lei così esigente, con sé e con gli altri, talmente rigida nella convinzione di dover sacrificare tutto alla causa, non si libererà mai dall’idea di dover ricevere, in qualche modo, se non l’approvazione, almeno la comprensione dei suoi cari”. Come ricorda anche Franceschini, Cagol continuerà a sperimentare lacerazioni e profondi sensi di colpa nei confronti dei suoi familiari: “Mara era sempre in prima linea. Nell’organizzazione, nel pensare nuove campagne, nell’immaginare future operazioni. Aveva solo un grande problema: il rapporto con la sua famiglia, con la madre in particolare. Viveva in maniera lacerante l’idea di dare un dispiacere ai genitori e alle sorelle, aveva dei fortissimi sensi di colpa. Per quel che poteva, cercava di spiegare le sue ragioni. Poi, con la clandestinità, ha dovuto per forza tacere una parte della sua vita e ne soffriva perché sapeva che i suoi genitori erano preoccupati[53].

Balzerani, odiate radici

I legami familiari dell’infanzia e della prima giovinezza di Balzerani sono totalmente antitetici a quelli di Cagol. Abbiamo già visto come Balzerani abbia un gran numero di buone ragioni per staccarsi da Colleferro e dalla casa nativa: detesta quel posto e la gente che lo abita con quel loro modo di fare intriso di sensi di colpa e di rassegnazione; detesta il lavoro opprimente nelle fabbriche e lo sfruttamento arbitrario e palese perpetrato dai padroni; detesta la scuola come istituzione nella quale non trova nessuno stimolo culturale; ma soprattutto Barbara detesta la sua famiglia: il padre, con il quale ha un rapporto fortemente conflittuale e che influenzerà le sue relazioni con gli uomini, ma soprattutto la madre Maria, nei confronti della quale nutre un odio profondo. Una donna avara di carezze, sempre stanca, rassegnata nei confronti delle ingiustizie, dei sacrifici e delle mortificazioni del lavoro di fabbrica; una madre fredda, colpevolizzante e sadica, l’estranea da evitare quando rientra dalla fabbrica.

Appena l’età glielo consente, Balzerani scappa lasciandosi alle spalle città e famiglia: tutto quel mondo dove non si è mai sentita amata, che non le ha fornito nessuna risposta e che ha sempre percepito estraneo. Via lontano, verso la capitale, a Roma dove tutto può accadere, anche che lei diventi una brigatista. Sarà proprio dentro le Brigate Rosse che Balzerani troverà ciò che anelava e non aveva mai avuto: l’affetto dei compagni di lotta, l’amore di Mario Moretti il suo uomo ideale e la volontà fattiva di lottare contro la rassegnazione e le ingiustizie, tanto che, per la prima volta nella sua vita, qui Balzerani sperimenterà il sentirsi a casa.

Con un vissuto del genere dovrebbe essere relativamente semplice per Balzerani accettare il dogma delle BR che prevede di recidere vita e legami precedenti, e in effetti si tratta di una cancellazione che Balzerani ha già fatto ancor prima di entrare nel gruppo armato. Tuttavia, pur non sperimentando minimamente le profonde lacerazioni dense di sofferenza vissute dalle altre brigatiste in esame, sarà proprio all’interno delle BR che Balzerani riannoderà un filo delle proprie radici che aveva tagliato di netto, quello con la madre.

Lo vediamo quando Balzerani dovrà scegliere il nuovo nome da usare in battaglia, lei opterà per quello della madre, “Maria”. Perché scegliere proprio quel nome? Balzerani odiava la madre, era l’estranea da evitare, la donna fredda, colpevolizzante, sadica e anaffettiva, perché scegliere quindi “Maria” come nome di battaglia, rievocando continuamente il suo ricordo all’interno del gruppo armato? Perché tenersela così virtualmente stretta e vicina dopo averla convintamente cancellata fisicamente dalla propria vita? Possiamo capire la scelta di Faranda che sceglie di chiamarsi come la figlia: le mancava da morire! Al contrario, la scelta di Balzerani appare incomprensibile e illogica.

Tonelli – Sintini suggeriscono che quella scelta dimostri che Balzerani in fondo la madre l’amava: “La sua infanzia è caratterizzata da un odio […] specialmente nei confronti di quella madre che appare fredda, colpevolizzante e sadica, ma che avrebbe comunque tanto amato da scegliere il suo nome, ‘Maria’, quando entrerà nelle BR, anche se poi lo cambierà in ‘Sara’[54].

Era, dunque, un sentimento di odio/amore quello che l’ha fatta scappare dalle sue radici senza voltarsi indietro a soli diciannove anni, per buttarsi con assoluta convinzione nella lotta armata in cui per la prima volta ha sperimentato l’affetto che nella famiglia di origine non aveva mai ricevuto? Oppure è qualcos’altro? Più che un amore per il proprio “aguzzino” celato sotto un sentimento di odio, quello che qui emerge è forse un perdono: Balzerani può prendere il nome della madre perché ha capito, perché ha dato un significato alla sua vita con lei, del resto non è forse proprio quel vissuto che l’ha spinta ad andarsene e a incontrare un compagno e amici che la fanno stare bene e sentire amata? Staccandosi da quel vissuto, guardando al suo passato dal di fuori, con distacco è probabilmente riuscita a vedere le cose da una prospettiva diversa, più obiettiva, e a dare un significato persino all’avarizia affettiva della madre: forse era così perché replicava ciò che a propria volta non aveva ricevuto da piccola: non si può dare ciò che non si possiede, o forse perché il pesante lavoro in fabbrica la lasciava fisicamente stremata, prendendosi tutte le energie e le carezze che avrebbe voluto dare alla figlia: è risaputo che una vita dura indurisce anche il carattere e, comunque, con il duro lavoro e i sacrifici la madre contribuiva a sostentare la famiglia e di conseguenza anche la figlia. Balzerani ha, forse, capito queste cose e quindi può iniziare a guardare alla madre con occhi diversi, meno severi, più indulgenti, magnanimi, e pian piano sentire restringersi dentro, fino a scomparire del tutto, l’odio e il rancore che provava per lei.

Prendere il nome della madre può, in un certo senso, anche significare riscattare le fatiche e umiliazioni subite in fabbrica dalla madre, ergendosi a paladina contro le ingiustizie, contro i “padroni” che sfruttano gli operai, è come se dicesse alla madre: tu non hai avuto la forza di ribellarti, hai subito in silenzio e rassegnata, ma ora ci sono qui io a vendicarti, combatterò per ristabilire la giustizia e ridare una vita dignitosa alle persone sfruttate, per sconfiggere questo sistema disumano che ci ha tolto la serenità, ora cara mamma ti porto con me a combattere, finalmente io e te unite contro le iniquità.

