Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, inseparabili cooperatori dello splendore della Verità

di Benedetto delle Site.

Nonostante i tentativi di “silenziare” la sua voce, Joseph Ratzinger – Benedetto XVI è tornato ad esprimersi pubblicamente. L’ultima occasione è stata a ridosso del centenario di Papa San Giovanni Paolo II, che ricorre oggi 18 maggio.

Cento anni fa, a Wadowice, a 48 km da Cracovia, nasceva infatti Karol Wojtyła, l’uomo che avrebbe guidato per un quarto di secolo, dal 1978 al 2005, la “barca di Pietro”, passando attraverso il post-Concilio, il totalitarismo comunista e l’11 settembre. Un lungo pontificato contraddistinto da un rinnovato slancio del cattolicesimo e della leadership internazionale della Chiesa, in cui forte è stata l’influenza reciproca tra Wojtyła e J. Ratzinger, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede che ne sarebbe stato il successore (e per certi versi continuatore) alla cattedra di Pietro.

Un anniversario importante in vista del quale Joseph Ratzinger non poteva tacere: così in una lettera indirizzata alla Diocesi di Cracovia il Papa Emerito ha ricordato il Santo pontefice polacco con queste parole: “in un momento in cui la Chiesa soffre di nuovo per l’assalto del male, egli è per noi un segno di speranza e di conforto”.

Ratzinger, come molte volte in passato, è tornato a sottolineare il contesto drammatico vissuto dalla Polonia di Wojtyła, una “situazione di oppressione, ma soprattutto di speranza”, in cui “crebbe il giovane Karol Wojtyla, che purtroppo perse molto presto la madre, il fratello e infine il padre, al quale doveva la sua profonda e fervente devozione. L’attrazione particolare del giovane Karol verso la letteratura ed il teatro, lo portarono dopo la laurea allo studio”.

Egli “imparò la teologia non solo dai libri, ma anche traendo utili insegnamenti dal contesto specifico in cui lui ed il suo Paese si trovavano”. Questo sarebbe stato “un tratto peculiare che avrebbe contraddistinto tutta la sua vita ed attività. Impara dai libri, ma vive anche di questioni attuali che lo tormentano.”

Fu così, prosegue Ratzinger, che “per lui da giovane vescovo – dal 1958 vescovo ausiliare e dal 1964 arcivescovo di Cracovia – il Concilio Vaticano II fu la scuola di tutta la sua vita e del suo lavoro (…) le risposte elaborate al Concilio mostrarono l’indirizzo che avrebbe dato al suo lavoro prima da vescovo e poi da Papa”.

Nella lettera Ratzinger ricorda lo stato confusionario in cui si trovava la Chiesa all’epoca, tormentata dalle incertezze del Post-Concilio. “Quando il 16 ottobre 1978 il cardinale Wojtyla fu eletto Successore di Pietro – ricorda Benedetto XVI – , la Chiesa si trovava in una situazione drammatica”.

Il Papa Emerito non manca di ricostruire tale situazione. “Le deliberazioni del Concilio furono presentate in pubblico come una disputa sulla fede stessa, che sembrava così priva del suo carattere di certezza infallibile e inviolabile (…) un parroco bavarese descrisse questa situazione con le seguenti parole: «Alla fine siamo caduti in una fede sbagliata». Questa sensazione che nulla fosse certo più, che tutto potesse essere messo in discussione, fu ulteriormente alimentata dal modo in cui fu condotta la riforma liturgica”. “Alla fine – incalza l’autore del Motu Proprio Summorum Pontificum –  sembrava che anche nella liturgia tutto si potesse creare da solo”.

Tale ripiegamento della Chiesa su se stessa, tale acquiescenza verso lo spirito del mondo, fu ribaltata proprio da San Giovanni Paolo II, il ‘liberatore della Chiesa’: “dinnanzi al nuovo Papa si presentò di fatto un compito assai arduo da affrontare con le sole capacità umane. Dapprincipio, però, si rivelò in Giovanni Paolo II la capacità di suscitare una rinnovata ammirazione per Cristo e per la sua Chiesa. In principio furono le parole pronunciate per l’inizio del suo pontificato, il suo grido: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!»  Questo tono caratterizzò tutto il suo pontificato rendendolo un rinnovatore e liberatore della Chiesa”.

