Riconoscimento e dignità umana. La problematica contemporanea e il pensiero di Tommaso d’Aquino

di Umberto Galeazzi.

Pubblichiamo la prima e la seconda parte del saggio “Riconoscimento e dignità umana. La problematica contemporanea e il pensiero di Tommaso d’Aquino” del Prof. Umberto Galeazzi, docente emerito di Storia della filosofia presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara e accademico della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino.

1) Società multiculturale e riconoscimento

Sul tema del riconoscimento, certamente di grande rilievo filosofico per intendere la condizione umana, ci ha dato, com’è noto, delle analisi assai penetranti Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, ma anche nel pensiero contemporaneo abbiamo importanti contributi, frutto di un grande interesse e di una rinnovata attenzione. Basti   citare le ricerche di Charles Taylor[1] e di Jürgen Habermas[2], che hanno dialogato tra loro considerandone aspetti che vanno dal piano esistenziale e dei rapporti interpersonali a quello socio-politico, senza trascurare i più recenti importanti contributi di Honneth[3] e di Ricoeur[4]Dunque, il riconoscimento è da considerare anche nell’ambito della dottrina sociale, vertendo sui fondamenti stessi della convivenza umana e civile, con i problemi che suscita nella temperie culturale contemporanea.

Il bisogno di riconoscimento è l’esigenza, da cui scaturisce il desiderio, che la persona ha di essere riconosciuta e accolta, nella propria originalità irripetibile, come un essere che ha una dignità ed esige rispetto, è il bisogno di sapere e di sentire concretamente, vitalmente, anche nella dimensione affettiva e sensibile, di aver   valore almeno per qualcuno. Perciò il riconoscimento sul piano dei rapporti interpersonali implica il rispetto, che, sul piano socio-politico, conduce a individuare, a tutelare e a promuovere i veri diritti umani, non le pretese arbitrarie, infondate e non di rado assurde. Ora, nelle attuali società multiculturali, molteplici e complessi sono i problemi che scaturiscono dall’esigenza di rispettare il pluralismocioè le personenella loro peculiare dignità ed originale diversitànonché le loro rispettive culture.

Sia chiaro che qui si prende atto inevitabilmente del pluralismo delle nostre società, in quanto è un fatto, senza con ciò farne necessariamente un valore.

Onde, suscita non lievi perplessità e riserve critiche l’opinione secondo cui al rispetto del pluralismo si dovrebbe unire necessariamente una concezione relativistica e scettica sulla possibilità di acquisizioni veritative. In realtà si può far vedere che il relativismo contraddice l’etica del rispetto del pluralismo, negando le basi stesse in cui essa si radica e acquista senso[5]. Infatti, la vita ci mette di fronte a delle scelte, rispetto a cui spesso non possiamo non prendere posizione, non possiamo non scegliere rispetto ad alternative di un certo rilievo e importanza, ma fare una scelta morale significa riconoscere verità e valore ad una certa prospettiva sull’uomo, anziché alla opposta.

Ora, il relativismo pretende che concezioni contraddittorie sull’uomo siano tutte di egual valore, anche veritativo, e, quindi, tutte vere o tutte false, che è lo stesso. Per cui, per esempio, dovrebbe essere vero sia il considerare l’uomo come una cosa, con un agire strumentalizzante e negante la sua libertà, sia, in una prospettiva opposta, il reputarlo dotato di una dignità e libertà che trascendono l’universo cosale, con un riconoscimento che implica il rifiuto di ogni atteggiamento reificante.

Ma nella vita concreta, e non nelle astrazioni teoriche, spesso non si può non scegliere (il non scegliere è già una scelta e non può evitare di prendere, di fatto, l’una o l’altra posizione) tra questi due opposti comportamenti morali. E la scelta pone il valore e il disvalore, riconoscendo come vera e valida una certa posizione, con un’implicita concezione dell’uomo, invece di quella opposta.

Perciò nell’agire morale non è possibile vivere da relativisti o da scettici, perché la scelta pone inevitabilmente il valore e il disvalore e implica un prendere posizione in campo veritativo. Ora, se il relativismo scettico è un’astrazione teorica, ma non è praticabile nella vita concreta, non può essere certo a fondamento del rispetto del pluralismo, anche perché, come si è visto, esso considera sullo stesso piano veritativo e assiologico il rispetto e il non rispetto, sicché, se momentaneamente la decisione propende per il rispetto, essa non può che essere casuale, provvisoria e non può certo escludere di convertirsi nel suo opposto, dando luogo alla pratica del non rispetto e della sopraffazione.

Quest’ultima pratica, purtroppo, si deve constatare a livello di egemonia politico-culturale, quando, con il proposito (o con il pretesto?) di non fare torto a nessuna delle identità culturali, religiose, filosofiche, ecc., presenti nella società, si tende a far passare l’idea che l’unico atteggiamento corretto sarebbe il relativismo scettico perché non privilegerebbe nessuna delle posizioni, essendo neutrale rispetto ad esse.      Ma è facile rendersi conto che quella presunta neutralità non esiste, perché il relativismo scettico è una posizione, che considera tutte le altre non vere, degradandole a livello di mere opinioni più o meno arbitrarie e irrazionali. E ciò proprio in quanto quel relativismo si presenta come l’unica posizione razionale, critica e posta su un piano superiore; e da questo punto di vista sedicente superiore, l’unico illuminato, pretende di giudicare poco illuminate e non vere tutte le altre diverse posizioni e identità, le quali sarebbero per lo meno ingenue nella loro non rinnegata tensione veritativa. In tal modo, pur partendo con l’intento di non far torto a nessuna delle identità culturali, filosofiche, religiose, ecc., in quanto si approda al relativismo scettico, come punto di vista che si ritiene superiore, si finisce per mortificarle tutte, considerandole tutte irrazionali e non vere. In realtà non esiste una superiore visione neutrale, ma solo il tentativo di imporne una – che si rivela, come abbiamo visto, aporetica sul piano esistenziale della vita concreta – squalificando tutte le altre.   

