A san Biagio niente benedizione della gola. Viaggio a Lourdes con Alexis Carrell

di don Marco Begato.

Il fatto che in un momento di crisi medica, in cui la stessa scienza si mostra insufficiente e la politica inadeguata, noi rigettiamo anziché invocare le fonti taumaturgiche tradizionali, indica quanto fragili sono divenute fede e cultura nel nostro tempo.

In molte diocesi a san Biagio non è stata data la benedizione della gola: le candele benedicenti sono di nessun effetto e rischiano di veicolare il virus. La benedizione del mal di capo, che nella mia diocesi di appartenenza è riservata a S. Onorio, è stata impedita: metter la testa nel sacello benedetto non è di nessun effetto e rischia di veicolare il virus. Del resto mesi fa le autorità ecclesiastiche erano già intervenute alla radice, chiudendo le piscine di Lourdes. Qual è dunque la lezione da trarre? Quali le provocazioni da sollevare? Persevero nella mia prospettiva e cerco di interpretare lo stato di cose presenti alla luce della grave crisi di fede e di cultura e quindi del rapporto tra le due. La mia tesi rimane fissa: l’epidemia in cui siamo immersi è sintomo e non causa delle contraddizioni e degli stravolgimenti che si sono diffusi. Il fatto che in un momento di crisi medica, in cui la stessa scienza si mostra insufficiente e la politica inadeguata, noi rigettiamo anziché invocare le fonti taumaturgiche tradizionali, indica quanto fragili sono divenute fede e cultura nel nostro tempo. Non lo fossero state, avremmo risposto ben altrimenti all’emergenza.

Ciò posto, oggi, anziché svolgere una riflessione sistematica, scelgo di rileggere un testo che è utile a nutrire la riflessione su queste tematiche. Si tratta di Viaggio a Lourdes (Morcelliana, Brescia 1976), un diario autobiografico compilato da Alexis Carrel (1873 – 1994) una volta rientrato da un pellegrinaggio a Lourdes, dove ebbe la grazia di assistere a un miracolo in modo diretto. Carrel (che nel testo si presenta con lo pseudonimo di Larrec), medico di formazione positivista, continuerà a interrogarsi per tutta la vita circa la fede cattolica, avvicinandosi a posizioni mai del tutto pacifiche: in quanto tale, resta un testimone libero e onesto, che è difficile strattonare su sponde scettiche o su sponde apologetiche. Ecco un buon motivo per seguirlo nella sua esperienza di fede.

Rispetto allo studio della Dottrina Sociale, considero tale contributo come un’occasione per riflettere sul numero 75 del Compendio:

“La fede e la ragione costituiscono le due vie conoscitive della dottrina sociale, essendo due le fonti alle quali essa attinge: la Rivelazione e la natura umana. Il conoscere della fede comprende e dirige il vissuto dell’uomo nella luce del mistero storico-salvifico, del rivelarsi e donarsi di Dio in Cristo per noi uomini. Questa intelligenza della fede include la ragione, mediante la quale essa, per quanto possibile, spiega e comprende la verità rivelata e la integra con la verità della natura umana, attinta al progetto divino espresso dalla creazione, ossia la verità integrale della persona in quanto essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, con gli altri esseri umani e con le altre creature”.

L’esperienza di Carrel è a tutti gli effetti esperienza di un rinnovamento della fede che interroga e ricostruisce a fondo l’esercizio della ragione scientifica e non solo. Lo reputo un buon esempio di quanto probabilmente toccherà fare anche a noi, tornando a dar voce piena alla fede e luce alla ragione per poter rileggere in modo più fecondo le dinamiche storico-sociali da cui oggi siamo travolti.