Quel “Maria” appare quindi come una riconciliazione e una missione. Solo dopo aver fatto pace con le proprie radici, Balzerani potrà buttarsi anima e cuore nella rivoluzione con l’ardore che abbiamo visto. A questo punto il nome potrà essere cambiato in uno diverso, “Sara”: Balzerani si è riconciliata con il suo passato ed è tempo di spiccare il volo e impegnarsi nella nuova missione che dà senso a questo passato. I mezzi saranno tutti sbagliati, la lotta armata si rivelerà un fallimento e il volo terminerà con una rovinosa caduta, ma questo perdono, così difficile da concedere a chi nella vita ci ha fatto terribilmente soffrire, rimane una piccola luce nel percorso criminale di Balzerani nelle BR.

Senza radici non si vola

L’indagine psicologica ha ormai appurato che per poter spiccare il volo verso una vita autonoma occorre dare un significato al proprio passato, riconoscere le proprie origini sulle quali è impossibile vantare una libera scelta, perché le radici, come la vita, ci sono date. Per avere ali forti che non si rompano al primo temporale, occorre quindi esplorare e comprendere queste radici che attecchiscono, prima di tutto, nel terreno degli affetti familiari. Il legame con i propri genitori è, quindi, un vincolo incancellabile: si è padre e madre, figlio e figlia per sempre. Ne consegue che la pretesa di liberarsi con un semplice colpo di spugna dai propri legami è pura ideologia, come dimostrano le ferite e i moti interiori delle quattro brigatiste in esame.

Uno dei “dogmi” per entrare a far parte delle Brigate Rosse è proprio questo distacco radicale dalla vita di prima con tutto il suo bagaglio di vincoli, affetti, sentimenti, vissuto che porta con sé e che ci ha resi ciò che oggi siamo, come se fosse sufficiente formulare il principio teorico per realizzare in automatico questa separazione. I legami di origine con la propria famiglia sono considerati dall’ideologia sessantottina, della quale le brigatiste sono figlie, solo come un intralcio alla causa rivoluzionaria, come una imposizione involontaria alienante e repressiva dalla quale emanciparsi.

I loro vissuti ci dimostrano – com’era prevedibile – che una separazione meccanica di questo tipo è impossibile e se si cerca di realizzarla comunque con la forza insorgono i problemi. Per poter spiccare il volo verso una propria vita autonoma, i legami non vanno cancellati, ma riconosciuti e compresi. Inoltre non è detto che ogni vincolo involontario sia cattivo e che ogni emancipazione da esso sia buona. Per Cagol, ad esempio, è stato molto difficile recidere il legame con i familiari – e di fatto una separazione netta non avverrà mai –  perché ha sempre avuto con loro un buon rapporto, colmo di affetto, di comprensione e di sostegno. Seppur divorata dai sensi di colpa nei confronti dei genitori, da queste radici buone Cagol si è comunque emancipata facendo di “testa sua”, ma ha preso una strada sbagliata che l’ha portata a perdere prima un figlio non nato e poi a una morte prematura. Per Balzerani, al contrario, andarsene è stata la logica conseguenza di rapporti familiari freddi e conflittuali ma, prima di emanciparsi completamente e spiccare il volo verso una vita nuova (forse con ideali nobili, ma anche per lei con mezzi sbagliati) ha dovuto “fare i conti” con la figura della madre: seppur agevolata nel distacco, rispetto a Cagol, a causa di legami familiari negativi, ha dovuto elaborare e comprendere il suo passato riannodando ciò che aveva già reciso: per poter arrivare a “Sara” è dovuta prima passare attraverso “Maria”.

Faranda dimostra che se rinunci forzatamente ai tuoi legami (smettendo di fare la madre e tagliando i rapporti con tua figlia) e violenti la tua natura mite (imponendoti di agire con durezza), rischi di non sapere più chi sei e di perderti. Braghetti non ha mai reciso i contatti con il mondo, il lavoro e le zie, del resto non era nemmeno convinta di entrarci nelle BR, lei ci è finita dentro come un animale che cade in una trappola.

Non si può pensare che sradicare in modo forzato e violento quelle radici che hanno fatto di noi ciò che siamo, che abbiamo attecchite dentro nel profondo, possa essere un’operazione indolore priva di conseguenze, che non determini lacerazioni anche in noi e non condizioni di conseguenza anche il nostro futuro. Il filosofo Luigi Alici scrive: “Si può decidere liberamente di aderire ad un gruppo terroristico e, viceversa, si può riconoscere un segmento originario del nostro esistere, intessuto di legami involontari: non abbiamo scelto di nascere, non abbiamo scelto i nostri genitori, come pure la comunità territoriale o nazionale, con l’intero corredo di valori, usi e costumi cui si dà solitamente il nome di ethos. Questa rete di legami involontari può essere la tomba, oppure l’orizzonte della nostra libertà[55].

Liberazione e libertà

Il concetto di “liberazione” è lo spirito guida delle contestazioni del Sessantotto, che si ritrova alla base di ciascuno dei tre rami in cui si declinerà il Movimento: per gli studenti, liberazione da strutture politiche ed educative autoritarie e arretrate; per l’operaio-massa, liberazione da una struttura di fabbrica alienante, gerarchica e dispotica; per le femministe, liberazione dal ruolo tradizionale della donna quale casalinga, moglie e madre. In generale, ciò che unifica la protesta del Sessantotto, è la liberazione da qualsiasi forma di autorità in quanto tale.

La rivoluzione, come è noto, non vi fu e il movimento rifluì rapidamente, mentre alcune sue frange imboccavano la strada radicale e distruttiva della lotta armata che proseguirà per un decennio: il terrorismo “rosso” praticato da gruppi di estrema sinistra e il terrorismo “nero” di marca fascista.

Il terrorismo “rosso” si pone, quindi, l’obiettivo di realizzare la liberazione di cui sopra, attraverso un moto rivoluzionario armato e violento nel quale le donne brigatiste fanno la loro parte agendo esattamente come i brigatisti uomini: “Donne, tutte con lo stesso denominatore comune: ‘il fare’. L’agire per mutare una situazione non più sostenibile. Perché il motivo che sta alla base di tutte le scelte che oltrepassano il limite della legalità, assumendo la violenza come parola chiave dell’azione, scelte armate che valicano quel confine lecito e ancora sostenibile, sono comunque tutte riconducibili al desiderio di un cambiamento. Così, di fronte ad una strada già fissata, nasce in alcune donne la voglia della rottura totale di tutti gli schemi, il desiderio dell’avventura, del prendersi tutto rifiutando tutto, con un’uscita spettacolare da ogni struttura e sistema legale. La lotta armata dunque, è stata l’unica realtà politica italiana (a parte, ovviamente, il femminismo) in cui le donne risultano abbondantemente rappresentate […] Rivoluzione e lotta di classe restano il mezzo per uscire dal ‘ghetto’ della propria esistenza, rimangono gli unici mezzi di liberazione per l’uomo e per la donna[56].