Invece, un’autentica cultura rispettosa del pluralismo non è una sorta di multiculturalismo, come minimo comune denominatore, risultante dalla negazione degli aspetti peculiari e caratterizzanti delle diverse identità, ma è quella che scaturisce da un libero dialogo, in cui le diverse identità si possono sviluppare ed esprimere senza limitazioni, tranne quelle che sono richieste da una libera e pacifica convivenza, garante e promotrice della dignità di ogni persona umana.

Sul piano politico, uno Stato, animato da questa cultura del rispetto, cioè sanamente laico, non è quello che impone a tutti, magari in forme più o meno subdole, il laicismo o il relativismo scettico – questo sarebbe uno Stato semplicemente totalitario e repressivo – ma quello, delineato, per esempio, dall’art. 3 della nostra Costituzione, che non discrimina i cittadini a causa della loro cultura, cioè delle loro idee filosofiche, religiose, politiche, ecc.    Ma ciò non significa indifferenza e ostilità nei confronti delle identità culturali e delle “formazioni sociali”, in cui si sviluppa la personalità dell’uomo, ché, anzi, lo Stato si impegna a riconoscerle e a promuoverle.

Sul piano filosofico l’atteggiamento corretto e critico è quello che non decide a priori le posizioni da preferire e quelle da rifiutare, ma che decide sulla base di una ricerca mirante ad imparare (entrando nel merito delle diverse prospettive), attraverso un’analisi, un confronto e una discussione razionali. In questo atteggiamento, sul piano delle convinzioni personali, non è detto che io debba rispettare solo le scelte e i modi di essere che ritengo validi e riconducibili ad una posizione veritativa, onde un giusto ordine sociale e politico è quello che tutela i veri diritti e non le pretese arbitrarie di singoli o di gruppi, che magari si presentano come lobby agguerrite. Ma ciò, d’altra parte, non può giustificare la negazione teorico-pratica di diritti inalienabili, che né la società, né lo Stato possono misconoscere.

Il rispetto è dovuto in primo luogo alle persone e, di conseguenza, ai liberi itinerari di ricerca, anche se ciò non vuol dire valutare positivamente tutte le loro scelte, che possono essere anche errate. Per esempio, un educatore rispetta il libero percorso di crescita dell’educando, pur non valutando positivamente tutte le sue scelte; oppure, anche se uno non considera un credo religioso di egual valore in confronto a quello cui aderisce, non è detto che non debba rispettare le persone e le comunità (con le loro identità religiose) che lo seguono.

Perciò da quanto detto emerge che l’etica del rispetto del pluralismo è incompatibile con una posizione di improbabile neutralità rispetto ai valori e, invece, si fonda sulla dignità di ogni essere umano. Il rispetto si fonda su questo valore, in base al quale se ne delineano e valutano anche le modalità concrete di realizzazione; non può fondarsi sulla presunta verità e validità di tutte le scelte, perché ciò implicherebbe l’assurdo di ritenere ugualmente vere e valide scelte e concezioni contraddittorie tra di loro, con le aporie che si sono viste e che fanno perdere senso allo stesso rispetto. Inoltre, questa posizione, i cui esiti sono contraddittori, sembra scaturire, per lo più, dall’errata convinzione che si possano e si debbano rispettare solo le scelte ritenute vere e valide. È come se uno dicesse: rispetto solo quelle convinzioni e quelle scelte che coincidono con le mie. Ma costui come potrebbe dialogare, sia pur criticamente, con chi fa scelte e sostiene idee diverse dalle sue? Infatti, in questa prospettiva il dialogo si presenta, specie nell’agone politico, impossibile, in quanto è sostituito dalla denigrazione morale, dalla demonizzazione dell’avversario nel tentativo di metterlo comunque a tacere con qualsiasi mezzo (oggi un certo uso dei media manifesta delle potenzialità   inedite nella direzione di una omogeneizzazione repressiva globale), fino ad imporre regimi repressivi e totalitari, con l’aiuto di ideologie ad essi funzionali. In proposito Charles Taylor sintetizza così le sue notevoli ricerche sul giacobinismo e sui suoi esiti che arrivano fino ai nostri giorni: «In Rousseau ci sono tre cose che appaiono inseparabili: la libertà (o non dominio), l’assenza di ruoli differenziati e una strettissima unità d’intenti. Dobbiamo dipendere tutti dalla volontà generale affinché non nascano forme di dipendenza bilaterali. È stata questa la massima delle forme più terribili di tirannia omogeneizzante, dai giacobini ai regimi totalitari del nostro secolo»[6]. Ma converrà approfondire in un’altra indagine i contributi critici che Taylor esprime sinteticamente con queste parole. Non è difficile, tuttavia, rendersi conto che certe parole d’ordine, oggi ripetute, del tipo: “uniti si vince”, e simili, non riescono ad occultare la loro possibile, e spesso verificata, funzionalità al potere, come subordinazione, senza dissenso, a chi lo detiene.

In alcuni filoni del pensiero contemporaneo non di rado l’impianto teorico è inadeguato e carente rispetto alle istanze a cui vorrebbe rispondere, non riuscendo a giustificare i valori a cui quelle istanze rinviano. Come si verifica per il tema del riconoscimento e della situazione aporetica che si genera in quelle posizioni teoriche strutturalmente incapaci di andare oltre il riconoscimento sociale nel rendere ragione dell’umana dignità. Infatti, se quest’ultima dipendesse totalmente dal riconoscimento sociale, cioè degli altri, anche sul piano giuridico-politico, allora si dovrebbe dire che dove non c’è quel riconoscimento non c’è nemmeno la dignità umana, ma ciò sembra assurdo. Perché noi rivendichiamo la dignità proprio dove e quando essa è misconosciuta, cioè dove e quando non c’è riconoscimento sociale e/o politico. Evidentemente ciò è possibile sulla base di un riconoscimento più radicale (di cui diremo, considerando la posizione tommasiana), non insidiato dalla precarietà e mutevolezza del riconoscimento sociale.

