Contro il Covid falliscono i lockdown e vince il pragmatismo

di Eugenio Capozzi.

In merito all’epidemia di Covid l’Italia sembra vivere da mesi in una vera e propria “bolla”. Il governo Conte bis e i suoi “esperti”, come molti poteri locali, si sono mossi in modo assolutamente incoerente, ma sempre monolitico, privo di qualsiasi riflessione critica generale sulla pandemia, protetti da un sistema dei media che ha offerto una narrazione totalmente funzionale alla loro linea: prima minimizzatrice ad oltranza, poi catastrofista e colpevolizzante verso i cittadini.

L’esito estremo e grottesco di questa bolla lo vediamo in questi giorni, con l’ennesimo tentativo da parte dell’esecutivo di prolungare lo stato di emergenza. Cosa che farebbe dell’Italia l’unico paese d’Europa, tra quelli che hanno adottato provvedimenti di tal genere, a non aver dichiarato ancora la fine dell’allarme generale, ed a volerlo protrarre ulteriormente nonostante i numeri dei positivi e l’entità dei sintomi appaiano ormai assolutamente trascurabili. Ed avvalorando ancora una volta, amaramente, l’adagio secondo cui in Italia il provvisorio tende a diventare definitivo, così come la tradizione secondo cui le “emergenze” rappresentano in genere uno strumento per portare avanti forzosamente provvedimenti e politiche che con esse ben poco hanno a che fare.

Ma se questi abusi sono possibili, e non suscitano nemmeno lo scandalo che dovrebbero, è anche perché in generale in Italia, per tutti questi mesi, è mancato un dibattito autentico, realistico, a tutto campo sulla natura del fenomeno pandemico, sulle sue origini e caratteristiche, sulle strategie più efficaci per contrastarlo. E questo non solo per responsabilità del governo o della maggioranza, ma anche dell’opposizione, del mondo della cultura e della scienza (con poche eccezioni).

Sarebbe stata essenziale, e ancora lo è, una discussione onesta, senza preconcetti, fondata sull’analisi concreta dei molti dati disponibili, a maggior ragione oggi che il fenomeno ha tracciato ormai una lunga parabola. Soprattutto, è mancata sempre e manca ancora (ecco, ancora, la “bolla”) una puntuale analisi comparativa, non schermata da propaganda e pregiudizi tra il caso italiano e quello di altri paesi, europei ed extraeuropei: dinamiche del contagio, statistiche, strategie adottate, risultati.

A tale proposito, il sistema dei media acriticamente schierato nella sua quasi totalità a sostegno del rigido lockdown adottato in Italia e in alcuni altri paesi europei, ha eretto un vero e proprio muro che ha impedito praticamente qualsiasi ragionamento sulle esperienze diverse di altri paesi, nei confronti dei quali è stata lanciata una martellante campagna di delegittimazione catastrofista, dipingendo l’andamento dell’epidemia in essi come una débâcle apocalittica: la cui causa, veniva affermato esplicitamente o implicitamente, era la “sottovalutazione” colpevole della minaccia da parte dei governanti, cioè la mancata adozione di misure restrittive rigide di tipo “cinese”, o appunto italiano, che sarebbero state l’unico modello di azione efficace.

Sappiamo quali sono quei paesi e quei governi additati dalla nostra informazione al pubblico ludibrio: Stati Uniti, Brasile, Russia, India, in parte Svezia. Mentre il governo del Regno Unito, inizialmente additato tra i “negazionisti”, è poi stato “perdonato” per aver accettato in sostanza la logica del lockdown rigido quasi ai livelli di Italia, Spagna, Francia, Belgio.

Proprio per questo oggi è essenziale ragionare sui dati che provengono da quei paesi “reprobi”, confrontarli con quelli italiani e di altri Stati europei, e trarne qualche conclusione più solida sulla natura effettiva della pandemia.

Uno dei punti di osservazione più interessanti in tal senso è quello dei tassi di letalità della malattia (cioè il rapporto tra casi diagnosticati e morti) in contesti e paesi diversi.

Se andiamo a guardare le cifre ufficiali dell’Oms (che naturalmente non sono il Vangelo, ma restano le fonti più complete e aggiornate che abbiamo quotidianamente a disposizione), possiamo notare innanzitutto che, su scala mondiale, il tasso di letalità dall’inizio della diffusione del contagio ammonta al 3,96%. Un tasso sicuramente alto rispetto alla media delle infezioni virali stagionali, ma ben lontano dalle punte astronomiche raggiunte in Francia (16,72%), nel Regno Unito (15,27%), in Belgio (14,87%), in Italia (14,26%), in Olanda (11,5%), in Spagna (8,9%). Molto più lievi, quando non trascurabili, sono stati i tassi di letalità nell’area mitteleuropea, orientale e scandinava del continente.