Negli anni Settanta, quindi, le Brigate Rosse innescano una lotta armata rivoluzionaria esordendo con una serie di spettacolari sequestri di persona ai danni di magistrati e personalità del mondo imprenditoriale e sindacale, per poi passare a ferimenti “dimostrativi” e, infine, a una lunga catena di assassinii in cui figurano giudici, politici, giornalisti (come Carlo Casalegno vicedirettore della Stampa, e Walter Tobagi del Corriere della Sera), industriali ed esponenti delle forze dell’ordine, ma anche di personalità meno importanti come l’omicidio dell’operaio e sindacalista Guido Rossa, colpevole di aver denunciato alla polizia infiltrazioni di brigatisti nelle fabbriche. O anche di professori universitari come Vittorio Bachelet, fino ad arrivare al sequestro e poi all’assassinio del presidente del Consiglio Aldo Moro, che segnò il punto culminante del terrorismo italiano.

Fu proprio quest’ultimo evento, che suscitò una forte reazione nella coscienza popolare e nelle istituzioni, a segnare l’inizio del declino delle Brigate Rosse. Avvalendosi di speciali decreti antiterrorismo e di normative che riducevano la pena ai terroristi “dissociati” o “pentiti”, la magistratura e la polizia riuscirono, nel giro di alcuni anni, a sgominare l’intera organizzazione.

Dall’utopistica liberazione alla prigionia reale

La prima a essere arrestata, nel maggio 1979 esattamente un anno dopo l’assassinio di Moro, è Faranda, catturata insieme al compagno Morucci nell’appartamento che i due usavano come covo. Da allora Faranda ha girato quasi tutte le carceri italiane provviste di una sezione femminile. È stata in isolamento, in carceri speciali, in celle affollate e, dopo 16 anni trascorsi in prigione, dal 1995 è libera.

Poi è la volta di Braghetti, arrestata nelle vie del centro di Roma nel maggio 1980, esattamente due anni dopo l’uccisione di Moro. Braghetti viene condannata all’ergastolo, sconta la sua detenzione in molti penitenziari italiani inclusi quattro durissimi anni nel supercarcere di Voghera. Nel 1994 ha ottenuto il permesso di lavorare fuori dal carcere e nel 2002 la libertà condizionale.

L’ultima a essere arrestata è Balzerani, catturata all’uscita di un’abitazione a Ostia nel giugno 1985, sette anni dopo l’assassinio del presidente del Consiglio. Riceve varie condanne incluso l’ergastolo per l’omicidio di Moro. È stata in regime di “semi carcerazione”: lavorando di giorno in una società informatica e con l’obbligo la sera di rientrare in carcere. Nel 2011 è tornata libera.

Cagol, come già osservato, non farà in tempo a essere arrestata, viene uccisa il 5 giugno 1975, tre anni prima dell’assassinio di Moro, durante uno scontro a fuoco con i carabinieri nell’ambito del rapimento dell’industriale Vittorio Gancia.

L’ideale di liberazione e cambiamento, da attuarsi con la forza e la violenza, non solo non si è realizzato, ma si è beffardamente concluso per tutte con la perdita concreta della propria libertà: per Faranda, Braghetti e Balzerani il sogno termina dietro le sbarre in carcere e per Cagol in una bara al cimitero. La fondatrice delle BR è colei che ha subito la sconfitta più grande e le perdite maggiori: prima di un figlio in grembo e poi della sua stessa vita.

A ben guardare, se si considera il percorso delle quattro brigatiste dal loro ingresso nelle BR fino alla cattura, si può osservare come l’ideale utopistico di “liberazione” le abbia passo dopo passo condotte a una progressiva riduzione reale delle proprie libertà, come le loro vite siano andate incontro a rinunce e perdite continue non solo di affetti e relazioni familiari, ma anche di autonomia e libertà personali: perdita dei legami familiari, perdita della vita di prima, perdita della libertà di pensiero, della possibilità di critica e di esercitare una riflessione morale, perdita di un figlio (involontaria e volontaria), perdita della libertà di movimento (clandestinità) perdita della libertà (carcere), perdita della propria vita (Cagol).

L’ideale utopistico di “liberazione” è diventato, alla fine, una prigionia concreta. Una morte vera per Cagol; una morte figurata per Faranda: “L’arresto fu come una morte […] la fine era raggiunta improvvisa e rapida come giunge la notte[57]; un tempo ineluttabile e immobile per Balzerani: “All’improvviso tutto si ferma. E dunque la galera […] Gli anni passano senza lasciare tracce significative. Si aspetta sempre qualcosa, in un tempo che non è mai presente. Che a volte corre e scivola via e, quasi sempre, rimane irrimediabilmente fermo. In ogni caso non si fa appartenere come è sempre quando la vita è vissuta altrove[58].

Libertà, coscienza, dignità

La libertà appartiene a un trio di “sorelle” inseparabili, unite tra loro in un rapporto di dipendenza reciproca in modo tale che, se una di esse viene a mancare, annichiliscono anche le altre due: la coscienza e la dignità.

Come già visto, durante gli anni del Sessantotto, la libertà è vista solo in chiave di liberazione, ovvero di rottura totale da tutti quei condizionamenti involontari (corredo di affetti e valori, usi e costumi, comunità, tradizioni e periodo storico nel quale ciascuno e nato e cresciuto) e autorità in quanto tale, che imprigionano l’individuo. Una liberazione che, per il terrorismo, rende lecito e necessario anche l’uso della forza e della violenza.

La coscienza è quella voce interiore che ci sollecita a porci interrogativi morali, a interrogarci cioè sul bene e sul male delle cose e delle azioni. Abbiamo visto che quest’analisi morale era bandita all’interno delle BR, dove ai seguaci era unicamente chiesta l’adesione incondizionata ai dogmi e alle decisioni, pena l’immediata esclusione e condanna a morte.

La coscienza è un’istanza costitutiva della natura umana, un carattere innato il quale, sia che si appartenga alle fila dei credenti – identificando in questa voce interiore la voce di Dio che interpella l’uomo (coscienza cristiana) –, che a quella dei non credenti – identificando in essa una “ignota”[59] tensione al bene (coscienza naturale) –, dal punto di vista qualitativo è il medesimo per ogni uomo. La tensione a fare il bene e a evitare il male è identica in ciascun uomo perché si trova “scritta nel suo cuore”[60]. Di fronte alla coscienza che lo interpella, l’uomo (credente e non credente) si trova quindi davanti a un bivio: scegliere il bene e agire di conseguenza ponendo in essere un atto buono; o rifiutare consapevolmente questa tensione al bene e agire contro di esso ponendo in essere un atto malvagio.