Far dipendere la dignità dal riconoscimento dell’umana soggettività – cioè dall’arbitrio di pochi o tanti soggetti umani – implica, sul piano teoretico, essere prigionieri di un uso strumentale e riduttivo della ragione, in tal modo incapace di riconoscere l’altro per quello che è, nella sua autenticità, perché lo considera solo in funzione del proprio intento disponente e manipolativo. Ora, ciò, che è considerato semplicemente funzionale al pensiero disponente, è ridotto a mero strumento depauperato del suo intrinseco valore e, quindi, non può essere riconosciuto nella sua peculiarità e dignità. E questo significa tradire l’autentica esperienza conoscitiva e la vocazione veritativa della ragione. Ma una ragione così mutilata, in quanto subordinata alla logica del dominio, è incapace di riconoscere l’intrinseca dignità degli esseri, proprio perché la considera dipendente dal proprio potere e, in tal modo, la “dissolve”, secondo l’acuta considerazione dei Francofortesi, che criticano la ragione strumentale, frutto della dialettica dell’illuminismo: «la ragione è… l’agente chimico che assorbe la sostanza specifica delle cose e la dissolve nella pura autonomia della ragione stessa»[7]. In effetti, se la verità (e, quindi, la dignità) dipendesse esclusivamente dalle opinioni degli uomini ed il conseguente rispetto dal loro mutevole arbitrio, allora veramente essa sarebbe dissolta e stritolata nella labilità delle apparenze soggettive.

Questa situazione aporetica, il cui superamento si presenta a dir poco arduo per chi intende ancorare la dignità umana al riconoscimento sociale, può essere risolta alla luce della prospettiva teoretica di Tommaso d’Aquino, ove non si trascuri la dimensione creaturale e personale dell’uomo.

2) Dignità umana e metafisica della creazione. La posizione di Tommaso d’Aquino

La concezione tommasiana della dignità umana articola le sue ragioni sulla base della metafisica della creazione, quindi per intenderla bisogna considerare l’intera                   ricerca dell’Aquinate, nella sua genesi e negli sviluppi maturi del suo genio speculativo. Ma nei limiti di questo intervento posso solo richiamare alcuni punti certamente non secondari, sui quali devo rinviare ad un’indagine più vasta, i cui risultati sono esposti in altra sede[8]. Va comunque subito precisato che sia quell’indagine che il presente intervento vertono sul tema proposto nella prospettiva della filosofia tommasiana, fondata su ciò che la ragione riesce a scoprire con le sue forze naturali e consistente, pertanto, in «ciò che Tommaso ritiene di poter dimostrare con la sola ragione, e ritiene quindi valido anche per chi non accetti la fede cristiana, la rivelazione biblica»[9]. Infatti, pur incorporato in un sistema teologico, in Tommaso c’è una ricerca – da cui scaturisce una proposta – filosofica, con una propria distinta consistenza, basata su un peculiare statuto epistemologico. E ciò sia perché nella sua prospettiva teologica è essenziale il riconoscimento dei valori naturali dell’uomo, specialmente quelli dell’indagine razionale nella sua autonoma capacità veritativa, sia perché, sul piano filosofico, egli ritiene di esibire giustificazioni probanti delle sue convinzioni sul senso dell’essere e dell’esistenza umana. Tra queste convinzioni ci sono certamente quelle riguardanti la metafisica della creazione, una meta che Tommaso ritiene raggiungibile – anche se non senza fatiche, ostacoli e difficoltà e anche se non è detto che sia da tutti raggiunta – alla luce di valide argomentazioni razionali: «che ci sia la creazione non solo lo ritiene la fede, ma anche la ragione lo dimostra»[10]. Questo motivo di fondo della speculazione dell’Aquinate è tale da rendere conto non solo della peculiarità della condizione dell’uomo e della sua dignità, ma anche della fecondità dell’agire della persona. Sicché un profondo studioso del pensiero tommasiano come Joseph De Finance ha potuto scrivere: «Au centre du thomisme, comme explication suprême du mystère de l’agir, nous placerions donc la doctrine de la création par voie d’intelligence et de volonté, sans laquelle tout le reste nous paraît vide de sens»[11].

Ora, per il nostro specifico tema si può partire dalla questione relativa alla verità delle cose, o delle realtà finite: «…una realtà conosciuta può avere con un intelletto rapporti essenziali o accidentali. Essenzialmente dice ordine a quell’intelletto dal quale dipende quanto al suo essere; accidentalmente, all’intelletto dal quale può essere conosciuta. Come se dicessimo: la casa importa relazione essenziale alla mente dell’architetto, relazione accidentale a un intelletto da cui non dipende. Ora, una realtà non si giudica in base a quello che le conviene accidentalmente, ma a quello che le si addice essenzialmente (o per sé) […] infatti si dice vera quella casa che riproduce la forma che è nella mente dell’architetto» (I, q. 16, a. 1)[12]. Perciò gli esseri creati «si dicono veri in quanto attuano la somiglianza delle idee che sono nella mente di Dio» (ibid.). In questo rapporto costitutivo con l’Intelligenza creatrice è la verità – e, quindi, la dignità – degli esseri creati, che in tal modo non dipende dalle opzioni, dai capricci, dalle prepotenze degli uomini. La dignità di ogni persona umana non dipende radicalmente dal riconoscimento di un altro uomo o degli altri uomini, ma da quel riconoscimento originario con cui Dio, nella generosità del suo amore e nel disegno della sua Intelligenza creatrice, gli dona l’essere e lo vuole per quello che è, lo costituisce nel suo essere. Sicché «la persona è ciò che vi è di più nobile e di più perfetto in tutta la natura» (I, q. 29, a. 3); ha, quindi, una dignità, inferiore solo a quella di Dio. Solo le creature intellettuali, e quindi le persone umane, sono volute per se stesse nell’universo, mentre tutte le altre sono volute da Dio per le persone (cfr. CG, III, 112). Queste, prima di essere riferite al bene comune immanente nella società e nell’universo, sono riferite a un bene infinitamente più grande, il Bene che è Dio stesso, con cui sono chiamate a vivere in comunione.

