La priorità dei diritti sui doveri. In margine ad un libro di Stefano Fontana

di Silvio Brachetta.

Tavolo di Lavoro sulla Commissione Glendon.

Stefano Fontana nel suo libro Per una politica dei doveri, dopo il fallimento della stagione dei diritti (Cantagalli, Siena 2006) presenta il principio della Dottrina sociale della Chiesa e della teologia morale in genere secondo cui c’è una priorità dei doveri sui diritti. Anche a seguito della “questione sociale” moderna, il magistero petrino, tra il XIX e il XX secolo, è tornato spesso sul rapporto tra diritti e doveri, rilevando «l’incongruenza grave di diritti senza precedenti doveri»[1].

Il fatto che i doveri, o il dovere, abbiano il primato lo si può immediatamente riconoscere nella centralità del Decalogo in ambito morale: «Si vis ad vitam ingredi, serva mandata» – «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti»[2]. Questo brano del Vangelo è anche l’incipit delle Collationes de decem præceptis (Collazioni sui dieci precetti) di san Bonaventura da Bagnoregio, in cui espone una sapiente riflessione sulla natura del «precetto» e, dunque, del «dovere».

Nella prima Collazione, Bonaventura specifica che il secondo lemma del brano evangelico («osserva i comandamenti») riguarda il «merito dell’azione». Ovvero lega il merito all’obbedienza[3]. Le opere meritorie dell’uomo sono necessarie alla salvezza, assieme alla grazia, e l’obbedienza genera un’opera.

Non solo, ma specifica che sono quattro le cose che «spingono ad osservare i comandamenti di Dio». E cioè: «autorità del mandante, utilità dell’osservanza, pericolo della trasgressione e irreprensibilità del precetto»[4]. Per la questione sui doveri, è opportuno puntare l’attenzione, soprattutto, sul secondo e sul terzo elemento, ovvero sull’«utilità dell’osservanza» e sul «pericolo della trasgressione».

È utile all’uomo – dice Bonaventura – osservare i comandamenti di Dio, perché maturano i frutti dell’«impetrazione dei doni divini», dell’«intelligenza delle Sacre Scritture» e dell’«acquisizione dei premi celesti»[5]. Al dovere, quindi, seguono i doni dello Spirito Santo, l’apertura della mente ai misteri e il conseguimento della salvezza. Nella trasgressione del precetto, al contrario, l’uomo è in grave pericolo: perde i beni (anche il bene dell’intelletto), diventa scellerato e alla fine va in perdizione.

Fontana, però, non si sofferma tanto sul contenuto o sull’atteggiamento dell’uomo di fronte ai comandamenti, ma piuttosto sul fatto che essi facciano parte della realtà. C’è una realtà oggettiva, cioè, nei confronti della quale l’uomo non può evitare di confrontarsi, a meno che non voglia uscire dalla stessa realtà – e il comandamento morale (con annesso il dovere) è la parte centrale e fontale del reale, in quanto voce del Dio reale, nella coscienza umana, prima, e impressa sulle tavole mosaiche della Legge, poi.

Per questo motivo Fontana imposta gran parte della sua riflessione sul perno dell’«autocoscienza»[6]: è vero che l’«io» della coscienza è un soggetto, ma dagli albori del pensiero filosofico l’uomo si è accorto che esiste un’«oggettività» della coscienza. La mente può pensare se stessa. L’autore fa una scelta azzeccata, perché così si può dimostrare facilmente il legame tra il primato dei doveri e l’umiltà e, viceversa, tra la pretesa dei diritti e la superbia.

Dal «conosci te stesso» dell’oracolo di Delfi a Socrate, che sapeva di non sapere – dai tentativi di Platone per attivare la reminiscenza ad Aristotele, che parla di «pensiero di pensiero» – la storia d’Occidente (fino a Cartesio e alla modernità) tiene conto dell’esistenza di un qualcosa che trascende l’«io» e lo costituisce.

