Triste e liquido, il Messale riflette questa Chiesa

di Riccardo Barile.

Nonostante le proteste per l’iconografia del Lezionario, anche con la nuova edizione del Messale si è voluto continuare con immagini inguardabili. Croci indigeste, immagini violacee e tristi, volti senza volto, primitivismi iconografici leziosi e insopportabili. Nulla a che vedere con l’arte. C’è solo la Chiesa come la vorrebbero alcuni: liquida, senza un volto preciso, senza contorni dottrinali. E il disastro pastorale è legittimare queste posizioni senza proporre un ideale di bellezza che induca a superarle.

Visionate le immagini della nuova edizione/traduzione del Messale italiano 2020, mi sono ritrovato nella sentenza del saggio: «Come il cane ritorna al suo vomito, così lo stolto ripete le sue stoltezze» (Pr 26,11; la 2Pt 2,22 aggiunge anche una scrofa). Nonostante le proteste per l’iconografia del Lezionario, si è voluto continuare con immagini inguardabili.

Preciso: gli strali non sono diretti a tutti i vescovi italiani, che non hanno partecipato in prima persona alle scelte iconografiche; tantomeno all’autore, che legittimamente ha risposto ad un invito ed ha un suo stile su cui non intendo dare valutazioni. Gli strali sono diretti agli incaricati responsabili della scelta – i «liturgisti che mi hanno accompagnato in questa avventura», come dichiara l’autore (Gazzaneo p. 63; cf sotto) – e le perplessità partono dai risultati che lasciano trasparire i criteri guida. Infine le critiche scaturiscono dal disagio di chi si trova di fronte a un progresso senza continuità e si sente preso in giro.

CHI, CHE COSA, COME
L’iconografia è tutta di Mimmo Paladino, nato a Paduli (BN) il 18.12.1948, autore della “Porta d’Europa” (Lampedusa 2008) ed esponente della Transavanguardia. Le immagini sono disponibili qui e ognuno può farsene un’idea.

Sul senso delle scelte si possono evitare congetture non fondate, in quanto il recente Luoghi dell’infinito ottobre 2020 (l’allegato di arte di Avvenire) ospita due contributi che fanno chiarezza: Il Messale, immagine della Chiesa (Paolo Tomatis, pp. 56-60) e Paladino e il segno del Mistero (Giovanni Gazzaneo, pp. 62- 63).

Intervistato, Paladino constata che «la Chiesa in questi ultimi anni si è sempre più avvicinata all’arte di ricerca, oltrepassando quel confine, che sembrava invalicabile, dell’arte figurativa e dell’iconografia legata alla tradizione» (Gazzaneo, p. 63). Chiaro: si è infranta la categoria di progresso nella continuità. Spezzare questo legame era ciò che non si sarebbe dovuto fare.

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L’intenzione delle immagini non è di proporsi «come un modello di iconografia liturgica», ma «di “far compagnia”», anzi, di proteggere chi le guarda «da quell’eccesso di rappresentazione che oltre a stancare l’occhio non fa altro che manifestare una certa ansia di comunicare a tutti i costi la teologia per immagini» (Tomatis, p. 60). Invece è proprio ciò che bisognava fare. «Non ho pensato né di illustrare né di decorare, ma di offrire il mio linguaggio (…) per accompagnare il testo liturgico» (Paladino in Gazzaneo p. 63). La rinuncia ad esprimere il mistero apre alle emozioni. Invece un concilio ecumenico insegna che «quanto più frequentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli originali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione» (Nicea II del 787: COD p. 136). Anche il Vaticano II ritiene che le opere d’arte destinate al culto comportano «una certa sacra imitazione di Dio creatore» e va rispettata la loro destinazione «all’edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei fedeli» (SC 127).

La scelta è stata quella «di continuare il dialogo con l’arte contemporanea» (Tomatis, p. 59). E così sono stati eliminati dalla contemporaneità gli iconografi italiani e i disegnatori e i pittori neoclassici! Come avviene in teologia, in pastorale, nell’attualità ecclesiale da esibire: è espressione dell’oggi solo chi fa stranezze, chi è di sinistra o comunque progressista…

La «tecnica dell’acquerello è funzionale alla ricerca di un linguaggio “gentile”» (Tomatis, p. 60). Sarà, comunque l’acquerello non è di per sé impreciso e privo di colori brillanti: si vedano i fiori recisi di Paul Cézanne († 1906): qui il cuore si rallegra, mentre le immagini del Messale veicolano tristezza e angoscia violacea. Per non parlare poi della carta sottile che lascia trasparire la stampa del retro…: che squallore!

ALCUNI ESEMPI E RELATIVE CONSIDERAZIONI
Fatte salve le accettabili e persino belle lampade dell’Avvento (pp. 2-3), per il resto:

