L’emergenza ecologista e il nuovo ordine mondiale: perché i conservatori dovrebbero sparigliare

di Gaetano Quagliariello.

Continua l’approfondimento dell’Occidentale sul tema ambientale e il ruolo dei conservatori. Pubblichiamo qui l’intervento di Gaetano Quagliariello nel dodicesimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, dal titolo “Ambientalismo e globalismo: nuove ideologie politiche”, realizzato dall’Osservatorio Van Thuan a cura di Riccardo Cascioli, Giampaolo Crepaldi e Stefano Fontana (ed. Cantagalli).

Una questione di metodo

Di fronte a un problema che c’è, ed è evidente, il modo giusto per contrastare false rappresentazioni, schemi contraddittori e ricette ideologiche non è negare l’esistenza del problema stesso, ma contrapporre alle letture distorte una visione consapevole e razionale della realtà.

La questione ambientale è un terreno ideale sul quale tentare questo cambio di approccio. Al cospetto infatti di un ecologismo assurto quasi a religione civile, fondato sul sovvertimento dell’ordine naturale e divenuto arma di lotta politica e soprattutto di guerra geopolitica, pensare di difendersi trincerandosi dietro quello che con un termine abusato può definirsi “negazionismo” significa regalare campo agli avversari. E significa rinunciare a far proprio un tema che, interpretato secondo le corrette categorie, può portare a una nuova stagione di sviluppo e soprattutto aiutarci a capire cosa sta accadendo nel mondo al di là dell’ipocrisia della narrazione dominante.

La natura che cambia

Insomma, rifiutarsi di ribaltare l’ordine gerarchico del creato, scorgere nel nuovo moloch ambientalista la riproposizione del vizio materialista e totalitario già sperimentato in altri ambiti, non impedisce a un liberal-conservatore di riconoscere che un problema ambientale vi sia. Non certo perché ce lo dicano gli striscioni di Greta Thunberg o il dibattito sul surriscaldamento globale. A dircelo sono indicatori più complessi e diversissimi per caratteristiche e dimensioni di scala.

C’è l’esperienza diretta degli operatori economici che esercitano attività legate al territorio, i quali possono testimoniare i mutamenti che condizionano il loro lavoro e quanto il successo e la stessa sopravvivenza della loro impresa dipendano dalla capacità di coglierli e di reinventarsi di conseguenza. Vi sono le ripercussioni del consumo del suolo da un lato e dell’incuria dall’altro, di cui ci si rende conto in occasione delle calamità naturali (incendi, alluvioni…) ma che il giorno dopo già vengono dimenticate fino alla tragedia successiva. C’è, per riferirci a un’epoca recentissima, la stessa constatazione della ricomparsa di specie animali prima introvabili in contesti antropizzati in coincidenza con il fermo produttivo determinato dalla pandemia. Circostanza, quest’ultima, che se ha portato i fanatici a vedere nel Covid una sorta di vendicatore della natura contro l’uomo cattivo, non può non contribuire, per chi avesse voglia di farlo razionalmente, ad approcciare la questione ambientale nei suoi termini di realtà.

Infine, a segnalare che un problema esiste, vi sono le mire espansionistiche di taluni grandi Stati, che solo in parte si spiegano con ambizioni “imperiali” declinate secondo la geopolitica del terzo millennio, e che hanno a che fare anche con la scarsità di risorse agroalimentari autoctone dovuta a politiche economico-industriali sregolate e selvagge dettate dal connubio tra il peggio del comunismo e il peggio del capitalismo. Politiche nei confronti delle quali le anime belle, stranamente, tacciono.

La globalizzazione e lo strabismo delle anime belle

In questo senso, affermare che la globalizzazione abbia accentuato di molto il problema ambientale è una adamantina verità. Spesso, tuttavia, raccontata all’inverso: al contrario di ciò che sostiene la propaganda pauperista e mondialista, il fenomeno non è dovuto all’espansionismo del cattivo Occidente, ma a una dinamica di segno quasi opposto.