La scelta libera dell’uomo verso il bene o verso il male, non è mai neutra, perché ciascun atto buono o cattivo compiuto comporta a propria volta delle conseguenze buone o cattive, sia in se stessi che verso coloro che sono direttamente o indirettamente coinvolti nella scelta compiuta. Una delle conseguenze più gravi che può ricadere su se stessi a seguito di una attitudine amorale costante, volta a evitare ogni domanda scomoda e a porsi volutamente contro questa istanza, è una coscienza malfunzionante e guasta. In questo caso la coscienza può diventare essiccata e sterile, oppure talmente elastica da coprire tutto, ovvero completamente disabilitata a distinguere il bene dal male e ad avere quel rigurgito di vita morale che è il rimorso. Ecco che allora tutto diventa lecito, anche fare una rivoluzione armata e uccidere senza alcuna pietà. Nelle BR la violenza diviene prassi, anzi un dovere civile, un atto ripetitivo e naturale che non scompone né sconvolge, una cosa buona e giusta per realizzare quella liberazione innalzata a valore assoluto e senso ultimo del proprio agire.

Si vede chiaramente che, quando la libertà è sganciata da qualsiasi riflessione morale e la coscienza ammutolisce, ne viene irrimediabilmente compromessa anche la dignità umana. L’uomo perde ogni valore, la vita non ha più alcun significato: assistere alla morte dei compagni di lotta o morire durante un’azione diventa un dato di fatto, uccidere una persona una cosa normale e necessaria.

Ma che cos’è la dignità? Ovvero, qual è l’opzione che fa della vita il valore più grande e rende ogni essere umano prezioso, unico e irripetibile? Dal punto di vista cristiano, la roccaforte della dignità umana e dei diritti umani è data da due condizioni fondamentali derivanti dalle Scritture: il fatto che l’uomo sia stato creato a immagine e somiglianza di Dio e perciò sta sotto la protezione personale di Dio, è “sacro”; e la condizione di fratellanza di tutti gli uomini che provengono da un unico padre “Adamo” e da un’unica madre “Eva”. La figliolanza e la fratellanza verranno definitivamente sigillati da Gesù (il secondo Adamo) che morirà per tutti per salvare tutti, riunendo gli uomini nell’amore fraterno e nella filiazione a Dio. Tutta la “vecchia” legge viene infatti radicalizzata e semplificata da Gesù con il bellissimo paradigma dell’amore al Padre e al prossimo[61].

Da quanto abbiamo appena detto ne consegue forse che chi non crede in Dio può sentirsi esonerato dal concedere una qualche dignità all’uomo? Niente affatto, anche per i non credenti è possibile pervenire alla dignità assoluta di ciascun essere umano con quella che viene comunemente definita “regola d’oro” e che recita “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te”, valida anche nella sua accezione positiva: “fai agli altri ciò che vuoi sia fatto a te”. Una legge “laica” universalmente riconosciuta, sulla quale non è ammessa ignoranza.

Donne come gli uomini

Un altro aspetto che ha accomunato tra loro le donne entrate a far parte delle Brigate Rosse è l’equiparazione del loro agire al modo di agire maschile.

All’interno del gruppo armato, come già osservato, “non esistono motivi di donna” ma di “ordine generale” come la lotta contro lo sfruttamento, la voglia di rivoluzione per ribaltare il sistema: “obiettivi neutri, da uomo come da donna”. Le brigatiste, quindi, sono anch’esse dei soldati, e al pari dei soldati maschi, partecipano alle azioni più dure e impegnative servendosi delle armi con freddezza e padronanza di sé, e con la consapevolezza che sparare include anche la possibilità di uccidere.

Abbiamo visto come Cagol eccelli nell’uso delle armi, superando in determinazione e abilità i brigatisti uomini e di come sia stata proprio lei – secondo le testimonianze di Curcio e Franceschini – a spronare il gruppo per passare alla lotta armata. Abilità dimostrate anche da altre brigatiste, come riporta una donna vicina alle BR: “Vi dico che le donne non hanno proprio nessun problema a prendere le armi e a sparare. Sono proprio bravissime… io penso addirittura che la donna nel rapporto con le armi ci metta ancora più rabbia dell’uomo e quanto più c’è rabbia c’è forza[62].

Le brigatiste appaiono quindi perfettamente integrate e a proprio agio in ruoli precipuamente maschili, ma in quanto donne questa scelta ha imposto loro un prezzo enorme da pagare: mortificare, annullare, svilire la propria natura femminile. Di fatto – come già visto – far parte delle BR ha precluso alla maggior parte di loro di essere madri: Faranda dovrà rinunciare al rapporto con la figlia, Balzerani rinuncerà volontariamente a un figlio e Cagol, pur volendolo e desiderandolo, un figlio lo perderà.

Scegliere di comportarsi come un uomo implica pertanto alla donna una rinuncia radicale di sé, la negazione della sua innata naturalità che non è solo fisica, ma anche psichica e spirituale.

Diversi ma complementari

Infatti, benché uguali per importanza e valore, uomo e donna sono tra loro concretamente diversi. Dal punto di vista fisico l’uomo e la donna sono esseri condizionati dal sesso, ciò determina non solo delle ovvie differenze anatomiche ma anche psicologiche e spirituali. La sessualità, infatti, non è una cosa che la persona possiede (come gli organi genitali) ma qualcosa che la persona è: uomo o donna. Il maschile e il femminile sono dimensioni dell’essere e della personalità umana: l’umano si articola in “donna” e “uomo” in una reciprocità e complementarità tra i due che è un fatto indiscutibile. Anziché considerare ciascuno come incompleto che si completa nell’altro, quello che li contraddistingue e che entrambi sono relativamente completi, nel senso che ciascuno dei due ha tutto, ma non nella stessa forma, né nella medesima proporzione. Per questo nessuno basta a se stesso e ognuno necessita dell’esserci dell’altro.

La donna è “aiuto” per l’uomo, come l’uomo è “aiuto” per la donna, dall’incontro tra i due scaturisce un’unità basata non sulla logica dell’egocentrismo e dall’autoaffermazione, ma su quella dell’amore e della solidarietà. Si comprende allora che pretendere un’uguaglianza tra i sessi è un’operazione impossibile, così come lo è per una donna cercare di essere come un uomo, un’operazione che se forzata può condurre al completo annichilimento della propria natura innata.

La missione del “genio” femminile

Dispensatrici di pace

Questo annientamento risulta in maniera evidente quando le donne si mettono a fare la guerra al medesimo livello e al fianco degli uomini, come nel fenomeno del terrorismo. Il conflitto armato e, quindi, la violenza è infatti un moto tipicamente maschile, estraneo all’indole femminile.

