In guerra i governi si cambiano

Questa emergenza si combatte su tre fronti. Due assai più visibili: quello sanitario e quello economico. L’altro più mimetizzato: quello istituzionale. Chi conosce la storia, però, sa che quest’ultimo non va né sottovalutato né perso di vista. Alla fine ti presenta il conto e se non lo si presidia a dovere è su quella trincea che si determinano le perdite più gravi in termini di democrazia e soprattutto di legalità.

L’Italia su quel fronte parte con un handicap. A differenza di altre democrazie non ha una legislazione e neppure una consuetudine che regolano l’emergenza. Aggiungiamo che le soluzioni escogitate in queste settimane di crisi, dal punto di vista del diritto pubblico, fanno acqua da tutte le parti.

Proprio tali circostanze avrebbero fortemente consigliato di andare verso un governo di salute pubblica: un esecutivo nel quale siano rappresentati tutti i partiti, in grado per questo di unire tutte le forze al fine di fronteggiare una catastrofe sanitaria, rispondere al meglio a una emergenza civile, gestire le macerie di un vero e proprio dopoguerra. In grado, insomma, di sviluppare una solidarietà non pelosa e soprattutto di legittimare prassi e schemi istituzionali inediti e figli di necessarie forzature.

In realtà, almeno fin qui, nessuno è voluto andare in questa direzione. Non ci pensano neppure le forze dell’attuale maggioranza, riluttanti persino – se il presidente Mattarella non le sollecitasse in tal senso – a mettere in campo camere di compensazione per rendere l’opposizione almeno un po’ corresponsabile. Del tutto emblematico, a tal riguardo, l’intervento parlamentare del capogruppo del partito di maggioranza relativa al Senato che, quasi si stesse discutendo di una legge sui gerani ai balconi e non di una emergenza della comunità nazionale, ha pensato bene di definire nell’Aula di Palazzo Madama il capo dell’opposizione “un monumento all’incoerenza”.

A dire tutta la verità, però, anche l’opposizione sembra ben contenta di non essere coinvolta. Il non detto è che, anche se adesso Conte e Casalino godono del favore di telecamere e dei conseguenti applausi del pubblico, appena le difficoltà si sedimenteranno e gli inciampi economici diverranno montagne insuperabili, il successo si rivelerà effimero; si tramuterà in un boomerang, per dirla con un’espressione cara alla Lucia Annunziata riveduta e scorretta da Sabina Guzzanti, che taglierà la testa a loro e ai loro soci, spalancando le porte del governo alle attuali forze dell’opposizione. I più eruditi aggiungono: se persino Churchill dopo aver vinto la guerra è stato licenziato dagli elettori, volete che lo stesso non accada a chi, come Giuseppe Conte, non ha pudore di compararsi col grande Winston e di evocare l’ora più buia?

Il passo indietro dall’assunzione di responsabilità viene così addirittura teorizzato e insignito di tutti crismi della nobiltà. Silvio Berlusconi ha messo in forma poetica ciò che Salvini e Meloni hanno espresso in prosa: “(…) Siamo in guerra e in guerra ci si stringe intorno a chi ha più responsabilità”. Non funziona proprio così nelle democrazie mature. Quanto meno, quella espressa da Berlusconi è solo una parte della verità storica. L’altra è che quando si è in guerra i governi spesso cambiano e vengono sostituiti da gabinetti di guerra, “unioni sacre”, governi di salvezza nazionale. E di esempi in tal senso se ne possono fare tanti.

In Gran Bretagna, regno del bipartitismo, nel corso della Prima Guerra Mondiale dal maggio 1915 al dicembre 1916 a presiedere il governo fu Herbert Asquith alla testa di un governo di unità nazionale del quale facevano parte liberali, conservatori e laburisti; gli successe Lloyd George ma la maggioranza di unità nazionale non cambiò e si mantenne per l’essenziale identica anche nell’immediato dopo-guerra.

La “regola” non varia al momento del secondo conflitto mondiale. Tutti sanno che Chamberlain e Churchill avevano idee opposte sulla necessità che la Gran Bretagna sostenesse lo sforzo bellico. In pochi aggiungono, però, che Neville Chamberlain governò dal settembre 1939 al maggio 1940 alla testa di una coalizione che comprendeva conservatori, liberali e laburisti nazionali mentre nel Governo di Churchill, che gli succedette, la maggioranza addirittura si allargò e vi trovarono posto anche quella parte di laburisti esclusi dal precedente esecutivo.

La situazione resta la medesima se si attraversa la Manica e si considera l’altra grande democrazia europea. In Francia l’Union Sacrée è stata la formula governativa che segnò la Grande Guerra e apparentò i tre governi che si succedettero presieduti da Viviani, Briand e Clemenceau. Se poi si fa un balzo avanti, fino a giungere al governo che gestì gli esordi del secondo conflitto bellico prima della resa, si scoprirà che l’allora Colonnello De Gaulle, di idee di destra conservatrice, accettò di entrare come sottosegretario nel governo di Paul Reynaud, radicale e anticlericale, proprio in nome della Patria in pericolo.

Verrebbe da dire: che strano Paese è l’Italia! Tutti “responsabili” quando la condivisione del potere è superflua; pronti a delegare ad altri quando la prova si fa veramente difficile, sperando di poter lucrare su errori e difficoltà. E’ così che, infine, si producono le Caporetto delle classi dirigenti e si corre il rischio di farsi seppellire, se non da una risata che in questo periodo latita, quanto meno da un dpcm.

fonte: l’Occidentale

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