La dignità inalienabile di ogni essere umano scaturisce ed è costituita principalmente dal fatto che egli, nella sua originalità irrepetibile, è voluto da Dio. In questo rapporto con l’Intelligenza creatrice sta la sua verità, non dipendente dalle opinioni e dall’arbitrio degli uomini e, quindi, non mutevole. La mutevolezza della certezza è propria dell’intelletto finito e non creatore dell’uomo, per il quale la verità consiste nella conformità alle cose conosciute, cioè nel riconoscere ogni realtà per quella che è. In questo caso si può passare dalla verità alla falsità, perché non si conosce pienamente ed esaustivamente la realtà (cfr. I, q. 16, a. 8). Da ciò la pluralità e mutevolezza delle opinioni.

Per l’Intelletto divino la situazione è radicalmente diversa, perché la sua verità non è normata sulle cose; al contrario la verità ontologica di queste ultime dipende dall’unica verità della mente che le ha pensate, volute e chiamate all’essere e su cui tutte sono esemplate. L’intelligenza creatrice è quell’unica verità per la quale tutti gli esseri sono veri: «Se parliamo della verità in quanto è nelle cose, allora tutte le cose sono vere in forza dell’unica prima verità, alla quale ciascuna di esse si conforma nella misura del proprio essere. E così, sebbene siano molteplici le essenze e forme delle cose, tuttavia unica è la verità dell’intelletto divino» (I, q. 16, a. 6). Perciò «la verità dell’intelletto divino è del tutto immutabile, perché dipende da essa che le realtà create possano dirsi vere» (I, q. 16, a. 8). Infatti, è impossibile che ci sia un difetto nel conformarsi alle cose (come nell’uomo) o che ci sia una dipendenza dalla mutevolezza delle cose nell’intelligenza divina, «al cui sguardo non c’è nulla che possa sfuggire» e in cui non c’è «l’alternarsi delle opinioni» (ibid.). Sicché la verità (e dignità) degli esseri creati non è mutevole, la loro natura non è in balia della labilità delle opinioni, ma ha una determinata consistenza ontologica, pur trattandosi di esseri divenienti e, nel caso dell’uomo, di un essere che ha il compito di realizzare, nella libertà, la sua natura e cioè la piena conformità a quel disegno creatore. Questo disegno implica l’altissima vocazione di ogni essere umano, sicché questi non appartiene totalmente ed esclusivamente alla società, allo Stato, alla città terrena, perché ha un’origine e un fine che li trascendono.

Dunque, nella prospettiva creazionista e personalista tommasiana il riconoscimento essenziale viene ad ogni uomo da Dio che lo crea, perché lo vuole, lo ama e lo costituisce nella sua intrinseca positività. La sua dignità e i suoi diritti fondamentali non gli derivano dalla sua appartenenza sociale, dal riconoscimento della società o di qualsiasi autorità umana, ma sono saldamente ancorati sulla fedeltà di Dio.

Come si vede, per indagare sul nostro tema bisogna considerare certamente la tommasiana metafisica della creazione, che, in quanto non necessitata, ma libero dono, ha un rilievo primario a proposito del riconoscimento e della dignità umana, senza trascurare la prospettiva antropologica ed etica, in cui la specifica peculiarità della condizione umana è individuata nell’apertura dell’intelligenza all’universale con la conseguente tensione e destinazione della persona ad un fine e ad un bene che trascendono l’angustia della finitezza.

Onde non è da sottovalutare il contributo che la riscoperta del pensiero tommasiano può portare all’attuale ricerca e all’attuale dibattito, né sembra lungimirante privarsi di tale contributo, come vogliono talune non infrequenti censure e omissioni, su un argomento di tale importanza, quale la dignità dell’uomo, che non si può affidare, in esclusiva, alla debolezza di certi pensieri.

Secondo Tommaso la natura intellettuale dell’uomo fa sì che egli sia capax summi boni (I, q. 93, a. 2, ad 3), capace cioè di concepire e di volere il sommo Bene, l’oceano infinito di tutte le perfezioni. È qui la misura della sua umanità e della sua piena realizzazione: «l’ultimo fine della volontà umana è il sommo bene, cioè Dio» (I-II, q. 19, a. 9; cfr. I-II, q. 19, a. 4), che «nella sua bontà (o perfezione) infinita è il solo capace di appagare perfettamente la volontà umana» (I-II, q. 3, a. 1), che è appetito razionale.

La lucida riflessione dell’Aquinate evidenzia che, «se la bontà, la bellezza e la dolcezza delle creature attira così gli animi degli uomini, la bontà fontale di Dio stesso, paragonata ai rigagnoli del bene riscontrato con diligenza nelle singole creature, infiammerà e attirerà totalmente a sé gli animi degli uomini» (CG, II, c. 2).

Sicché, se si tiene conto che Dio è l’Essere stesso sussistente, si capisce che Egli è l’intera perfezione dell’essere (cfr. I, q. 4, a. 2), il bene totale ed esaustivo, che non lascia fuori di sé alcuna positività; d’altra parte, se si pone mente al fatto che egli è il Creatore, ciò è confermato con la precisazione che Egli contiene in sé le perfezioni, cioè i modelli perfetti ed esemplari di tutte le realtà create. Chiunque, infatti, fa qualcosa lo fa in base ad un’idea, ad un esemplare, come l’architetto che nel costruire la casa intende farla simile alla forma che ha prima concepito nella sua mente (cfr. I., q. 15, a. 1).

Ma mentre ogni artefice finito non sempre ha il potere di attuare i suoi progetti, Dio, creatore onnipotente, realizza ciò che ha ideato nella sua sapienza (cfr. I, q. 44, a. 3), partecipando, in modi diversi nel creato, la sua somiglianza (cfr. I, q. 15, a. 2).