Gli psicologi Musso e Gadoni riportano una sintesi significativa delle differenze esistenziali tra il maschile e il femminile: “Nel simbolo della diversa sessualità (l’una intrusiva e l’altra recettiva), è già evidente una prima opposizione polare: da un lato, il penetrare, l’estrinsecarsi, il produrre, l’ambire e trasformare maschile; dall’altro, l’accoglienza femminile, il permettere che avvenga in sé, l’elaborare che protegge e conserva. Di qui non è difficile risalire alle tematiche esistenziali. L’esistenza maschile appare sotto il segno distintivo del tendere all’esterno, la sua azione penetra e afferra il mondo, il quale, secondo una modalità femminile, viene invece riportato immediatamente all’interiorità. All’irrequietezza maschile fa riscontro la stabilità femminile. Poiché il mondo aperto e lontano si trova per l’uomo sotto il segno della lotta e della conquista, esso diventa un mondo di cose; quello della donna, invece, è un mondo di persone. La posizione eccentrica dell’esistenza maschile porta l’uomo a vivere il mondo come realtà ostile al suo operare; grazie invece alla femminilità, l’esistenza umana è ricondotta nell’immediatezza della vita, e il mondo viene indagato come orizzonte di valori. Nella prima posizione, la logica è quella della violenza, dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura; nella seconda, la logica è quella della riconciliazione, dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura. Questo presupposto, fuor di dubbio, favorisce l’impostazione del noi in modo coerente, senza che venga meno l’essenza di ciascuno[63].

Mentre per l’uomo “fare la guerra” fa parte della propria natura come, di fatto, mostrano i protagonisti tutti maschili dei conflitti armati che hanno attraversato la storia dell’umanità, per la donna usare la violenza significa andare contro la sua natura, lei, così vicina al mistero della vita è più incline alla “pace”, a riconciliare l’uomo con l’uomo.

Compito delle donne non è perciò quello di essere come un uomo, mettendosi con lui a competere in violenza e spietatezza, ma valorizzare la propria peculiarità naturale per salvare l’uomo e con esso l’umanità, come ben esprime Gandhi nel suo “L’arte di vivere”: “Vorrei che la donna si rendesse conto della forza latente che possiede… È in suo potere rendere il mondo più degno di essere abitato, e dovrebbe farlo per se stessa come anche per il suo compagno, l’uomo – sia padre, figlio o marito – smettendola di ritenersi debole e adatta perciò soltanto ad essere la bambola che diverte il maschio. Se non si vuole che la società sia distrutta da guerre insane tra nazione e nazione e da guerre ancora più insane contro i suoi fondamenti morali, la donna deve fare la sua parte, non scimmiottando l’uomo, come alcune cercano di fare, ma da vera donna. Ella non migliorerà l’umanità mettendosi a gareggiare con l’uomo nella sua abilità di distruggere la vita senza uno scopo. Deve essere, invece, suo privilegio allontanare l’uomo che sbaglia dal suo errore, errore che ha il potere di trascinare nel baratro anche la donna […] La donna è la personificazione del sacrificio e perciò anche della nonviolenza. Le loro occupazioni devono dunque essere, come di fatto sono, più dirette alla pace che alla guerra. Non fa onore alla civiltà moderna che ora la donna venga preparata a propositi di violenza e di guerra. Non ho alcun dubbio che la violenza si addice così male alla donna che presto, dal profondo della sua natura, si ribellerà contro di essa […] A lei è stato dato di insegnare le arti della pace ad un mondo bellicoso, che ha sete di quel nettare. Lei può diventare la guida del satyagraha[64], perché questa arte non richiede la sapienza che si acquista sui libri, ma un cuore forte che deriva dalla sofferenza e dalla fede[65].

La violenza, afferma Gandhi, “ha il potere di trascinare nel baratro anche la donna”, Cagol, Balzerani, Faranda e Braghetti ne sono le perfette testimoni. La lotta armata è fallita, dichiarerà Faranda in un’intervista al Corriere della Sera, un fallimento che si è portato appresso la rovina dei suoi protagonisti.

Seminatrici di umanità

Nella natura propriamente femminile, san Giovanni Paolo II intravede la vocazione specifica della donna, la sua peculiare e fondamentale missione di seminatrice di umanità. Nella Lettera apostolica “Mulieris Dignitatem”[66] scrive: “La maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno della donna: la madre ammira questo mistero, con singolare intuizione ‘comprende’ quello che sta avvenendo dentro di lei […] Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che si sta formando crea, a sua volta, un atteggiamento verso l’uomo – non solo verso il proprio figlio, ma verso l’uomo in genere – tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna. Si ritiene comunemente che la donna più dell’uomo sia capace di attenzione verso la persona concreta e che la maternità sviluppi ancora di più questa disposizione. L’uomo […] si trova sempre ‘all’esterno’ del processo della gravidanza e della nascita del bambino, e deve per tanti aspetti imparare dalla madre la sua propria ‘paternità’”.

La donna, quindi, in quanto generatrice di vita imprime un “segno essenziale su tutto il processo del far crescere come persona i nuovi figli e figlie della stirpe umana”. Nonostante la maternità della donna sia un processo fisico essenzialmente “passivo”, nel senso che “avviene” in lei, tuttavia esso la coinvolge in profondità lasciandole un segno indelebile anche dal punto di vista psichico e spirituale. La maternità “esprime una creatività molto importante della donna, dalla quale dipende in misura principale l’umanità stessa del nuovo essere umano. Anche in questo senso la maternità della donna manifesta una speciale chiamata e una speciale sfida, che si rivolgono all’uomo e alla sua paternità”.

Compito e missione della donna non è quindi solo generare una nuova vita, ma anche imprimere in essa l’umanità, che si riverbererà poi intorno e nel mondo rendendolo un luogo più umano. Questa chiamata – continua il papa – non è una prerogativa della donna in quanto madre, ma della donna in quanto “donna”, a motivo della sua propria femminilità: “Questo riguarda tutte le donne e ciascuna di esse, indipendentemente dal contesto culturale in cui ciascuna si trova e dalle sue caratteristiche spirituali, psichiche e corporali, come, ad esempio, l’età, l’istruzione, la salute, il lavoro, l’essere sposata o nubile”.

Alla donna in quanto tale è, quindi, affidato l’uomo e la sua umanità, e questa consegna costituisce la speciale vocazione della donna: “La forza morale della donna, la sua forza spirituale si unisce con la consapevolezza che Dio le affida in un modo speciale l’uomo, l’essere umano. Naturalmente, Dio affida ogni uomo a tutti e a ciascuno. Tuttavia, questo affidamento riguarda in modo speciale la donna – proprio a motivo della sua femminilità – ed esso decide in particolare della sua vocazione”.

È proprio questo tempo, nel quale si registra “una graduale scomparsa della sensibilità per l’uomo” e “per ciò che è essenzialmente umano”, che necessita della manifestazione del “genio femminile”. Compito della donna non è quindi quello di emulare l’uomo o cercare di diventare come lui, ma di assicurare “la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo! E perché ‘più grande è la carità’”.

La guerra “interiore”

Guerra armata e violenza sono quindi estranee per natura all’universo femminile, tuttavia, le donne entrate a far parte delle BR hanno mostrato di essere in grado di perseguirle con freddezza e determinazione al pari, e forse anche di più, dei compagni di lotta maschili. Viene perciò da chiedersi cosa possa essere subentrato da soffocare in maniera così evidente una natura per istinto non violenta. Possono forse bastare l’ideologia o le motivazioni politiche a spiegare un così netto stravolgimento del proprio essere? L’analisi psicologica suggerisce che le motivazioni ideologiche e politiche si siano probabilmente combinate con una mancanza di pace interiore.