Si deve dire – scrive Fontana nel merito – «che la coscienza consiste in un io davanti a un sé. Questo guardare il proprio sé è appunto la coscienza»[7]. I pronomi «io» e «sé» sono da lui adoperati «per indicare i due versanti soggettivo e oggettivo della coscienza»[8]. Non si vuole alludere a nulla di simile a uno sdoppiamento della persona: la coscienza è una, così come la persona, l’individuo. Si vuole invece alludere al fatto (quindi alla realtà) secondo cui l’uomo è «immagine e somiglianza»[9] di Dio, universale nella sostanza e individuato nelle Persone (Padre, Figlio e Spirito Santo). Allo stesso modo, l’uomo è universale nella sua natura e individuato nella persona, così come tutte le creature (sebbene non siano immagine e somiglianza di Dio) sono universali nell’essenza e individuate nell’ente.

Non è strano, quindi, usare i pronomi «io» e «sé» riferiti ad un unico e indivisibile soggetto. L’«io», infatti, ha la propria ragion d’essere e il proprio significato oltre se stesso. E il concetto di trascendenza significa, appunto, avere la propria ragion d’essere altrove. Correttamente Fontana esclude la trascendenza del sé (il sé è «intrascendibile»). Il motivo è abbastanza chiaro: il sé è già la trascendenza, il significato, dell’io; non ha senso chiedersi il significato di un significato o la spiegazione di una spiegazione.

E proprio perché il significato dell’io è altrove – in ultima analisi, in Dio – inizia la spiegazione del primato dei doveri: l’io – osserva Fontana – «non ha piena disponibilità di se stesso» (come invece sostiene il libertarismo moderno), ma «persino verso se stesso, oltre che verso gli altri, l’io ha un dovere prima che un diritto»[10]. C’è, insomma, un primo dovere nei confronti dell’oggettività del reale, che tradisce una provenienza di tutte le cose, uomo compreso, da un principio trascendente e indisponibile.

Da qui sorge la libertà autentica, che non ha a che fare con l’io solipsistico ed estraneo alla trascendenza, ma che passa «dal realismo della verità»[11]. Un io «alienato», un io che rompe il rapporto con il sé, «si avvita su se stesso e si perde»[12], poiché è fondato sul nulla, sulla cieca volontà, che ha rotto il suo rapporto con la ragione – con la mens.

Il sé[13], di cui scrive Fontana, ha i connotati della mens, come concepita dalla Scolastica e, in particolare, da san Bonaventura. Il Serafico «intende per mens, seguendo la terminologia agostiniana, il complesso delle tre “facoltà” della memoria, dell’intelligenza e della volontà, che costituiscono l’immagine di Dio impressa nell’uomo, cioè la più profonda dimensione del suo essere personale e spirituale»[14]. La mens, cioè, è da intendersi «agostinianamente come vertice dell’anima»[15].

Memoria, intelligenza e volontà non sono altro dall’uomo, ma non si può non riferirle al Creatore, nel quale vi è la spiegazione di tutto, il senso oggettivo e profondo delle cose e delle persone. La modernità, prima ancora di rinunciare all’obbedienza nei confronti di Dio, rinuncia all’ossequio e al riconoscimento della verità che promana dalle cose, fosse anche la verità della propria coscienza. Seguendo questa strada cieca, prima ancora che anticristiana, la coscienza è traviata nella sua verità intrinseca e si trasforma da giudice della ragione sul bene e sul male[16] a creatrice del bene e del male, secondo criteri casuali e anarcoidi.

Il trionfo di questa morale dell’indifferenza[17] ha portato alla crisi epocale in corso della nostra civiltà, nonché al «fallimento della stagione dei diritti», secondo l’espressione di Fontana, con tutte le complicanze conseguenti: perdita dell’identità culturale, conflitto tra i diritti (spesso contrastanti tra loro), collasso dello stato assistenziale e trasformazione delle democrazie in totalitarismi[18].

C’è una purgazione della volontà, necessaria in questo secolo e condizione per l’ingresso nel paradiso. La purgazione consiste nel ripristino dell’armonia originaria con l’intelletto, nella mens. Virgilio, dopo avere accompagnato Dante per l’inferno e il purgatorio, lo lascia alle cure di Beatrice, sulla soglia del paradiso, non prima però di avere pronunciato queste parole: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare a suo senno: per ch’io te sovra te corono e mitrio»[19]. Chi è purgato nel volere, cioè, è libero e diventa padrone completo di se stesso. Da notare il «te sovra te», ombra dell’autocoscienza.