L’apertura dei mercati e degli interscambi a livello mondiale, infatti, ha posto il problema di una concorrenza più spietata e meno regolata. E’ un dato di fatto che si può cogliere già intuitivamente: con il venir meno di barriere protettive fra ambiti di mercato circoscritti e omogenei, dettate da un substrato di regole minime comuni, il confronto commerciale con chi riesce a produrre a costi minori grazie allo sfruttamento selvaggio dell’ambiente (e delle risorse umane, tema che però esula da questa riflessione), rischia di indurre i concorrenti a forzare nella medesima direzione per reggere la competizione. La risposta spesso inadeguata degli Stati occidentali e soprattutto delle istituzioni sovranazionali, che non di rado appaiono vocati più a complicare la vita a chi mette in atto pratiche virtuose che ad arginare l’aggressività degli imperi emergenti con armi efficaci, completa il quadro di inaudita complessità nel quale gli operatori economici sono costretti a muoversi.

Caso emblematico è quello della Cina. Alcuni osservatori particolarmente acuti, come Giulio Tremonti, posero per tempo quello che nel giro di qualche anno sarebbe diventato un problema epocale per il mondo e in particolare per l’Occidente europeo, ma purtroppo sono rimasti inascoltati.

Dal punto di vista che qui ci occupa, è vistoso lo strabismo con il quale determinati circuiti ambientalisti concentrano la propria offensiva nei confronti dei modelli produttivi occidentali (certamente perfettibili ma quantomeno regolati), giudicati insostenibili e responsabili di qualsiasi cataclisma (reale o immaginario che sia), mentre sono colti da improvviso mutismo – quando non addirittura da compiacente acquiescenza – di fronte a regimi come quello cinese che, come abbiamo già detto, alimentano la propria prepotente espansione commerciale attraverso lo sfruttamento selvaggio delle persone e dell’ambiente. Ugualmente – giusto per fare un altro esempio – si tace di fronte alla situazione ambientale disastrosa determinata da un mix micidiale di industrializzazione e arretratezza in Paesi strategici ma dimenticati dal mainstream, come l’India.

(…)

Il nuovo ordine mondiale

La guerra ecologica è anche geopolitica. E non è un caso che, come appare evidente ad esempio nel fenomeno Greta ma non solo, taluni circuiti ambientalisti particolarmente ideologizzati siano sostenuti da potenti lobby con capacità di penetrazione mediatica, politica, economica e culturale a livello internazionale. Per questo – soprattutto per questo – la questione ambientale rischia oggi di rappresentare il paravento dietro il quale realizzare un nuovo ordine mondiale nel quale l’Occidente, con il suo modello sociale e i suoi valori che siamo diventati incapaci di difendere, sia relegato al ruolo di comprimario.

La risposta dell’Occidente

Tuttavia, come detto in premessa, la risposta giusta da parte dei pochi che non intendano rassegnarsi a questa deriva, non è negare che un problema ambientale esista. La risposta è far proprio questo tema declinando in modo nuovo i modelli di sviluppo socio-economico dell’Occidente, che rimangono quanto di più avanzato la civiltà umana abbia saputo mettere in campo e dimostrano come la più alta forma di ambientalismo sia quella che non demonizza ma valorizza le attività antropiche, se correttamente esercitate, come strumento principe di cura del territorio.

Il problema dello sfruttamento ambientale, amplificato a dismisura dalla globalizzazione, può essere insomma affrontato in modo pragmatico con un poderoso percorso di riforme che investa tanto il piano culturale quanto quello dei concreti processi produttivi, che consenta di addivenire a un mercato che sia al tempo stesso realmente libero e realmente regolato anche su scala globale, e che sappia coniugare il patrimonio delle nostre tradizioni con le opportunità offerte dalla modernizzazione. L’alternativa è che la questione ambientale diventi definitivo ed esclusivo appannaggio di un ecologismo ideologico, ipocrita, pauperista e materialista.

Attacco alla centralità dell’uomo

L’ecologismo mondialista, cosa ben diversa dal rispetto dell’ambiente, non è poi altro che una delle facce di una medesima deriva culturale e sociale che tende a mettere in dubbio l’antropocentrismo. Non è un caso che il fanatismo ambientalista coincida spesso con posizioni di segno totalmente opposto sul versante antropologico. Gli stessi che si stracciano le vesti per un agnello mangiato a Pasqua, per una scultura realizzata su un tronco o per un medicinale sperimentato su un topo, sono poi favorevoli all’aborto, all’eutanasia, alla compravendita dei bambini e mostrano una idiosincrasia verso ogni forma di disabilità e di fragilità che diviene invece meritevole della massima tutela quando riguarda un gatto o un filo d’erba.