Lo psichiatra Giacomo Dacquino spiega[67] infatti che ogni forma di violenza, e più in generale la cultura dell’odio che prevale su quella dell’amore, ha alla radice un’unica causa: la mancanza di pace interiore. È da questa violenza sotterranea che hanno origine tutti quei fenomeni violenti proiettati all’esterno (l’aggressività negli stadi, nella vita di tutti i giorni, in famiglia… gli stupri, la guerra, il terrorismo…), e anche quei fenomeni violenti che l’uomo proietta su se stesso (le frustrazioni affettive, l’abuso di droghe, alcool, farmaci, sigarette, i disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia); tutti con la stessa causa di fondo: la mancanza di pace dentro di sé.

La pace, infatti, inizia dentro se stessi e “presuppone l’amarsi, non per sviluppare la ‘strategia dell’oasi’ o la ‘cultura dell’Io isolato’, ma per migliorarsi nell’accettazione e nella solidarietà. Infatti la pace con noi stessi, conseguenza di un rapporto armonico tra le varie parti della psiche, conduce anche alla pace con gli altri. Pace non soltanto come assenza di guerra […] ma come sintonia, concordia, collaborazione”.

La pace è sintomo” – continua Dacquino – della propria salute psichica e spirituale; non dipende soltanto da eque soluzioni politiche, sociali ed economiche, pur necessarie, ma “è la sublimazione del nostro istinto aggressivo. Istinto che, quando restiamo in balìa di certe sue pulsioni primitive, ci porta ad aggredire. E lo dimostra il fatto che negli ultimi tre secoli, soltanto in Europa, si sono verificate 186 guerre, quasi una per anno”. “La pace è dunque il frutto di una maturazione psicoaffettiva che conduce verso il perdono e l’oblatività. Se ne saremo portatori interiormente, potremo espanderla in ogni rapporto; se invece ne saremo privi, faremo la guerra agli altri quale conseguenza dei nostri conflitti”.

Dopo queste riflessioni possiamo ora comprendere ancora di più la rabbia di Balzerani e di come questa “guerra interiore” l’abbia condotta a militare nelle Brigate Rosse. Una rabbia che si è dissolta nei confronti della madre dopo l’elaborazione del suo rapporto con lei, ma che è poi proseguita più forte che mai nei confronti degli altri: i “padroni” e tutti coloro riconducibili allo “Stato imperialista”. E alla quale nel tempo si è sommata anche “la gelida sensazione di sterile vuotezza per l’amore di quel figlio che non ho consentito di crescermi dentro”.

Possiamo capire anche l’agire successivo di Cagol. L’infanzia serena e i buoni rapporti con la famiglia di origine portano a escludere che sia stata una qualche “guerra interiore” a portarla assieme ad altri a fondare le BR: in questa prima fase ha probabilmente prevalso l’accecamento ideologico. Tuttavia, abbiamo anche visto come la perdita violenta del figlio che portava in grembo abbia rappresentato per lei uno spartiacque nell’ambito della lotta armata. Con l’aborto Cagol ha iniziato a sperimentare una “guerra nel cuore” improvvisa e terribile che, unendosi alla spinta ideologica e all’indole impulsiva, l’ha trasformata nella guerrigliera estrema e violenta che tutti ricordano.

Possiamo comprendere meglio anche Faranda. La sua “guerra nel cuore” è di tipo esistenziale. Poiché, come riconosce la psicologia, i sentimenti che vediamo negli altri e intorno a noi, sono quelli che ci appartengono, il dolore che Faranda vede nel mondo e al quale ha dichiarato guerra, entrando nelle BR, si trova dentro di lei. La sua vicenda ci mostra anche che Faranda avverte in se stessa la mitezza innata dell’essere donna, la quale si è forse acuita con la nascita della figlia Alexandra: “La guerra era estranea alla sua natura” – racconta il compagno Morucci – “l’aveva intrapresa facendo innanzi tutto violenza su se stessa” agendo “con estrema fermezza… in modo estremo e radicale”. L’allontanamento forzoso dalla figlia e dal suo essere madre, che deve forzatamente accettare per il tipo di guerra che Faranda ha intrapreso contro il dolore (fuori, ma dentro di sé), la allontana anche dalla sua innata natura femminile, che pur non cessa di percepire, portandola a dirigere la “guerra” anche contro se stessa, con una violenza consapevole contro l’umanità e la sensibilità che in quando donna e madre le appartengono; intrappolandola in un certo qual modo in un circolo vizioso poiché il suo agire “contro natura” la allontana ancora di più da se stessa, amplificando e dilatando ulteriormente la “guerra nel cuore” esistenziale di “partenza”.

Diventare operatori di pace

È vero che le Istituzioni e lo Stato possano essere ingiusti, e di fatto spesso lo sono; è vero che la scuola possa non essere adeguata ai cambiamenti sociali e incapace di fornire adeguati stimoli culturali, chi non lo vede? È anche vero che i genitori possano essere manchevoli e che, in certi casi, più che incoraggiare le naturali predisposizioni dei figli, aiutandoli a costruire la propria strada e la propria peculiare scelta di vita, accrescano in loro limiti e complessi e ne ostacolino il cammino verso l’autonomia e la maturità.

E, soprattutto, è certamente vero che si possono incontrare difficoltà ad amare se non si è ricevuto amore: amare è infatti una cosa che si impara e i primi maestri al riguardo sono proprio i genitori, sia amandosi reciprocamente che riversando questo loro amore ai figli. Tuttavia, come ricorda la psicoterapeuta Gianna Schelotto “non si deve strumentalizzare un’infanzia infelice facendone un comodo alibi. Si può e si deve diventare adulti pur avendo sofferto molto dolore. Perché, anche se cresciuto in una famiglia malata, ognuno porta con sé, sorprendenti capacità di recupero[68]. Senza dimenticare che in un’ottica cristiana – come precedentemente osservato – il dolore ha anche un prezioso significato salvifico: ci avvicina a Cristo e con Lui alla salvezza eterna.

Si capisce allora che non è giustificabile né limitarsi, da un lato, a incolpare le Istituzioni e lo Stato rimanendo inerti e sottomessi, evitando qualsiasi impegno per migliorare l’esistente; oppure, al contrario, innescare una lotta armata, imbracciando in modo irriflessivo e violento le armi per far fuori fisicamente tutti coloro che sono considerati complici di quel Sistema che si ritiene inadeguato, autoritario e ingiusto.

La vita va progettata in positivo, ma per progettare prima bisogna “capire”. Non si può fare un buon programma lasciandosi abbagliare da ideologie violente o basandosi su analisi superficiali (come le analisi politiche e sociali di Cagol); tantomeno con delle basi del genere è possibile pensare di cambiare il mondo e renderlo migliore. Inoltre, come visto, per “capire” è necessario prima “conoscersi”, affinché il progetto non sia un mero condizionamento di un passato doloroso (vedi Balzerani), o una semplice reazione a un torto subito o, più in generale, originato da un senso di rivalsa o di vendetta.