– il logo del buon pastore è duro, inutilmente spigoloso e non invita di certo ad affidarsi;
– la povertà del Natale e dell’Epifania (pp. 34.54) sono desolanti, stante la memoria collettiva ricca di ben altre immagini in argomento;
– la faccia della quaresima (p. 66) richiama un catatonico, o un demonio muto (cf. Lc 11,14), o meglio ancora un demonio cieco e muto (cf. Mt 12,22);
– la croce del triduo pasquale (p. 134) è veramente indigesta, inconciliabile con «la raffigurazione della santa croce preziosa e vivificante» (Nicea II del 787: COD p. 135)
– al giovedì santo Cristo e gli apostoli nel cenacolo sono senza volti e la mensa è senza pane e senza vino (p. 136): che Eucaristia è?
– senza volti anche alla Pentecoste il gruppo dei personaggi e con la Madonna senza fiammella (p. 250); in ogni caso la Collectio n. 17 “Maria Vergine nel Cenacolo” al prefazio dice che Maria, già adombrata dallo Spirito nell’Incarnazione, «è di nuovo colmata del tuo Dono al sorgere del nuovo Israele»: come la mettiamo?
– l’inizio del rito della Messa (p. 306) è di nuovo con volti senza volto, con il presbitero in mezzo senza essere presidente, anche se è di spalla rispetto agli astanti e non coram populo, roba da vetus ordo… e poi non c’è traccia di ambiente di chiesa;
– taccio sul crocifisso che precede le preghiere eucaristiche (p. 411), diametralmente opposto alla “beata passione” (PE 1) e mi domando con quale spirito, vista questa immagine, un presbitero potrà pronunciare le parole “beata passione”;
– al vedere l’Assunta viene in mente il canto popolare “Andrò a vederla un dì”, ma, se la Madonna del cielo corrisponde anche debolmente all’immagine di p. 614, proprio non vale la pena di andare in paradiso a vedere quella roba;
– le messe votive sono umiliate con una immagine di inizio di due mani (p. 917), che sembra ottenuta immergendo le mani nell’inchiostro e poi posandole e premendo lievemente sulla carta da disegno (ma che sia carta di qualità pregiata da citarsi nella didascalia) e voilà, l’opera d’arte è servita e guai a dire che non è bella,
– l’immagine introduttoria delle musiche ha un primitivismo lezioso e insopportabile (p. 1112), richiama qualcosa di esoterico o i figli dei fiori, per fortuna senza riferimenti di sesso.

LA QUESTIONE DI FONDO
Tutto si basa su di un testo del Concilio, o meglio sulle parole iniziali: «La Chiesa non ha mai avuto come proprio uno stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura» (SC 123; cf GS 62). Ovvio che possono trovare legittimo spazio anche le forme di arte contemporanea.

C’è però un equivoco da chiarire. Lo stile artistico nasce dai meccanismi di conoscenza, linguaggio, espressione ecc., che come tali sono buoni e creati da Dio attraverso la natura umana. Dio stesso si è servito di queste strutture per comunicare la sua rivelazione. Nella concretezza però queste strutture sono soggette alle deformazioni del peccato originale e dei peccati personali, per cui si possono costituire delle «strutture di peccato» (CCC 1869), che non sono solo economiche e politiche, ma anche artistiche o di linguaggio (ad esempio un linguaggio infarcito di bestemmie). Possono essere direttamente peccaminose o semplicemente dimenticare la vera immagine del Dio rivelato e dell’uomo e delle vie di salvezza. Per cui non tutti i linguaggi artistici di oggi – anche se non direttamente peccaminosi – sono disponibili a esprimere le realtà celesti. Si è valutato tutto questo?

Inoltre la Chiesa oggi non parte da zero, ma ha elaborato una sua tradizione iconografica di consuetudine, di teologia, di affermazioni del magistero. Si è valutato tutto questo?

LA CONNESSIONE PASTORALE E DOTTRINALE
Le immagini del Messale sono caratterizzate da: mancanza di contorni precisi, di disegno preciso (disegno preciso non è ovviamente una fotografia: cf. le icone); assenza spesso di volti definiti; macchie/sbavature collaterali prodotte ad arte; un ricercato primitivismo, disegni da bambini (cf. la copertina dell’accluso Orazionale e quasi tutto il resto); colori tristi o macchie di nero.

In fondo la tecnica e il risultato di queste immagini esprimono non dico la Chiesa, ma la Chiesa come la vorrebbero alcuni: una Chiesa liquida, senza volto preciso, con sbavature autorizzate e senza contorni dottrinali messi a fuoco in più di 2000 anni; ma soprattutto il disastro pastorale di legittimare queste posizioni senza proporre un ideale di bellezza che induca a superarle, a convertirsi, a camminare avanti invece di restare a giacere. C’è una coerenza tra le immagini del Messale, una certa pastorale e una certa teologia. Come si esprimono i francesi, “tout se tien”, tutto si tiene insieme, tutto è connesso (in questo caso: infelicemente connesso).

QUALCHE URLO FINALE
Sì, qualche urlo, come il dipinto di Edvard Munch († 1944).

Immagini per «far compagnia (…) una buona e silenziosa compagnia»…, accompagnamento «gentile e discreto» (Tomatis, p. 60)? Ma scherziamo? Piuttosto mi sento come Alberto Sordi e Anna Longhi in Le vacanze intelligenti (1978), indotti dai figli a visitare la Biennale e guidati da un cicerone che con inflessibile gentilezza lava loro il cervello. Fuori dai denti: mi sento preso in giro, umiliato, calpestato e sottomesso “gentilmente” a una dittatura.

Certo, qui l’odore delle pecore non ha funzionato e sono le pecore a dover assumere l’odore della élite a cui i pastori hanno dato fiducia.

Rimangiandomi un poco quanto precisato all’inizio, penso che un tempo i pastori a fronte di queste immagini neppure avrebbero discusso, ma subito le avrebbero bloccate. Oggi non più.

Certo, resta scritto che le cose appartenenti al culto sacro hanno da essere «veramente degne, decorose e belle, segni e simboli delle realtà soprannaturali» (SC 122) e tali hanno da essere anche i libri liturgici (OLM 35). Per contrasto, la vista dello squallore rende sempre più smaglianti e consolanti queste indicazioni.

Fonte: La nuova Bussola Quotidiana

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