E come si purga la volontà? Con l’umile accettazione della realtà, nel presente, o espiando, dopo la morte, in questo modo: «Dalla piaggia ove aspettano i morti in contumacia della Chiesa alla cornice fiammante dei lussuriosi, col morso della pena e coll’esercizio della meditazione e della preghiera si vien purgando la volontà da ogni macchia, sicché risanata e monda, rimane in fine svincolata da ogni laccio, e pronta a volar su in cielo»[20]. E, dunque, «cancellata la colpa e soddisfatta la pena […], la volontà nella purificazione del male e nel rafforzamento del bene riveste la propria perfezione»[21].

Precedenti interventi:

I LAVORI DELLA COMMISSIONE GLENDON SUI VERI DIRITTI UMANI. UNA SVOLTA DA SOSTENERE E ACCOMPAGNARE. Di Don Samuele Cecotti VEDI QUI

-I diritti si fondano sul diritto. Di Giovanni Formicola. VEDI QUI

[1] Stefano Fontana, Per una politica dei doveri, dopo il fallimento della stagione dei diritti, Cantagalli, 2006, p. 25.

[2] Mt 19, 17.

[3] Bonaventura da Bagnoregio, Collationes de decem præceptisCollazione I: «quattro motivi che spingono all’osservanza dei precetti divini e presentazione generale del Decalogo».

[4] Ivi.

[5] Ivi.

[6] L’autocoscienza si può definire semplicemente come l’attività del pensiero che riflette su se stesso, oppure come la «conoscenza che il soggetto ha di sé in quanto soggetto». Cfr. p.es. A. Renda, voce «Autocoscienza», in Enciclopedia Treccani, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1930.

[7] Fontana, Per una politica dei doveri, op. cit., p. 52.

[8] Ivi.

[9] Cf. Gen 1, 26.

[10] Fontana, Per una politica dei doveri, op. cit., p. 53.

[11] Ivi.

[12] Ivi.

[13] Fontana, a proposito dell’autocoscienza, cita nel suo libro quattro autori, la cui dottrina è centrale sul tema: sant’Agostino d’Ippona, san Tommaso d’Aquino, Michele Federico Sciacca e Karol Wojtyła. Agostino ha parlato dell’autocoscienza «implicita», come «condizione oggettiva previa di ogni altra conoscenza soggettiva». Secondo Tommaso nell’intuizione immediata dell’essere «l’io soggettivo viene percepito esso stesso come oggetto e la coscienza che ne nasce non è una coscienza “vuota”, cui può ridursi la coscienza “pura” della modernità». Sciacca aggiunge che la coscienza è «coscienza di essere». Wojtyła conferma l’«oggettività e la simultanea soggettività dell’uomo».

[14] Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente in Dio, a cura di G., La Scuola, Brescia 1995, p. 13.

[15] Id., Itinerario dell’anima a Dio, a cura di L. Mauro, Bompiani, Milano 2002, p. 10.

[16] CfCatechismo della Chiesa Cattolica, LEV, n. 1778.

[17] Cf. S. Th. Pinkaers, La morale cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994.

[18] Cf. Fontana, Per una politica dei doveri, op. cit., pp. 14-16.

[19] Si potrebbe tradurre: «Non attendere più le mie parole, né i miei gesti [per agire]. Il tuo volere [giudicante] è ormai libero dalle passioni, rettamente volto verso il bene e guarito dai suoi mali, e sarebbe un errore non assecondarlo; perciò io ti costituisco signore e pontefice di te stesso». Dante Alighieri, La Divina Commedia, Purgatorio, XXVII.

[20] s.a., L’ordinamento morale del Purgatorio dantesco, «La Civiltà Cattolica», 16/02/1907, a. 58, n. 1360, pp. 405-406.

[21] Ivi.

Fonte: Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân

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