Un pontificato lungo ma soprattutto straordinario. “Nei 104 grandi viaggi pastorali che condussero il Pontefice in tutto il mondo, predicò il Vangelo come una notizia gioiosa, spiegando così anche il dovere di ricevere il bene e il Cristo”.

Un Papa per certi versi scomodo. “In 14 encicliche presentò in modo nuovo la fede della Chiesa e il suo insegnamento umano. Inevitabilmente, quindi, suscitò opposizione nelle Chiese d’Occidente piene di dubbi.”

Nella lettera, Ratzinger ricorda ancora la centralità del tema della Misericordia divina nel magistero di San Giovanni Paolo II, legato anche alla figura di una grande Santa polacca, Suor Maria Faustina Kowalska. “Fin dall’inizio, Giovanni Paolo II rimase molto colpito dal messaggio della suora di Cracovia Faustina Kowalska, che aveva presentato la misericordia di Dio come il centro essenziale di tutta la fede cristiana e aveva voluto istituire la festa della Divina Misericordia”.

In Papa Giovanni Paolo II la Misericordia è al cuore del messaggio di Gesù Cristo. “Alla vigilia della sua morte, il Papa presentò ancora una volta brevemente il messaggio della misericordia divina. In esso egli fece notare che suor Faustina morì prima degli orrori della seconda guerra mondiale, ma aveva già diffuso la risposta del Signore a questi orrori. «Il male non riporta la vittoria definitiva! Il mistero pasquale conferma che il bene, in definitiva, è vittorioso; che la vita sconfigge la morte e sull’odio trionfa l’amore» (…) Anche se questo centro dell’esistenza cristiana ci è dato solo nella fede, esso ha anche un significato filosofico, perché – dato che la misericordia divina non è un dato di fatto – dobbiamo anche fare i conti con un mondo in cui il contrappeso finale tra il bene e il male non è riconoscibile. In definitiva, al di là di questo significato storico oggettivo, tutti devono sapere che la misericordia di Dio alla fine si rivelerà più forte della nostra debolezza”.

Se è così, allora il tema della Misericordia, tornato centrale nella predicazione dell’attuale pontificato, non rappresenta né una novità né tantomeno una rottura. Scrive Ratzinger “dobbiamo trovare l’unità interiore del messaggio di Giovanni Paolo II e le intenzioni fondamentali di Papa Francesco: contrariamente a quanto talvolta si dice, Giovanni Paolo II non è un rigorista della morale”. Infatti “dimostrando l’importanza essenziale della misericordia divina, egli ci dà l’opportunità di accettare le esigenze morali poste all’uomo, benché non potremo mai soddisfarle pienamente. I nostri sforzi morali vengono intrapresi sotto la luce della misericordia di Dio, che si rivela essere una forza che guarisce la nostra debolezza.”

Da qui la differenza fondamentale tra la morale cristiana, consapevole della debolezza della condizione umana segnata dalla Caduta, e il perfettismo dei moralisti, da cui Ratzinger e Giovanni Paolo II si discostano nettamente.

A conclusione della lettera, Ratzinger si sofferma sulla santità e sull’appellativo “magno” nella storia della Chiesa, riconducendo a entrambe le categorie la figura di San Giovanni Paolo II. “La parola «santo» indica la sfera divina, e la parola «magno» indica la dimensione umana.”

La santità, chiarisce il Papa Emerito, non ha nulla a che vedere con la “competizione morale”, si tratta invece della capacità di “rinunciare alla propria grandezza (…) un uomo che permette a Dio di agire dentro di sé e quindi di rendere visibile attraverso di sé l’azione e la potenza di Dio”.

“Più difficile – continua Ratzinger – definire correttamente il termine «magno». Durante i quasi duemila anni di storia del papato, l’appellativo «Magno» è stato adottato solo con riferimento a due papi: a Leone I (440-461) e a Gregorio I (590-604). La parola «magno» ha un’impronta politica presso entrambi, ma nel senso che, attraverso i successi politici, si rivela qualcosa del mistero di Dio stesso”.

“Leone Magno – ricorda il Papa Emerito –  in una conversazione con il capo degli unni Attila, lo convinse a risparmiare Roma, la città degli apostoli Pietro e Paolo. Senza armi, senza potere militare o politico, riuscì a persuadere il terribile tiranno a risparmiare Roma grazie alla propria convinzione della fede. Nella lotta dello spirito contro il potere, lo spirito si dimostrò più forte.”