Il Diario si apre con il resoconto del viaggio in treno verso Lourdes, nel quale già si impongono alcune importanti sottolineature: “Voi fate i conti senza la fede, caro dottore. Quelli che non guariscono tornano consolati, e quando muoiono sono ancora pieni di gioia!” (p. 18) e ancora “Sono felice di esser venuta. Le suore volevano impedirmelo” (p. 19). Vi è cioè una felicità del malato che va a Lourdes, che va incontro a sua Madre, essa precede e per lo più sostituisce l’attesa del miracolo – per sé poco probabile – e consente di sopportare non solo la malattia, ma ben altri fastidi: “nel lunghissimo treno i viaggiatori sono sballottati gli uni contro gli altri ad ogni fermata ed è facile immaginare quali sofferenze questi urti ripetuti provochino negli infermi” (p. 22). Di miracolo, però, almeno uno si offriva quotidianamente a Lourdes, ed era la prevenzione da epidemie che avrebbero dovuto diffondersi per il contatto dei copri fetidi nelle medesime acque benedette ma torbide: “Li svestiva e li immergeva nelle piscine, senza alcuna ripugnanza per le vecchie piaghe verminose o suppuranti, per i cancri sanguinolenti, per gli odori abominevoli di quei corpi in decomposizione. A Parigi, egli non avrebbe certo voluto toccare, nemmeno con la punta del suo bastone, il meno ripugnante di quegli sventurati” (p. 29-30). Il nostro Carrel-Lerrac si affaccia su tale scena con uno sguardo affatto scettico: “Lerrac, assorbito dagli studi scientifici, affascinato nello spirito dalla critica tedesca,, si era convinto, a poco a poco, che al di fuori del metodo positivo, non esisteva certezza alcuna” (p. 31); e legge il fenomenale di questo santuario francese come mero effetto di suggestioni psico-sociali: “il pellegrinaggio ha una incredibile forza di persuasione, infinitamente superiore a quella dei più alti maestri di medicina” (p. 33). Le prime considerazioni di Carrel non lasciano spazio al mistero. A suo dire “le forze di Lourdes si infrangono sulle forze organiche” (p. 34) e la realtà del soprannaturale è quasi prigioniera delle nostre rappresentazioni mentali, anche se da bravo scienziato il Carrel riconosce che quanto non si può dimostrare, non si può nemmeno confutare: “Dio ha un’esistenza oggettiva? E la Vergine esiste altrove che nei nostri cervelli? E come posso saperlo io? Mi è difficile affermare a priori tanto la possibilità del miracolo, quanto la sua impossibilità” (p. 36). La sua coerenza di intellettuale e ricercatore lo spinge ben oltre, verso pose di onestà intellettuale che alcuni nostri contemporanei faticherebbero ad assumere: “Se guarisse questa ammalata, sarebbe veramente un miracolo. Io crederei a tutto e mi farei frate!” (p. 40). Ecco introdotto un principio di verificabilità proporzionale all’eccezionalità dell’oggetto indagato. Ecco un ateo in cui vi è vera, lucida e coraggiosa apertura alla fede. È l’atteggiamento giusto, l’unico atteggiamento giusto, per poter vedere la Verità quanto ci passa accanto. Il suo compagno di avventure lo ammonisce: “Stai attendo. A Lourdes tutte le leggi sono rovesciate” (Ibidem). Lerrac non si scompone, a metà tra il convincimento che l’impossibile rimane impossibile e il desiderio che l’impossibile avvenga e gli dischiuda orizzonti di senso. Poi, sul più bello, quando tutto appare già scritto, ecco il miracolo. “Dottore, possiamo portarla alle piscine?” lo interpellano; la malata che lui ha visto durante il viaggio e che ha continuato ad aggravarsi durante la permanenza a Lourdes, è arrivata al suo turno di visita alle piscine, ma è in una situazione fisicamente drammatica. “Lerrac la guardò stupito: E se vi muore per strada, che farete?” (p. 43). Potrebbe essere un atto di carità lasciarla morire in camera, senza sottoporla a inutili torture, senza tentare Iddio nei suoi rari miracoli, senza insistere con le superstizioni da cattolici ottocenteschi. Ma la suora responsabile della giovane moribonda la pensa diversamente: “Questa giovane – disse la suora – no ha più nulla da perdere… Sarebbe crudele rifiutarle la suprema grazia d’esser portata alla grotta” (p. 44). E questo è affascinante: la suprema grazia non è la guarigione, ma la visita della grotta. Negare le devozioni non è negare un impossibile miracolo, ma anzitutto negare una lecita consolazione, la consolazione di incontrare fisicamente e spiritualmente Cristo nel momento di nostro maggior bisogno e povertà, di incontrarlo nei segni sacramentali, nei sacramenti stessi, e non per l’effetto da riscuotere, ma per il dono del legame che in essi si rinnova tra creatura e Creatore. Qui viene facile irridere la fede semplice dei semplici e con essa sorridere della sorte fragile dell’umanità tutta: “Quanto è difficile determinare l’avvenire di un malato! Questa ragazza è spacciata. Ma io non posso sapere se morrà fra un’ora o fra tre o quattro giorni. Se morisse nella piscina, sarei curioso di vedere che impressione ne avrebbero i pellegrini, perché mi sembrerebbe il fallimento del miracolo” (p. 46). Alla fine anche nella Lourdes ottocentesca un certo sentimento umano prevale sul miracolismo nudo e puro, “le hanno fatto solo qualche lavaggio del ventre. Le suore non hanno voluto immergerla. Ora la portiamo davanti alla grotta di Massabielle” (p. 48). Ma questo gesto semplice basta alla Madonna, e la storia è scritta anzi riscritta. “La respirazione è rallentata – disse M. Mi sembra ora che stia per morire – fece M. Incredulo, che non poteva vedere in quei fenomeni un fatto straordinario, un miracolo. Lerrac non rispose. Sotto gli occhi aveva un miglioramento evidente e rapido” (p. 52. La scienza di Lerrac è congelata davanti al fatto del miracolo “Rimase in silenzio in una indicibile confusione di pensiero. Non aveva più una sua opinione. Che cosa avrebbe potuto rispondere, quando gli avessero detto che quella guarigione era un miracolo? Egli era del tutto incapace di dare una spiegazione. Se veramente quello era un miracolo, se la Vergine aveva voluta dare una prova della sua reale, oggettiva esistenza?” (p. 60) Il miracolo ci ammutolisce e intanto muta lo sguardo sul mondo in cui siamo immersi: “Nel passare tra le folla dei pellegrini, entusiasti e raccolti, non ebbe più voglia di sorridere della loro ingenuità, della loro chimerica speranza. Per il momento tutte le sue idee erano capovolte. L’assurdo diventava realtà: i morenti guarivano in poche ore” (p. 62). L’intelletto cerca di ribellarsi con sillogismi sottili, ma la ragione che tutto armonizza non può se non arrendersi all’evidenza inconfutabile: “O si era grossolanamente sbagliato nella diagnosi, o era un miracolo. Poteva pur cercare di persuadersi che egli non doveva essere che un preciso apparecchio registratore, che non spettava a lui di spiegare i fatti; il suo pensiero non gli obbediva più, balzava al di là dei limiti angusti entro i quali aveva voluto costringerlo, si agitava, impaziente di sapere che cosa era quel che di meraviglioso, straordinario e tanto dolce, che i credenti chiamano un miracolo” (p. 62). E i suoi interlocutori lo punzonano: “Sei convinto ora, filosofo incredulo?” Ma il filosofo non è ancora del tutto convinto. In queste pagine determinanti il Diario di Carrel ha il merito enorme di fotografare il lento movimento che porta la ragione a convertirsi, a nuovamente rivolgersi verso le luci della fede, a superarne il bagliore accecante e ad abbracciarla verso una nuova e più felice sintesi del sapere umano: “Che dovrei risponderti? Credere è un atto tanto complesso… Non mi rendo ancora conto di quello che abbiamo visto. Osservo dei fenomeni; non risalgo alle cause. Una giovane, molto malata, i cui genitori e fratelli sono morti tisici, la quale, anch’essa, dopo gli undici anni, ha avuto delle emottisi, una pleurite, un travaso, tracce di tubercolosi polmonare e infine sintomi chiari di peritonite tubercolare, è stata guarita in pochi istanti sotto i miei occhi. Una cosa meravigliosa, un miracolo… Ma il miracolo è un fatto soprannaturale, una deroga alle leggi della natura, realizzato da Dio stesso. E questo ciò che si è manifestato sotto le tue mani… E un’ipotesi che a te sembra verosimile, che per me è mostruosa, ma che io non ho il diritto di respingere a priori” (p. 64). E lo scienziato convertito è e rimane tale, un vero scienziato che ha aggiunto al proprio bagaglio di studio nuovi strumenti e campi di osservazione, la fede lo porta a esaminare la propria scienza, non a distruggerla e non a congelarla, ma a indirizzarla verso spazi nuovi. “Ma l’andare fino in fondo dove l’avrebbe portato? Un’altra volta ancora si imponeva, imperiosamente, in lui il bisogno di conoscere la causa di questi fenomeni sbalorditivi. I fenomeni naturali , le leggi della vita sono quasi interamente sconosciuti. Noi non conosciamo in modo sicuro che un piccolo numero di puntini luminosi, che si staccano come faville da un oceano oscuro” (p. 68).