Diventare portatori di pace va ben oltre l’attivismo pacifista, soprattutto poi se mentre si sollevano slogan e striscioni contro i “signori della guerra” si danneggiano con spranghe e pietre le vetrine dei negozi e le auto parcheggiate, si incendiano i cassonetti della spazzatura e si mette a ferro e fuoco la città. Ovvero si passa con assoluta incoerenza dagli slogan contro la guerra alla guerriglia urbana. Soprattutto non si può costruire un mondo più giusto e migliore se si è pieni di violenza e armati fino ai denti come gli esponenti del terrorismo italiano. Ma non si è operatori di pace nemmeno se si è mossi unicamente dalla difesa della propria quiete, del proprio “orticello”, dei propri affari e benessere personale.

Diventare una persona di pace – scrive Dacquino – significa non avere più la guerra nel cuore, cioè “saper riconoscere le proprie violenze quotidiane, quelle che si fanno a se stessi e agli altri. Vuol dire superare egoismi, rancori, rivalse e quindi non ferire con parole, toni e gesti […] Equivale soprattutto a saper perdonare se stessi e gli altri perché la peggior immaturità è la mancanza di misericordia che priva della grande gioia spirituale del perdono, fonte di serenità non soltanto per chi lo riceve ma anche per chi riesce a concederlo. Non avere la guerra nel cuore significa aver smorzato l’odio con l’amore, traducendo questo sentimento in un comportamento concreto di vita[69].

Per la donna, diventare una persona di pace significa in particolare accogliere il suo essere femminile come una vocazione e una missione, contribuendo, con i sentimenti innati che le sono propri, a rendere il mondo più mite e umano. Questo non può consistere nel mettersi a competere con l’uomo in violenza e crudeltà, ma semmai nel provare a fermare la mano dell’uomo che si accinge a colpire.

Per la donna, diventare una persona di pace significa accogliere la vita (attesa o imprevista) che sboccia nel proprio ventre e capire che uccidere un figlio non nato non è un diritto, ma una guerra sotterranea e nascosta, non meno cruenta e violenta delle altre, che alle bombe e alle armi sostituisce ferri taglienti, pompe aspiranti e pillole tossiche, e ha in più l’aggravante di prendere di mira un innocente che non può né protestare né difendersi.

Abbiamo visto che l’aborto lascia aperta nell’anima della donna una ferita che non si rimargina mai e che Balzerani descrive come una “gelida sensazione di sterile vuotezza”. L’aborto è quindi una ferita che incrina nella donna quella “pace nel cuore” necessaria per costruire un mondo più pacifico e umano che costituisce – come spiega san Giovanni Paolo II – la peculiare vocazione della donna. Se consideriamo che dalla sua legalizzazione, l’aborto ha causato più di un miliardo di figli uccisi[70], pensiamo al numero enorme di donne che si portano dentro una “guerra nel cuore”, al dolore, alla sofferenza, ma anche alla rabbia e al rancore, in generale a tutte quelle manifestazioni ampiamente note ai consulenti del post-aborto, che a causa di questa “guerra nel cuore” riversano nel mondo, intorno a sé, nei rapporti con gli altri e, non di rado, anche contro se stesse. Anziché riconciliare l’uomo con l’uomo e rendere il mondo più umano, nell’ultimo quarantennio la donna, tradendo la sua peculiare missione, ha ingaggiato una guerra vera e propria contro l’uomo, contribuendo a rendere il mondo un luogo più inospitale e disumano.

Tra l’uguaglianza e la differenza vi è la collaborazione

Dai moti del Sessantotto in poi, si sono delineate due tendenze nell’affrontare la questione femminile. Una marcatamente contestativa e identitaria in cui la donna si costituisce come antagonista dell’uomo entrando con questi in competizione. Ciò determina una rivalità tra i sessi dove gli uomini sono considerati come dei nemici da vincere. Tra le due parti si instaura una contrapposizione diffidente e difensiva dove – da un lato – le donne si chiudono all’interno dei propri modelli, delle proprie psicologie e delle proprie storie in un processo di auto-ghettizzazione e – dall’altro lato – si appropriano di caratteristiche propriamente maschili dove, agli abusi di potere, rispondono con una strategia di ricerca del potere.

L’altra tendenza è, in sostanza, quella che viene oggi chiamata ideologia gender, ovvero la totale insignificanza tra i sessi. Qui è la dualità uomo-donna che va combattuta in quanto apportatrice di discriminazioni e intolleranza. Si ritiene, infatti, che sia proprio la differenza biologica tra il maschile e il femminile a provocare il ruolo emarginato e subalterno della donna così, al fine di evitare ogni supremazia tra i due, si cancellano le differenze sessuali attraverso un’operazione prettamente culturale. A livello pratico significa che si può nascere maschio e diventare donna e viceversa; oppure si può essere insieme donne e uomini; oppure l’umanità potrebbe scivolare verso una neutralità sessuale. In sostanza, si può nascere di sesso maschile e femminile, ma questo non impedisce – se si eliminano gli ostacoli culturali – di divenire un “genere” che non coincida esattamente con il proprio sesso. Quello che ne esce è un totale appiattimento e una omologazione tra l’uomo e la donna.

Tra le due opposte tendenze, la cultura cattolica propone la collaborazione. Infatti, nonostante le operazioni culturali artificiose, uomini e donne rimangono naturalmente differenti, non solo a livello fisico, come già osservato, ma anche psicologico e spirituale. Le differenze tra i due sono antropologicamente profonde e innate e perciò impossibili da cancellare con un ragionamento ideologico. Analogamente, queste diversità non devono nemmeno alimentare una lotta tra i sessi che sfoci in una competizione reciproca individualistica e incentrata sulla propria ed esclusiva realizzazione di sé.

Non appiattimento né omologazione, quindi, e nemmeno concorrenza né rivalità, l’ottica è quella della collaborazione, con un approccio relazionale e solidale. Così come l’uomo può esprimere le proprie peculiarità maschili, la donna può esprimere le proprie peculiarità femminili, essendo portatrice di valori senza i quali l’umanità si chiuderebbe nell’autosufficienza, nei sogni di potere e nella tragedia della violenza. Valori che sfidano la donna stessa affinché impari a riconoscerli e valorizzarli in sé in vista della sua peculiare missione di rendere il mondo più umano e pacifico.

Non conviene quindi alla donna cercare di essere come un uomo o fare la guerra come un uomo, appropriandosi di caratteristiche non sue, annichilendo la propria natura intrinseca. Un’operazione che non solo non la realizzerà come donna, ma che la condurrà a perdere la sua sostanziale ricchezza che san Giovanni Paolo II ha spiegato coniando la splendida espressione di “genio femminile”.