Gregorio I “non ottenne un successo altrettanto spettacolare, ma riuscì comunque a salvare più volte Roma dai Longobardi – anche lui, contrapponendo lo spirito al potere, riportò la vittoria dello spirito”.

“Quando confrontiamo la storia di entrambi con quella di Giovanni Paolo II, la somiglianza è innegabile”, insiste Ratzinger: “anche Giovanni Paolo II non aveva né forza militare né potere politico. Nel febbraio 1945, quando si parlava della futura forma dell’Europa e della Germania, qualcuno fece notare che bisognava tener conto anche dell’opinione del Papa. Stalin chiese allora: «Quante divisioni ha il Papa?» Naturalmente non ne aveva”. Tuttavia “il potere della fede si rivelò una forza che, alla fine del 1989, sconvolse il sistema di potere sovietico e permise un nuovo inizio. Non c’è dubbio che la fede del Papa sia stata un elemento importante per infrangere questo potere.”

San Giovanni Paolo II contribuì in modo determinante al crollo del comunismo, la grande bestia collettiva che aveva espanso le sue membra sull’intero globo, attraverso il “potere dei senza potere” come lo chiamava Václav Havel, fondamentalmente la forza della Verità che vince il potere della menzogna, nonostante i sistemi possenti di controllo e repressione che essa riesce a mettere in campo.

Vale la pena allora, nel centenario della sua nascita, leggere più a fondo il significato del pontificato di Wojtyła, proprio attraverso Joseph Ratzinger. Fra i due pensatori l’incontro è stato qualcosa di provvidenziale che ha segnato nel profondo il volto della Chiesa cattolica del terzo millennio.

Ratzinger (cfr. Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Ed. San Paolo 2007) ricorda come Wojtyła sia stato, al pari del teologo bavarese, un profondo uomo di pensiero e non soltanto l’uomo di “azione” che i più sono soliti ricordare.

Dopo l’immersione nello studio della metafisica, per il giovane Karol “arrivò l’incontro con Max Scheler e, quindi, con la fenomenologia. Questo indirizzo filosofico aveva la preoccupazione, dopo controversie  infinite circa i confini e le possibilità del conoscere umano, di vedere di nuovo semplicemente i fenomeni così come appaiono, nella loro varietà e nella loro ricchezza.”

Così Karol Wojtyła recuperò la frattura del mondo moderno, attraverso una nuova “precisione del vedere, questa intelligenza dell’uomo non a partire da astrazioni e da principi teorici, ma cercando di cogliere nell’amore la sua realtà, è stata ed è rimasta decisiva per il pensiero del Papa”. Egli “scoprì assai presto, prima ancora della vocazione al sacerdozio, l’opera di San Giovanni della Croce, attraverso la quale gli si aprì il mondo dell’interiorità, «dell’anima maturata nella grazia»”.

Un pensatore integrale, non scisso e frammentato come gli autori moderni. Ratzinger parlando da cardinale dell’allora Papa non nasconde di apprezzarne questa figura. “L’elemento metafisico, quello mistico, quello fenomenologico e quello estetico, collegandosi insieme, spalancano lo sguardo verso le molteplici dimensioni della realtà e diventano alla fine un’unica percezione sintetica, capace di paragonarsi con tutti i fenomeni e di imparare a comprenderli, proprio trascendendoli.”

Per questo con il Papa polacco, la Chiesa dopo il Post-Concilio, risale la china: “la crisi della teologia postconciliare è in larga misura la crisi dei suoi fondamenti filosofici” sottolinea Ratzinger.

“La filosofia presentata nelle scuole teologiche mancava di ricchezza percettiva, le mancava la fenomenologia, e le mancava la dimensione mistica (…) quando i fondamenti filosofici non vengono chiariti, alla teologia viene a mancare il terreno sotto ai piedi. Perché allora non è più chiaro fino a che punto l’uomo conosce davvero la realtà, e quali sono le basi a partire da cui egli possa pensare e parlare”.