Se Dio decide liberamente di partecipare questa sua somiglianza alle creature, ponendole in essere, non lo fa certamente perché ne abbia bisogno; in Lui infatti non c’è indigenza (cfr. I, q. 44, a. 4, ad 1) perché non gli può mancare nessuna delle perfezioni dell’essere (cfr. I, q. 4, a. 2, ad 3). Perciò Egli solo è capace di una completa gratuità donativa, «Egli solo è massimamente generoso: perché non agisce per propria utilità, ma solo per la sua bontà» (I, q. 44, a. 4, ad 1), nel senso che, nel creare, non agisce «per l’acquisizione di qualche fine, ma mira solo a comunicare la sua perfezione che è la sua bontà» (I, q. 44, a. 4).

Sicché nel comprendere la creazione libera e gratuita, si capisce che cosa è l’amore vero, quello di Dio che, volendo il bene delle creature, lo realizza, costituendole nella loro positività intrinseca: «Dio vuole il bene proprio di ciascun essere: poiché vuole che ciascun essere esista in quanto è buono in se stesso…» (CG. I c. 91, cfr. cc. 74 e 75).

Ora «la perfezione e la forma di un effetto non è altro che una somiglianza partecipata della causa agente, perché ogni agente produce qualche cosa di simile a sé» (I, q. 6, a. 1). Quindi in ogni creatura c’è una certa somiglianza del Creatore, che, però, non essendo contenuto in alcun genere, è una causa non univoca cioè non appartiene alla stessa specie o allo stesso genere degli effetti, che non gli potranno mai somigliare «secondo la stessa natura specifica o generica ma solo secondo una certa analogia…» (I, q. 4, a. 3). Sicché, mentre nella causa univoca la somiglianza dell’effetto si trova «nella forma secondo la stessa natura specifica; come avviene nell’uomo che genera un altro uomo» (ibid.), invece «in una causa equivoca vi si trova in grado più eminente», perciò «… è necessario che in Dio il bene si trovi in grado eccellentissimo essendo in Lui come nella causa non univoca di tutti gli esseri. E per questo motivo si chiama il sommo Bene» (I, q. 6, a. 2, corsivo mio).

Ciò significa, anche, che Dio è buono per essenza, mentre le creature lo sono per partecipazione, cioè in quanto partecipano della bontà di Dio secondo una certa somiglianza, sia pure alla lontana e in misura limitata (cfr. I, q. 6, a. 4).

Ma il considerare e l’amare Dio come il Bene sommo e la fonte di ogni bene, non significa ritenere il creato, «il mondo sensibile… il mondo di qua» come «apparente o irreale». Quest’ultima convinzione, attribuita da Heidegger non solo alla «tarda interpretazione greca», ma anche alla interpretazione «cristiana della filosofia platonica»[13], non è invece affatto cristiana e tanto meno dell’Aquinate. Per il quale certamente si può dire che «il mondo vero, l’autentico reale» è «il mondo del sovrasensibile (ibid.), se per mondo del sovrasensibile si intende Dio, ma nel senso preciso che abbiamo esaminato, il quale non implica affatto che il mondo creato sia apparente o irreale, o che sia, secondo una pretesa di Nietzsche, solo un modus della realtà assoluta»[14], destinato quindi a scomparire nella sua distinta realtà e ad essere riassorbito nell’Uno-Tutto o nel Bene separato[15].

No, l’amore dell’uomo per Dio non implica una fusione come annegamento spersonalizzante, come la goccia che, ritornando all’oceano, non esiste più come una realtà distinta nella sua intrinseca positività. Il vedere il mondo sensibile come una degradazione rispetto al Bene può essere proprio di un certo platonismo, ma non del teismo creazionistico e cristiano; il sottovalutare la positività della creatura può essere una tentazione del luteranesimo o del calvinismo, ma è certamente estraneo alla posizione tommasiana, in cui la partecipazione creaturale salvaguarda la trascendenza del Creatore e l’intrinseca positività della creatura.

Per Tommaso la creatura ha una positività non apparente, ma reale e sua propria; è una positività partecipata, donata, ma, una volta donata, è propria dell’essere creato, inalienabile, incancellabile: «ogni realtà si dice buona per una somiglianza sua propria della divina bontà ad essa inerente, che è formalmente la sua bontà e dalla quale si denomina» (I, q. 6, a. 4).

Se non si tiene conto della peculiarità della metafisica della creazione, non si capisce la posizione tommasiana, e allora si arriva ad assimilarla al platonismo (o, peggio, allo spinozismo), che, privo della prospettiva creazionistica, non poteva riconoscere, con la dovuta chiarezza, l’intrinseca positività della creatura. Invece ciò che è voluto e amato nel progetto creativo di Dio non è una «degradazione»[16], come pretende un altro fraintendimento heideggeriano; la tensione delle creature alla perfezione, come si può vedere esaminando la distinzione tra perfezione prima e perfezione seconda, la tensione al dover essere non vuol dire che «non è più l’essere a fornire la misura»[17], perché la misura è nell’Essere stesso sussistente, che è la Sapienza creatrice. Così la posizione tommasiana è agli antipodi del nichilismo[18], perché, considerando gli esseri, non dimentica certo l’Essere. È sorprendente che Heidegger critichi la posizione platonica, attribuendola anche al teismo cristiano (non escluso, quindi, il pensiero tommasiano), nonostante che quella posizione sia stata esaminata e confutata da Tommaso.

Questi ritiene falsa l’opinione secondo cui le cose si denominano buone per la partecipazione al bene separato, che rimarrebbe comunque loro estrinseco, come Socrate si direbbe uomo per la partecipazione dell’idea di uomo, separata da lui, e non per l’umanità a lui intrinseca (cfr. QDV, q. 21, a. 4). In questa prospettiva è chiaro che l’essere sensibile, l’essere finito non ha una intrinseca e distinta positività.