Un’analisi puntuale sulle modalità di contagio in questi paesi particolarmente colpiti del Vecchio Continente potrebbe contribuire a situare meglio il quadro qui descritto. Tutti i dati emersi in questi mesi, comunque, concordano non soltanto nell’individuare le vittime in fasce di età particolarmente avanzate e in individui colpiti da patologie croniche o acute più o meno gravi, ma nel segnalare che percentuali altissime tra i morti per Covid si sono registrati nelle case di riposo, negli ospedali e in altre istituzioni sanitarie e assitenziali di comunità.

L’altissima letalità in alcuni paesi dell’Europa occidentale rispetto alla media è stata particolarmente legata alla più alta età media della popolazione, e alla più alta concentrazione di anziani in comunità sanitarie e residenziali/assistenziali. Il Covid-19 è un morbo infettivo che nella stragrande maggioranza dei casi genera sintomi lievi o non pericolosi, ma ha un alto tasso di contagiosità e tende a generare complicazioni gravi nelle fasce ad alta anzianità e dalle ridotte difese immunitarie per altre patologie e terapie.

Già da questa constatazione emerge con chiarezza il fatto che una strategia di contrasto efficace ai pericoli della pandemia dovrebbe concentrarsi soprattutto sulla sorveglianza e protezione di quelle ben specifiche categorie a rischio, laddove sono inutili, ed anzi controproducenti, restrizioni generalizzate imposte alle società nel loro insieme. Ma proprio questa è stata invece la politica intrapresa dai paesi europei che sono stati i più colpiti. E rispetto ai cui sistemi sanitari e assistenziali, spesso decantati per la loro efficace opera di copertura universalistica pubblica, sarebbe necessaria qualche riflessione, visto che essi si sono dimostrati largamente incapaci di assicurare la sterilizzazione e sanificazione necessaria ad impedire l’accesso del virus.

Fatto sta che i paesi dal tasso più alto di letalità sono anche quelli che hanno adottato i lockdown più rigidi. In altri Stati strategie più elastiche di prevenzione hanno corrisposto a letalità più bassa. Come nella già citata Svezia (7,2%), o in Germania (4,45%).

Confrontiamo questi numeri, allora, con quelli dei paesi più colpiti in numeri assoluti, perché tra i più popolosi del mondo, come quelli extraeuropei sopra ricordati (Usa, Russia, Brasile, India). Lasciando naturalmente da parte la Cina, origine del virus, che per troppi motivi, soprattutto di trasparenza informativa e politiche autoritarie, rappresenta un caso del tutto a se stante.

Negli Stati Uniti, prima nazione al mondo per numero assoluto dei contagi e delle vittime, il tasso di letalità è del 3,42%. In Brasile, secondo in graduatoria come contagi, è del 3,59%. In India è del 2,28%. In Russia è dell’1,63%. Si tratta, come si vede, di percentuali sempre più basse della media mondiale, e lontanissime per difetto da quelli degli Stati europei a più alta incidenza. Ancora inferiore, in genere, la letalità negli altri paesi sudamericani più colpiti, che, se si presta fede alle notizie allarmistiche dei media italiani, si immaginerebbero come lazzaretti a cielo aperto: con l’eccezione del Messico (11,18%), unico paese di quell’area ad avvicinarsi alle vette di parte del Vecchio Continente.

Va sottolineato, comunque, che tra questi paesi alcuni (Stati Uniti e

Russia) sono ai vertici mondiali per numero di test effettuati, il che rende realistiche le proporzioni tra cai e vittime registrati, mentre altri (India e Messico) sono tra quelli che hanno effettuato meno test: il che significa che in questi ultimi i casi potrebbero essere molti di più di quelli denunciati. Ma se questo fosse vero anche il tasso di letalità sarebbe più basso.

In ogni caso, ciò che accomuna i governi degli Stati estremamente popolosi qui citati – spesso molto diversi come matrice politica – è il fatto di non aver attuato politiche di lockdown generalizzato, di aver invece sperimentato strategie differenziate (si tratta in genere peraltro di repubbliche federali, prive di una gestione centralizzata della sanità), e di aver sempre considerato pragmaticamente la questione sanitaria legata alla pandemia in rapporto con i problemi economici interni, preoccupandosi di evitare che misure restrittive sui movimenti della popolazione e sulle attività produttive arrecassero danni eccessivi all’economia.