“Così – sottolinea Ratzinger, allora cardinale e Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede – pare sia una disposizione della Provvidenza il fatto che, in questo tempo, è salito alla cattedra di Pietro un «filosofo» che fa filosofia non come una scienza da manuale, ma partendo dal travaglio necessario per reggere di fronte alla realtà e dall’incontro con l’uomo che cerca e che domanda”.

L’uomo moderno scisso, separato, frammentato, trova finalmente un modello di umanità integrale.

“Il tema della filosofia di Karol Wojtyła – aggiunge il cardinal Ratzinger – è stato ed è l’uomo. «La via della Chiesa è l’uomo». Questa tematica, concretissima e radicalissima nella sua profondità, si è trovata sempre e ancora si trova al centro del suo pensiero che è insieme azione. Il risultato è che la questione della teologia morale è divenuta il centro del suo interesse teologico.”

Con Wojtyła anche la teologia morale riprende vigore dopo anni di assopimento. “Anche questa era un’importante predisposizione umana in ordine al compito del massimo pastore della Chiesa”. Giacché “la crisi dell’orientamento filosofico si manifesta dal punto di vista teologico soprattutto come crisi della norma teologico-morale”. Qui “si trova il collegamento tra filosofia e teologia, il ponte fra la ricerca razionale sull’uomo e il compito teologico”.

“Dove crolla l’antica metafisica – chiosa Ratzinger – , anche i comandamenti perdono il loro nesso interiore: allora grande diventa la tentazione di ridurli al piano unicamente storico-culturale.”

Questa visione incarnata dal Santo polacco consente alla Chiesa non solo di riprendere lo slancio che essa aveva perduto dopo il Concilio, ma di tornare senza timore sulle grandi questioni umane, anche attraverso una nuova e vigorosa “teologia del corpo”, che sfida il riduttivismo proprio del pensiero dominante, che Augusto Del Noce ha definito “radicalismo di massa”.

“Wojtyla aveva imparato da Scheler a indagare con una sensibilità umana finora ignota l’essenza della verginità, del matrimonio, della maternità e della paternità, linguaggio del corpo e di conseguenza l’essenza dell’amore”. Egli, nota Ratzinger, “ha assunto nel suo pensiero le nuove scoperte del personalismo”, ma “proprio così ha anche imparato nuovamente a capire che il corpo stesso parla, che la creazione parla e ci indica le vie da percorrere: il pensiero dell’età moderna ha dischiuso per la teologia morale una dimensione nuova e Wojtyla l’ha percepita in una continua implicazione di riflessione e d’esperienza, di vocazione pastorale e speculativa e l’ha compresa nella sua unità con i grandi temi della tradizione.”

Riacquista spessore l’umanesimo cristiano, mentre quello ateo manifesta sempre più la sua conclusione antiumana.

“«La via della Chiesa è l’uomo». Il significato autentico di questa affermazione, spesso malintesa, dell’enciclica sul «Redentore dell’uomo» si può veramente capire – afferma il Cardinal Ratzinger –  se si ricorda che per il Papa «l’uomo» in senso pieno è Gesù Cristo”.

“La sua passione per l’uomo non ha nulla a che fare con un antropocentrismo autosufficiente” perché in Papa Giovanni Paolo II “l’antropocentrismo è aperto verso l’alto”.

Lo spartiacque tra l’umanesimo cristiano e le nuove forme di pseudo-umanesimo è qui. “Ogni antropocentrismo mirante a cancellare Dio, come concorrente dell’uomo, si è già da tempo capovolto in noia dell’uomo e per l’uomo, l’uomo non può più considerarsi centro del mondo e ha paura di sé stesso a motivo della sua propria potenza distruttiva”. 

Quando l’uomo “viene collocato al centro escludendovi Dio l’equilibrio complessivo viene sconvolto: vale allora la parola della Lettera ai Romani in cui si dice che il mondo viene trascinato nel dolore e nel gemito dell’uomo; guastato in Adamo, è da allora in attesa dell’arrivo dei figli di Dio della loro Liberazione. Proprio perché al Papa sta a cuore l’uomo egli vorrebbe aprire le porte a Cristo” giacché “unicamente con la venuta di Cristo i figli di Adamo possono diventare figli di Dio, e l’uomo e la creazione entrare nella loro libertà”. L’antropocentrismo del Papa secondo il Cardinal Ratzinger “è quindi nel suo nucleo più profondo teocentrismo”.