Al contrario, l’Aquinate sostiene che se si tiene fermo che la prima Bontà crea tutti i beni, bisogna riconoscere che imprime nelle realtà create una sua somiglianza, «cosicché ogni realtà si dice buona per una somiglianza a sé intrinseca del sommo bene, come forma a sé inerente, e in senso più lato (ulterius) per la prima bontà come causa esemplare ed efficiente di ogni bontà creata…» (QDV, q. 21, a. 4).

Difficilmente poteva essere sottolineato con maggiore vigore l’intrinseco valore della creatura, che emerge anche se si pone mente al fatto che per l’Aquinate è positiva la distinzione delle realtà create e quindi la peculiarità irriducibile di ciascuna di esse. Infatti Dio è la causa agente perfettissima e quindi a Lui conviene imprimere nel modo più perfetto la sua somiglianza nel creato, per quanto possibile alla natura creata. Ora, giacché nessuna creatura può eguagliare Dio, bisogna dire che la perfezione insondabile e ineguagliabile di Dio è manifestata meno imperfettamente dalla molteplicità e varietà delle realtà create, perciò «l’universo creato è più perfetto se le creature sono molteplici che se ci fosse un grado unico di esse[…] la diversità e la disuguaglianza delle cose create proviene non dal caso[…] bensì dall’intenzione diretta di Dio, il quale ha voluto dare alle creature quella perfezione che era loro possibile» (CG, II, c. 45).

Come si vede, questa prospettiva assiologica è tutt’altro che orientata nella direzione di una unità negatrice della diversità (come pretende un egualitarismo repressivo che oggi sembra riemergere). La differenza non è il male; al contrario, la ricca molteplicità e diversità delle creature riflette meglio la grandezza di Dio. Analogamente, anche per gli uomini (fatta salva la loro uguale dignità, saldamente fondata, come credo emerga in queste pagine) la meta non è una uguaglianza livellatrice, né una omogeneizzazione repressiva, ma che ognuno si realizzi nella sua specifica peculiarità, in un’autentica solidarietà che è scambio fecondo fra i diversi.

3) La radice del rispetto e dell’amore

Infine, sia pur per rapidi cenni, conviene far vedere che, sulla base del fondamento etico sopra delineato, si può radicare nella mente e nel cuore dell’uomo un autentico amore (che include imprescindibilmente il rispetto) delle altre creature umane. Amore non mutevole né capriccioso, né pervertito nel suo opposto (come, secondo Horkheimer e Adorno, i principi della rivoluzione francese: uguaglianza, libertà e fraternità si rovesciano nel loro opposto, nella dialettica dell’illuminismo) da parte di chi, chiuso nella prigionia del proprio io e, quindi, incapace di far realmente l’esperienza dell’incontro con l’altro, lo considera e lo tratta sempre come se avesse un ruolo meramente strumentale, e quindi subordinato e sacrificabile rispetto, per esempio, al mito della rivoluzione e della pretesa società perfetta. Amore autentico che non dipende evidentemente dalla labilità di un sentimento (che sia di piacere o di compassione è secondario, rispetto al fatto che si tratta pur sempre di un sentire del soggetto che comunque considera il proprio ego al centro di tutto, pur nella mutevolezza, spesso contraddittoria, dei propri stati emotivi) o di un interesse utilitario, comunque scaturenti da un orizzonte egocentrico, riduttivo dell’umano, in cui il soggetto dice di amare l’altro ma in realtà non lo rispetta nemmeno nella sua intrinseca dignità, perché lo vede solo in funzione della propria soddisfazione o del proprio presunto vantaggio.

Il prossimo (sia esso singolo o comunità o società), come abbiamo visto, non può mai surrogare l’assoluto, l’Infinito, per la mente ed il cuore dell’uomo (cfr. I-II, q. 4, a. 8, ad 3). Infatti, Dio, che è il sommo Bene e la fonte di ogni bene, è massimamente degno di essere amato per se stesso, cioè con un amore di amicizia, secondo il quale «chi ama è nell’amato in quanto considera il bene… dell’amico come suo proprio» (I-II, q. 28, a. 2). E, considerare il bene infinito che è Dio come bene proprio, significa per l’uomo liberarsi dalla prigionia della propria finitezza, non con la «passione inutile» , non con la pretesa, impossibile da realizzarsi, dell’autoassolutizzazione, ma aderendo all’Essere infinito e compiacendosi di Lui. Ora, colui che, aprendosi all’amore del sommo Bene, supera l’angusta prospettiva egoistica (che è il primo impulso, la spontaneità più ovvia, se si prescinde dalla dimensione riflessiva e critica che riesce a collocarla nel giusto posto), arriva ad amare l’altro uomo: «… l’amore verso di esso deriva dal perfetto amore di Dio» (I-II, q. 4, a. 8, ad 3). Ciò è vero sia perché l’amore verso Dio implica l’amore verso ogni creatura e in particolare verso ogni uomo, sia perché ogni uomo è costituito nella sua positività, e quindi nella sua amabilità, dall’amore che Dio ha per lui. Infatti l’amore verso Dio, l’adesione a Lui, dilata il cuore dell’uomo sulla misura dell’amore del Creatore che «vuole il bene di tutti gli esseri» (CG, III, c. 24).

In particolare, ogni uomo è amato personalmente da Dio: «… gli uomini sono amati da Dio, avendo (Egli) predisposto per essi come fine ultimo il godimento di se stesso. Perciò bisogna che uno, come diventa amante di Dio, lo diventi pure del prossimo» (CG, III, c. 117). Quindi, l’essere ordinato e chiamato a questo fine costituisce l’incomparabile grandezza di ogni uomo ed il fatto di averlo in comune con tutti i suoi simili, pur nella peculiare diversità di ciascuno, è la radice dell’autentica comunione tra gli uomini (cfr. CG, III, c. 117).