Di Carrel si dice che la sua conversione fu in realtà lenta, graduale, molto personalizzata. Il miracolo non fece di lui un bigotto o un apologeta schietto, ma rese sempre più sottile e minuziosa la sua indagine sul senso e sulla verità, anzitutto scientifica e poi sempre più antropologica ed esistenziale.

Alla base di tutto questo rimane la schietta umiltà di questo intellettuale, che ha avuto il principale merito di scegliere la Verità prima ancora di se stesso e di abbandonarvisi inerme: “Sono stato sempre più infelice. Proprio il cattolicesimo, che, per mia disgrazia, io non ho capito, mi ha dato la soddisfazione più grande” (p. 70).

Possiamo anche noi trarre da questo resoconto degli spunti felici di conversione, ritrovando la giusta misura della devozione, tra fede nel miracolo e buon senso. Larrec ci ha mostrato che il cuore del miracolo sta ben oltre l’atto materiale della devozione, ma pure che esso non si può sprigionare quando il nostro sguardo si chiude diffidente alle forme misteriose del prodigio, permesse da Dio e tramandate dalla Chiesa. Voglio dunque suggerire di far nostra la sua preghiera e chiedere con Carrel alla Vergine che ci guidi verso una nuova luminosa stagione di segni e miracoli e di conversione dei cuori “Vergine dolce, che soccorrete gli infelici, che vi implorano umilmente, proteggetemi. Io credo in Voi. Voi avete voluto rispondere al mio dubbio con un miracolo manifesto. Io non so vederlo, io dubito ancora. Ma il mio desiderio più vivo, il fine più altro di tutte le mie aspirazioni è di credere, perdutamente, ciecamente credere, senza più discutere, senza criticare” (p. 71).

Fonte: Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân

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