Tanto in Joseph Ratzinger quanto in Karol Wojtyła il problema di Dio è strettamente connesso al dilemma sull’uomo, alla questione antropologica.

Quando era arcivescovo di Cracovia, ricorda Ratzinger, Wojtyła “raccontava come gli intellettuali cattolici polacchi, nei primi anni del dopoguerra, avessero cercato in un primo tempo di confutare, contro il materialismo marxista ormai divenuto dottrina ufficiale, l’assolutezza della materia”. Ma ben presto “il centro del dibattito si spostò: non erano più in questione le basi filosofiche delle scienze naturali ma l’antropologia. La questione era diventata: chi è l’uomo”. La questione antropologica allora “non è affatto una teoria filosofica sull’uomo ma ha un carattere esistenziale. Dietro di essa c’è la questione della Redenzione”.

È poi da notare come molti dei temi cari al pontificato di Benedetto XVI siano stati temi centrali delle encicliche di Giovanni Paolo II.

Così ne parla Ratzinger stesso: “la grande enciclica sui fondamenti della teologia morale, Veritatis splendor, che possiamo tranquillamente considerare un testo epocale, una pietra miliare nella attualizzazione del messaggio morale del Cristianesimo, che parla alla coscienza degli uomini ben al di là della cerchia dei credenti” e ancora “la Evangelium vitae, che è insieme un inno alla vita nel contesto della non civiltà di morte, in cui una brama di vita divenuta malsana chiede sostegno alla morte, pensando come opere di bene l’azione omicida nell’aborto e nell’eutanasia.”

Già allora questi testi, accolti con sfavore da molta parte della “neo-teologia cattolica”, interrogarono molti intellettuali laici. “In qualche caso – ammette Ratrzinger – questi testi hanno avuto un’accoglienza migliore presso dei pensatori che si collocano fuori dalla Chiesa rispetto a quella loro riservata da alcuni rappresentanti della teologia cattolica”. Ciò “vale soprattutto per l’enciclica sulle questioni fondamentali della teologia morale. Forse molti pensatori non cristiani sentono sulla loro stessa pelle la gravità e l’urgenza della crisi morale dell’umanità molto più di taluni teologi cattolici”.

Anche molti non credenti “sentono che la distruzione della coscienza morale costituisce una minaccia per l’umanità più grave dell’energia nucleare e delle malattie”, o meglio “la bomba atomica come anche l’ingiustizia nel mondo che produce in misura crescente fame e miseria, ci minacciano solo perché le carenze morali ci hanno condotto a questo abuso delle possibilità e potenzialità umane”.

Per questo secondo l’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede “nella sua enciclica il Papa ha sviluppato una visione della morale” che è “sufficientemente grande e vasta da far propria la sapienza morale delle grandi tradizioni religiose e della ragione umana”. Essa fa dell’“appello alla ragione, alla sua capacità a cogliere dalla creazione l’insegnamento del Creatore”, “un aspetto fondamentale di questo testo”.

D’altra parte però sempre in Veritatis splendor, secondo Ratzinger, Giovanni Paolo II mette in luce “quella nuova certezza e quella nuova concretezza della dimensione morale che è entrata nel mondo mediante Cristo e che diventa una forza per tutta l’umanità quando i credenti la vivono in maniera tale che essa acquisti evidenza anche per gli altri.”

Così la testimonianza di Cristo è speranza per il mondo. “Oggi anche gli spiriti critici sentono con sempre maggiore chiarezza che la crisi del nostro tempo consiste nella «crisi di Dio», nella scomparsa di Dio dall’orizzonte della storia umana. La risposta della Chiesa allora può essere solo parlare sempre meno di sé stessa e sempre più di Dio, testimoniarlo, essere la porta per lui. Questo è il vero contenuto del pontificato di Giovanni Paolo II che, col passare degli anni, si fa sempre più evidente”. Un aspetto che sarà caro allo stesso Papa Ratzinger, che parlerà di minoranze creative e non disdegnerà mai di coltivare il dialogo con i non credenti (da Marcello Pera ad Oriana Fallaci).

In Veritatis splendor emerge il legame indistruttibile tra il predecessore e il successore: San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono stati entrambi instancabili “cooperatori della Verità”, quella Verità il cui splendore abbaglia i malvagi, sconfigge i totalitarismi e offre fondamenta solide alla libertà. L’incontro del loro pensiero e della loro opera ha segnato profondamente la Chiesa cattolica.