Checché ne dicano il governo Conte, i virologi da esso assoldati e l’Oms (sulla cui coerenza e credibilità sono emersi dubbi enormi in questi mesi) i risultati danno inequivocabilmente ragione a quei governi: la percentuale di morti in quei paesi è molto bassa, e per converso i dati economici indicano in genere una recessione più lieve e una ripresa più accelerata. Se c’è qualcuno che dovrebbe rimettere in discussione la strategia adottata quelli siamo noi, così come i britannici, i francesi, gli spagnoli, i belgi, gli olandesi.

Va infine aggiunto che in tutti quei paesi l’età media dei soggetti ai quali è stata diagnosticata l’infezione da Covid è più bassa che nell’Europa occidentale, tende ad abbassarsi con il tempo, e con essa si abbassa anche il tasso di letalità. Un’analisi puntuale di questi trend porterebbe a considerazioni più precise in merito (e ci si chiede perché l’Oms non si dedichi a queste ricerche), ma essi sembrano comuni a tutti.

Quindi la tendenza della malattia a contagiare individui più giovani, che da noi spesso viene indicata come una minaccia ulteriore, ha con tutta probabilità anche un effetto positivo: favorisce l’aumento complessivo dell’immunizzazione nelle società, attutendo la forza del virus e proteggendo indirettamente, a quanto pare, anche le fasce più aniane della popolazione.

Da qui si possono trarre a mio avviso due conclusioni, provvisorie e discutibili come tutte, ma che mi paiono piuttosto solide, e che almeno andrebbero, appunto, discusse.

  1. I lockdown indiscriminati, dove sono stati attuati, hanno conseguito risultati disastrosi; e in generale la stessa idea delle restrizioni ai movimenti, del distanziamento sociale e della chiusura di attività

economiche in quanto tale si è dimostrata totalmente inadeguata alla natura del virus, la cui pericolosità va considerata soprattutto in relazione alla sua incidenza geriatrica, ospedaliera e di comunità.

In particolare, come alcuni studiosi hanno già affermato, quelle restrizioni hanno aumentato il tasso di contagi di anziani in famiglie, cliniche, Rsa. Se si vuole fronteggiare, dunque, un possibile ritorno del virus, senza inutili allarmismi e paralisi, va studiata innanzitutto una azione mirata di protezione degli ambienti dove vivono anziani, pazienti ospedalizzati, ammalati. Per il resto della popolazione – scuole, luoghi di lavoro e luoghi di socializzazione inclusi – dovrebbe essere sufficiente la raccomandazione di norme igieniche di profilassi, senza inutili e autoritari interventi coercitivi, per giunta rovinosi per le economie.

  1. La circolazione più ampia del virus in una società non lo rende necessariamente più letale, ma anzi in gran parte dei casi sembra diminuirne la pericolosità. In base a questi dati, andrebbe attentamente riconsiderata l’opinione espressa all’inizio della pandemia da alcuni scienziati – e allora largamente demonizzata – secondo i quali la politica migliore era quella di proteggere rigorosamente le categorie più a rischio (con il vaccino quando sarà disponibile, ma anche con misure profilattiche più rigorose), lasciando sostanzialmente circolare il virus tra le fasce più giovani e immunitariamente forti, in modo da cercare di raggiungere la famosa “immunità di gregge” come nel caso delle epidemie stagionali. Considerato anche che, se si escludono le categorie suddette, il tasso di letalità della malattia sarebbe solo di poco superiore a queste ultime, e col tempo tenderebbe rapidamente ad abbassarsi ulteriormente.

Che in Italia oggi non si discuta seriamente di questi approcci alternativi, e che anzi una vera e propria cappa di delegittimazione venga imposta dal sistema mediatico e politico a chi ponga dubbi sulla vie “cinese” seguita nel paese, è un segno davvero inquietante della degradazione del nostro dibattito civile. Soprattutto mentre il governo continua a pretendere poteri speciali completamente inutili, continua a proporre, senza coltivare ragionevoli dubbi, misure cervellotiche come la ripresa delle scuole sotto protocolli di isolamento degni di Chernobil, e pensa seriamente a tenere ancora per mesi l’80% degli impiegati a casa con l’equivoca disciplina dello smart working, abbassando drasticamente lo standard dei servizi pubblici. E, ancor più, mentre governatori regionali e sindaci aggiungono alla propaganda allarmistica governativa misure repressive sul commercio e sul settore turistico/alberghiero/ristorazione/intratenimento che avranno conseguenze letali su un’economia nazionale già provata e sull’occupazione.

Fonte: l’Occidentale

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