Ciò significa che ogni uomo ha una dignità inalienabile, nella quale Dio, creandolo, lo ha costituito perché lo ha voluto nell’essere, lo ha chiamato alla vita. Dignità, quindi, che non dipende originariamente da alcun riconoscimento umano o sociale, ma che, al contrario, implica dei diritti naturali (derivanti cioè dalla sua stessa natura, così voluta dal Creatore) dell’uomo che nessuna organizzazione giuridico-politica della convivenza, che voglia dirsi umana, può misconoscere.

La relazione col Creatore è di importanza decisiva per ogni uomo, perché lo costituisce e lo riconosce nella sua dignità di immagine vivente di Dio, come essere dotato di pensiero e che si autoprogetta unico ed irripetibile, collaborando all’opera della creazione. Dio chiama ciascun uomo per nome, perciò qualunque cosa si faccia contro l’uomo, o che egli stesso faccia di degradante, non può riuscire a cancellare l’impronta inconfondibile di questo dialogo, di questa relazione originaria e quindi di questa dignità inalienabile.

Dunque, l’amore di Dio è «fonte di coesione (congregativus)», perché «riconduce ad unità l’affezione dell’uomo», rispetto alla dispersione, non di rado conflittuale, nella molteplicità, mentre l’amore di sé disgrega, dilacera il cuore dell’uomo – rivolto a molteplici e diversi beni finiti –, che si ama desiderando per sé questi beni (cfr. I-II, q. 73, a. 1, ad 3).

L’amore verso il Bene sana la divisione del cuore, la disgregazione della personalità (dispersa correndo dietro ora a questo ora a quel tesoro, che si rivela    deludente) sempre nomade e mai a casa propria, oppure addirittura in conflitto con se stessa, perché attratta da diversi e contrastanti amori. L’amore verso Dio riconduce ad unità ogni movimento e ogni desiderio della vita della persona, perché, spazzando via gli idoli in conflitto tra di loro, prende il primo posto nel cuore dell’uomo e pone nel dovuto ordine ogni altro affetto in coerenza con l’adesione prioritaria al Bene.

Ma, in tal modo, l’amore verso Dio è fonte di coesione e, prima ancora, di rispetto tra gli uomini, sia perché solo una personalità così unificata e non preda di molteplici idoli è in grado di amare non strumentalmente il prossimo, volendone il bene, sia, e soprattutto, perché solo in quanto un uomo riconosce il vero Assoluto, si libera dalla tentazione di assolutizzare se stesso, i suoi bisogni, le sue esigenze, le sue pretese, entrando così inevitabilmente in conflitto con gli altri. Invece, sulla base dell’amore di Dio è possibile amare veramente gli altri; alla luce dell’ordine che proviene da Lui è possibile discernere e quindi volere il vero bene dell’uomo.

4) Sull’etica della ricerca

A conclusione sembra opportuna qualche breve considerazione (aperta alla discussione), non evasiva rispetto all’attuale situazione culturale (dopo Fabro e Del Noce, le cui indagini erano ben documentate sui testi) in ambienti cattolici, in cui non è infrequente riscontrare – anche in intellettuali degni di stima, che intendono imparare dal genio speculativo dell’Aquinate, nello studio della dottrina sociale della Chiesa – delle precomprensioni oscillanti tra un complesso d’inferiorità e uno di superiorità nei confronti del pensiero moderno e contemporaneo, che in tal modo resta non compreso, né valutato criticamente. Infatti si leggono giudizi sommari e inappellabili, basati, nel migliore dei casi, su qualche passo – isolato dal più ampio contesto, che appare ignorato, della produzione di qualche filosofo, che magari ha scritto migliaia di pagine. In tal modo, pur credendo di aver liquidato definitivamente un pensatore, in realtà aspetti della verità non sono conosciuti e gli errori non sono confutati.

Invece nelle pagine dell’Aquinate, che pure cita e considera tanti autori, non si trovano giudizi liquidatori su un filosofo e su tutta la sua opera, pur nella confutazione – chiara e inequivocabile, non mascherata nell’ambiguità che non ama la verità – di determinate concezioni ritenute erronee, e nella valorizzazione di ricerche e contributi, che egli non teme di accogliere e condividere. Perché San Tommaso d’Aquino, che univa la ricerca alla preghiera, aveva il seguente criterio di fondo del suo studio e del suo insegnamento: «ogni verità, da chiunque sia detta, viene dallo Spirito Santo, che infonde la luce naturale [dell’intelligenza], e muove ad intendere e ad esprimere la verità» (I-II, q. 109, a. 1, ad 1; cfr. De potentia, q. 1, a. 3, arg. 6).

La condizione umana è finita e fallibile, per cui in ogni uomo, in ogni pensatore, in una stessa opera ci può essere il buon grano, ma pure la zizzania, onde il monito evangelico: «… i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non accada che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura» (Mt 13, 27-30). La fretta superficiale di estirpare la zizzania, cioè la preoccupazione prioritaria di condannare gli errori (altrui), può obnubilare l’intelligenza, dimentica della sua vocazione alla ricerca della verità, “da chiunque sia detta”.

L’attuale situazione di disorientamento (per dirla con un eufemismo) deriva anche da queste dimenticanze, oltre che, principalmente, da una posizione sostanzialmente antropocentrica, sopra considerata almeno in alcune sue aporie, e che può sfociare nell’idolatria. Questa ha dei costi umani di inaudita gravità, in base all’abbaglio di chi pensa di venire incontro alle donne e agli uomini di oggi, assecondandone l’autoindulgenza nel rifiuto della verità della propria condizione creaturale.

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[1] CH. TAYLOR, Multiculturalism and The Politics of Recognition, in A. GUTMANN (ed.), Multiculturalism. Examining The Politics of Recognition, Princeton University Press 1992 (1994²); trad. it. di G. Rigamonti, La politica del riconoscimento in J.HABERMAS – CH. TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 1998.