È con la collaborazione tra il maschile e il femminile che si può giungere a un mondo più giusto e umano, nel rispetto delle reciproche differenze e peculiarità, e con la consapevolezza che ciascuno ha delle responsabilità dalle quali non si può esimere perché i tempi migliori si costruiscono insieme.

(Il saggio è stato rivisto e modificato dopo la prima pubblicazione in questo sito il 2 luglio 2010).

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[1] Sintini S., Tonelli A. (Relatore), Donne di piombo. La partecipazione femminile nel brigatismo italiano, Tesi di Laurea anno accademico 2008-2009, Università degli studi di Urbino “Carlo Bo” – Facoltà di Scienze politiche – Corso di Laurea in Scienze Politiche, p. 33.

[2] Ivi, p. 42.

[3] Ivi, p. 36.

[4] Ivi, p. 18.

[5] Ivi, p. 10.

[6] Ivi, p. 2.

[7] Ivi, p. 13.

[8] Ivi, p. 29.

[9] Ivi, p. 24.

[10] Ivi, pp. 7, 8

[11] Ivi, p. 13.

[12] Ivi, p. 8.

[13] Ivi, pp. 13, 14.

[14] Ivi, pp. 43, 44.

[15] Così la descrive Germano Maccari, coinquilino nei giorni del sequestro Moro: “Era una femminista, una compagnuccia di quartiere, conosciuta, ex fidanzata di Bruno Seghetti… È entrata a far parte delle Brigate Rosse per comprare un appartamento ed è stata poi partecipe di tutto ciò che successivamente è successo in Italia”, Ivi, p. 41.

[16] Ivi, p. 6.

[17] Ivi, p. 10.

[18] Ivi, p. 14.

[19] Ivi, p. 14.

[20] Ivi, p. 36.

[21] Ivi, p. 36.

[22] Nicoletta Tiliacos, “La morte nella politica. Perché il fine vita è diventato l’argomento centrale nelle discussioni delle persone che volevano cambiare il mondo”, Il Foglio, 22 aprile 2009.

[23] Giovanni Paolo II, Il progetto di Dio. Decalogo per il terzo millennio, Piemme, Casale Monferrato (Al), 1994, p. 125.

[24] Sintini – Tonelli, ibid., p. 37.

[25] Ivi, p. 13.

[26] Ivi, p. 37.

[27] Ivi, p. 24.

[28] Ivi, p. 21.

[29] F. Agnoli, op. cit., p. 219.

[30] Sintini – Tonelli, ibid, p. 35.

[31] Ivi, p. 25.

[32] Ivi, p. 26.

[33] Ivi, p. 32.

[34] Ivi, p. 28.

[35] Ivi, p. 26.

[36] Ivi, p. 24.

[37] Ivi, p. 31.

[38] Giovanni Paolo II, ibid, p. 139.

[39] Sintini – Tonelli, ibid, p. 9.

[40] Ivi, pp. 42, 43.

[41] Ivi, pp. 43, 44.

[42] Ivi, p. 14.

[43] F. Agnoli, ibid, p. 28.

[44] Sintini – Tonelli, ibid, p. 27.

[45] Ivi, p. 34.

[46] Ivi, p. 43.

[47] Ivi, pp. 12, 13.

[48] Ivi, p. 43.

[49] Lidia Ravera, “Il diritto di scegliere”, L’Unità, 24 settembre 2008.

[50] Aldo Carotenuto, L’anima delle donne. Per una lettura psicologica al femminile, I edizione Tascabili Bompiani febbraio 2004, RCS Libri Spa, Milano, 2001/2004, p. 232.

[51] Sintini – Tonelli, ibid, p. 24.

[52] Ivi, p. 32.

[53] Ivi, p. 29.

[54] Ivi, pp. 30, 31.

[55] Luigi Alici, Educare alle relazioni e ai legamiEducare alla vita, Periodico dell’Associazione Scienza & Vita, Quaderno n. 5, 2009, www.scienzaevita,org, p. 14.

[56] Sintini – Tonelli, ibid, pp. 6, 7.

[57] Ivi, p. 44.

[58] Ivi, p. 40.

[59] Nel discorso all’Areopago di Atene così l’apostolo Paolo si rivolge agli ateniesi: “Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dèi. Passando infatti e osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve lo annuncio” (At. 17, 22-23).

[60] Così scrive San Paolo nella Lettera ai romani: “Quando i pagani che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono” (Rm 2, cap. 2, 14-15).

[61] Alla domanda rivolta dal fariseo a Gesù, per metterlo alla prova, su quale sia il più grande comandamento della legge, Gesù risponde: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la legge e i Profeti” (Mt 22, 37-40).

[62] Sintini – Tonelli, ibid, p. 11.

[63] Angelo Musso, Ornella Gadoni, Lo psicologo nel cassetto. I consigli per conoscere te stesso e gli altri, Mondolibri Spa, su licenza DVE Italia, Milano, 2008, pp. 445, 446.

[64] Letteralmente “forza della verità”, è la forma di lotta basata sul principio induista dell’ahimsa (“non violenza”) e attuata attraverso la disobbedienza civile e la resistenza passiva.

[65] Gandhi, L’arte di vivere, Mondolibri Spa, su licenza DVE Italia, Milano, 1989, pp. 198, 202, 205.

[66] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Mulieris Dignitatem. Sulla dignità e vocazione della donna, 15 agosto 1988.

[67] Giacomo Dacquino, Che cos’è l’amore. L’affetto e la sessualità nel rapporto di coppia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994, pp. 308, 309.

[68] Dacquino, ivi, p. 311.

[69] Ivi, p. 310.

[70] Antonio Socci, Il genocidio censurato. Aborto: un miliardo di vittime innocenti, Piemme, Casale Monferrato (Al), 2006, p. 10.

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Indice:

Le radici religiose delle Brigate rosse

L’adesione al gruppo armato

Il fervore in Cagol e Balzerani

  • Cagol: dalla chitarra alla rivoltella
  • Balzerani: dietro la rabbia, il dolore
  • La passione: vizio o virtù?

I dubbi in Braghetti e Faranda

  • Il partito armato non ammette riflessioni morali

Madri e rivoluzione

  • Cagol, la maternità sottratta
  • Balzerani, la maternità rifiutata
  • Faranda: una madre
  • Le madri sono madri per sempre

Il distacco dalle radici di origine in Cagol e Balzerani

  • Cagol, amate radici
  • Balzerani, odiate radici
  • Senza radici non si vola

Liberazione e libertà

  • Dall’utopistica liberazione alla prigionia reale
  • Libertà, coscienza, dignità

Donne come gli uomini

  • Diversi ma complementari

La missione del “genio” femminile

  • Dispensatrici di pace
  • Seminatrici di umanità

La guerra “interiore”

  • Diventare operatori di pace

Tra l’uguaglianza e la differenza vi è la collaborazione

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