“Veritatis spendor” secondo Joseph Ratzinger non aveva di mira “solo la crisi interna alla Chiesa della teologia morale” ma “appartiene al dibattito di dimensioni mondiali sull’ethos che oggi è diventato una questione di vita o di morte per l’umanità”.

Contro una teologia morale “che nel XIX secolo si era ridotta in modo sempre più preoccupante a casistica, già nei decenni precedenti il Concilio si era messo in moto un decisivo movimento di opposizione. La dottrina morale cristiana doveva essere considerata nella sua grande prospettiva positiva (…) non considerata come un elenco di divieti. (…) La volontà di lasciarsi ispirare dalla fede (…) ha determinato un allontanamento dalla versione giusnaturalistica della morale a favore di una costruzione di taglio biblico e storico salvifico. Il Concilio Vaticano II aveva confermato e ribadito questi approcci ma il tentativo di costruire una morale puramente biblica risulta impraticabile di fronte alle concrete domande dell’epoca.”

L’errore di larga parte della teologia postconciliare appare evidente. “Il puro biblicismo nella teologia morale non è una via possibile (…) dopo una breve fase in cui si tentò di dare alla teologia morale un’ispirazione biblica seguì il tentativo di una spiegazione puramente razionale dell’ethos”. Ma “il ritorno al pensiero giusnaturalistico è risultato sbarrato. La corrente antimetafisica (…) faceva sembrare il diritto naturale un modello antiquato e non più attualizzabile”.

Così “si restò alla mercé di una razionalità positivistica che non riconosceva più il bene come tale (…) Restava come criterio il calcolo delle conseguenze (…) Morale è ciò che sembra più positivo considerate le conseguenze prevedibili. Alla fine (…) si dismette ciò che è morale poiché il bene come tale non esiste. (…) Per un simile tipo di razionalità neanche la Bibbia ha più niente da dire. Essa può fornire motivazioni ma non contenuti. Ma se le cose stanno così il cristianesimo come via è spacciato.”

Giovanni Paolo II, secondo Ratzinger “con grande decisione ha ridato al contrario legittimità la prospettiva metafisica” che è “solo una conseguenza della fede nella creazione”. Ancora una volta “partendo dalla fede nella creazione gli riesce di legare e fondere antropocentrismo e teocentrismo. «La ragione trae la sua verità e la sua autorità dalla legge eterna, che non è altro che la stessa Sapienza Divina (…) la legge naturale infatti altro non è che la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio». Proprio perché il Papa sta dalla parte della metafisica in forza della fede nella creazione, può capire anche la Bibbia come Parola presente, legare la costruzione metafisica e biblica dell’ethos.”

“Una perla dell’enciclica”, per Ratzinger “significativa sia filosoficamente che teologicamente”, è “il grande passaggio sul martirio. Se non c’è più nulla per cui valga la pena morire, allora anche la vita diventa vuota, solo se c’è il bene assoluto per il quale vale la pena morire e il male eterno che non diventa mai bene, l’uomo è confermato nella sua dignità e noi siamo protetti dalla dittatura delle ideologie.”

Letteralmente le basi della libertà.

L’ultimo tassello comune ai due pontificati che vale la pena ricordare – ed ereditare –  è sicuramente quello di Fides et Ratio, l’enciclica di Papa Giovanni Paolo II su fede e ragione, su cui Ratzinger tornerà ripetutamente nel suo pontificato caratterizzato dalla lotta ingaggiata apertamente contro la “dittatura del relativismo”. Commentando l’enciclica, il Cardinal Ratzinger afferma “ancora una volta si vede che la fede difende l’uomo nel suo essere uomo. Joseph Pieper ha espresso una volta il pensiero che «nell’epoca finale della storia, sotto la signoria della sofistica e di una corrotta pseudofilosofia, la vera filosofia si potrà raggiungere nella primordiale unità con la teologia» e che così, alla fine della storia «la radice di ogni cosa e il significato ultimo dell’esistenza – che vuol dire: l’oggetto specifico del filosofare – saranno guardati e considerati solo da quelli che credono».

Fonte: l’Occidentale

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