Checché se ne dica, insomma, una certa forma di ambientalismo non è altro che un attacco geopolitico non convenzionale all’Occidente, un attacco culturale alle sue tradizioni, e un attacco a quella religione rivelata che si fonda sulla centralità dell’uomo e sul rispetto per il creato come casa dell’uomo stesso. Non a caso l’offensiva dell’ambientalismo ideologico, di cui abbiamo parlato poc’anzi, è spietata nei confronti dei modelli produttivi sviluppisti di Paesi del mondo cristiano mentre tacitamente approva il materialismo sfrenato, assai più dannoso per l’ambiente, di regimi illiberali e profondamente ateisti.

Dove va la Chiesa?

Ciò che colpisce, in questo quadro, è che tale tipo di visione si stia facendo strada con il consenso della Chiesa, che in vari modi la asseconda, invece di rappresentare una forza di interdizione che contrapponga all’ideologia una visione ambientale corretta.

E’ paradossale che per certi versi sia la Chiesa ad avallare il fatto che proprio mentre si nega il dato naturale dell’antropologia si esalti l’ideologia ambientalista, ribaltando il nesso tra il fine e lo strumento di cui alla formula kantiana per la quale il soggetto umano è da considerarsi sempre come un fine e mai come un mezzo. Insomma, in ambito ecclesiastico, dalla riflessione ratzingeriana sulla precisa gerarchia che esiste tra Dio, l’uomo e il creato, si è passati a un’idea quantomeno “orizzontale”, di intima connessione e scarsa differenziazione – talvolta in aperta contrapposizione con l’antropocentrismo occidentale -, quando non proprio a un rovesciamento del triangolo.

Cesare, l’ambiente e Dio

Dallo stesso punto di vista laico, del resto, il venir meno di ogni distinzione, fino a negare quella fra Creatore e creatura, determina la messa in discussione del principio personale, fino al predominio della tribù e dello Stato in chiave anti-personale e anti-comunitaria e, paradossalmente, alla perdita della separazione fra Cesare e Dio. Si perde, al fondo, anche l’idea della dimensione economica come attività umana funzionale al completamento del disegno sull’uomo.

Non è un caso che la concezione lineare del tempo, per la quale con la messa a frutto dei talenti e con la sottomissione della natura all’uomo si sviluppa il disegno di Dio, sia negata proprio dai regimi ateisti fondati su modelli di produzione e di organizzazione sociale assai distanti dai nostri. Sicché, come ha ben spiegato Salvatore Rebecchini in diverse sue riflessioni, taluni economisti sono giunti ad affermare che per “salvare la natura” (sottinteso, salvarla dal primato dell’uomo considerato “usurpatore”) non bisogna cambiare le fonti di approvvigionamento energetico ma bisogna cambiare religione, rimuovendo la concezione cristiana fondata sulla supremazia dell’uomo sulla natura e sulla liceità del suo utilizzo per i fini umani.

Beninteso, il rispetto dell’ambiente è un valore importantissimo e l’utilizzo è qualcosa di ben diverso dall’abuso. Di più: l’ambiente merita rispetto proprio in quanto è l’òikos nel quale l’uomo vive e opera, e a tal fine la vera tutela dell’ambiente è quella che si coniuga con le attività antropiche eticamente realizzate. Basti pensare all’immenso valore ambientale dell’agricoltura, o alla funzione bonificante di attività produttive opportunamente regolate in territori altrimenti abbandonati al degrado. Insomma, una visione cristianamente orientata della società e del modo di rapportarci con l’ambiente è essenziale anche da un punto di vista laico. Tutelare una certa visione di Dio significa tutelare anche una certa visione di Cesare da chi, anche attraverso il moloch ecologista, vorrebbe imporci un nuovo ordine mondiale.

Fonte: l’Occidentale

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