² J. HABERMAS, Struggles for Recognition in the Democratic Costitutional State, in A. GUTMANN (ed.), Multiculturalism…, cit.; questo saggio è uscito anche in tedesco (Frankfurt a. M. 1996); trad. it. dal tedesco di L. Ceppa Lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. HABERMAS – CH. TAYLOR, Multiculturalismo…cit.

[3] A. HONNETH, Kampf um Anerkennung. Zur moralischen Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1992, trad. it. di C. Sandrelli, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002. Dello stesso autore si veda anche: Integrität und Mißachtung. Grundmotive einer Moral der Anerkennung, in «Merkur», 1990, Heft 501; trad. it. di M. A. Miglietta, Integrità e spregio: temi fondamentali per una morale teoretica del riconoscimento, in «Fenomenologia e società», 1991, 2; trad. it. di una versione ampliata dello stesso saggio: Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, a cura di A. Ferrara, Rubettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) – Messina 1993.    

[4] P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance, Éditions Stock, Paris 2004; trad. it. di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.   

[5] Qui non mi posso soffermare su questo tema per cui, per un concreto emergere sul piano argomentativo e critico di quanto è qui semplicemente asserito, mi permetto di rinviare al mio saggio: Verità e rispetto della persona nella società multiculturale in “Nova & Vetera”, n. 4, 2001, ora in U. GALEAZZI, Identità umana e libertà. Narrazioni rivali nella storia della filosofia, Milella, Lecce 2002.

[6] CH. TAYLOR, op. cit., p. 37.

[7] TH. W. ADORNO-M. HORKHEIMER, Dialektik der Aufklärung, Querido, Amsterdam 1947, trad. it. di L. Vinci, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, pp. 98-99. Per la critica della dialettica dell’illuminismo e della ragione strumentale, a cui i Francofortesi contrappongono la “ragione oggettiva”, mi permetto di rinviare al mio libro: U. GALEAZZI, La teoria critica della Scuola di Francoforte, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000.

[8] Cfr. U. GALEAZZI, L’etica filosofica in Tommaso d’Aquino, Città Nuova Editrice, Roma 1990²; ID., Introduzione .

[9] S. VANNI ROVIGHI, C’è un’etica filosofica in San Tommaso d’Aquino?, in AA. VV.,  Atti del Congresso tomistico internazionale, 5, L’agire morale, Edizioni Domenicane Italiane, Napoli 1974, ora in S. VANNI ROVIGHI, Studi di filosofia medievale, vol. II°, Vita e Pensiero, Milano 1978, da cui cito, p. 129.

[10] S. THOMAE AQUINATIS, In quattuor libros Sentenziarum, II, d. 1, q. 1, a. 2, in S. THOMAE AQUINATIS, Opera omnia, curante R. Busa, Stuttgrt-Bad Cannstat 1980, vol. I°. Tra la vastissima letteratura critica, per un approfondimento di questo tema tommasiano in modo che ne emerga la validità anche rispetto alle obiezioni presenti nel pensiero contemporaneo, si vedano almeno: J. DE FINANCE, Être et agir dans la philosophie de S. Thomas, Presses de l’Université Grégorienne, Rome 1965³; C. FABRO, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, Milano 1939, IVª edizione EDIVI, Segni (Roma) 2005; C. FABRO, Partecipazione e causalità secondo S. Tommaso d’Aquino, SEI, Torino 1960; C. FABRO, Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969.

[11] J. DE FINANCE, op. cit., p. 358.

[12] Elenco delle abbreviazioni di opere tommasiane: La Summa theologiae sarà citata solo indicando con numeri romani la pars e, successivamente, la quaestio e l’articulus con numeri arabi;

Summa contra Gentiles = CG;

Quaestiones disputatae de veritate = QDV;

Qaestiones disputatae de potentia = De potentia.

Per le opere di Tommaso, mi riferisco al testo dell’edizione, curata da R. Busa, S. Thomae Aquinatis opera omnia, Stuttgart, Bad Cannstat 1980, 7 voll. In questi volumi sono riprodotte le migliori edizioni delle diverse opere dell’Aquinate. Per la Summa theologiae mi riferisco al testo e alla traduzione italiana dell’edizione (che riproduce l’Editio Leonina) curata dai Domenicani italiani, 33 voll., Salani, Firenze 1940-1973, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 19855.  Per la Summa contra Gentiles mi riferisco alla trad. it. di T.S. Centi, Utet, Torino 1970.

[13] M. HEIDEGGER, Nietzsches Wort «Gott ist tot», in ID., Holzwege, Frankfurt a. M. 1950; trad. it. di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, ed. anastatica 1984, p. 198.

[14] F. NIETZSCHE, Frammento postumo del 1888, in ID., Il caso Wagner, crepuscolo degli idoli, l’Anticristo e Scelta di Frammenti postumi (1887-1888) a cura di G. Colli e M. Montinari; trad. it. di F. Masini e S Giametta, Adelphi, Milano 1970 e Mondadori, Milano 1975 (da cui cito), 10 (7), p. 283.

[15] Cf. J. DE FINANCE, Op. cit., 1965³, p. 359.

[16] Cfr. M. HEIDEGGER, Einführung in die Metaphysik, Tübingen 1953, trad. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1972², p. 201.

[17] Cf. ibid.

[18] Cf. ibid., p. 207.

Fonte: Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân

Prima parte

https://www.vanthuanobservatory.org/ita/riconoscimento-e-dignita-umana-la-problematica-contemporanea-e-il-pensiero-di-tommaso-daquino-di-umberto-galeazzi-parte-1/?fbclid=IwAR1XaEGjmL3Wce2J3Oe_YaNWoFNIBMyTu8cCWPvTlrE4HDirWaYhiRdBCDw

Seconda parte

https://www.vanthuanobservatory.org/ita/riconoscimento-e-dignita-umana-la-problematica-contemporanea-e-il-pensiero-di-tommaso-daquino-di-umberto-galeazzi-seconda-parte/?fbclid=IwAR0GxQavE3Chln2vCIWB6y–atVThcKTwo_wkVq1Is-jKUgvBhqhjWSUuco

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