Vaticano allo sbando. Per due volte il papa dà un ordine e poi lo ritratta

di Sandro Magister.

Lo tsunami del coronavirus ha sconvolto la vita vaticana e l’agenda del papa. Ma ha anche svelato seri sbandamenti nella catena di comando e nella comunicazione, con decisioni prima annunciate e poi ritirate il giorno seguente.

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Un primo grave incidente ha avuto a che fare con la riforma della curia, che è in corso per volere di papa Francesco da ben sette anni.

Venerdì 6 marzo – mentre la curia era semivuota, con tutti i suoi dirigenti in ritiro spirituale sui Castelli Romani e Francesco in semiritiro a Santa Marta per via di una “lieve indisposizione” – nel bollettino quotidiano che fa da “Gazzetta ufficiale” dei provvedimenti del papa è stata data notizia dell’istituzione di un nuovo importante ufficio:

“Accogliendo la proposta del Consiglio dei Cardinali e del Consiglio per l’Economia, Sua Santità Francesco ha disposto l’istituzione della ‘Direzione Generale del Personale’ presso la Sezione per gli Affari Generali della Segreteria di Stato”.

Il comunicato proseguiva descrivendo dettagliatamente che la nuova direzione del personale avrebbe esercitato i suoi poteri non solo sui dicasteri e gli enti vaticani propriamente detti ma anche su tutti gli enti a vario titolo collegati, tra cui l’Istituto per le Opere di Religione, e così concludeva:

“Si tratta di un passo di grande rilevanza nel cammino di riforma avviato dal Santo Padre”.

Nelle ore seguenti, i media specializzati hanno rilanciato e commentato con enfasi questa notizia.

Senonché, il giorno seguente la sala stampa della Santa Sede ha ritrattato tutto, emettendo questo stupefacente comunicato:

“In riferimento all’annuncio dato ieri, circa l’istituzione della Direzione Generale del Personale, si precisa che allo stato attuale si tratta di una proposta avanzata al Santo Padre dal Cardinale Reinhard Marx, Coordinatore del Consiglio per l’Economia, e dal Cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga, S.D.B., Coordinatore del Consiglio dei Cardinali, perché istituisca tale struttura. Il Santo Padre studierà la proposta e, se lo riterrà opportuno, a tempo debito istituirà la struttura nelle modalità da lui decise con un apposito Motu Proprio”.

Tutto cancellato nell’arco di 24 ore.

Sul portale americano “Crux” il suo direttore John L. Allen, vaticanista di chiara fama, ha ironizzato non poco su questo “epic flip-flop”, spiegando quanto sia disastrata, in Vaticano, la gestione del personale – per numero eccessivo di addetti, per sovrapposizioni di ruoli e di uffici, per arbitrarietà di promozioni e spostamenti, per assenza di formazioni professionali specifiche – e quindi quanto debba essere impegnativa e temuta una sua riforma, fatta balenare dal rullo di tamburi del primo dei due comunicati.

Sta di fatto che il nuovo ufficio del personale è morto ancor prima di nascere, aggravando ancor di più la confusione.

Supposto, infatti, che la sala stampa vaticana non abbia inventato nulla, è solo dalla segreteria di Stato e in definitiva dal papa che può essere venuto l’ordine di emettere il comunicato del 6 marzo. Così come l’ordine di ritrattare, il giorno seguente.

Un giorno infausto, quel venerdì 6 marzo. Francesco aveva in programma, quello stesso giorno, una visita a sorpresa a Portacomaro, il villaggio piemontese da cui i suoi nonni e il padre emigrarono in Argentina e dove  tuttora abitano alcuni suoi parenti.

Ma all’ultimo il viaggio è stato cancellato. In questo caso, però, per un incolpevole raffreddore del papa.

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Un secondo clamoroso incidente ha avuto a che fare direttamente con la pandemia del coronavirus.

L’8 marzo, seconda domenica di Quaresima, la conferenza episcopale italiana sospende in tutto il paese le celebrazioni delle messe con presenti i fedeli, lasciando però aperte le chiese.

L’ordinanza della CEI non riguarda la Città del Vaticano. Due giorni dopo, però, martedì 10 marzo, la sala stampa della Santa Sede comunica che “dalla giornata odierna la Piazza e la Basilica di San Pietro restano chiuse alle visite guidate e ai turisti”.

Il divieto sembra ancora consentire ai semplici fedeli l’accesso alla piazza e alla basilica. Ma di fatto ciò non accade, perché ai varchi d’ingresso nella piazza la polizia italiana sbarra la strada a tutti, salvo che per comprovate necessità di lavoro.

Il 13 marzo, però, il cardinale Angelo Comastri, arciprete della basilica di San Pietro, dichiara a Vatican News, il portale on line della Santa Sede:

“Tengo a precisare che la basilica di San Pietro è stata sempre aperta in questi giorni, mai chiusa, dalle 7 del mattino fino alle 18 della sera. Chiaramente la gente ha difficoltà a venire, ma i pochi che vengono pregano”.

Si può immaginare che questi rari fedeli arrivino non dalla piazza, che è sbarrata, ma dall’interno della Città del Vaticano.

Ma perché il cardinale Comastri ha sentito così forte l’urgenza di dichiarare che la basilica di San Pietro “è stata sempre aperta in questi giorni, mai chiusa”?

Perché quello stesso venerdì 13 marzo e il precedente giovedì 12 sono stati a Roma e in Vaticano due giorni di fuoco.

A mezzogiorno del 12 marzo il cardinale vicario per la diocesi di Roma, Angelo De Donatis, aveva emesso un decreto che non solo confermava la sospensione delle messe ma ordinava la completa chiusura di tutte le chiese della diocesi di cui è vescovo il papa, e di conseguenza anche di quelle situate entro i confini vaticani, fino al 3 aprile.

Senonché la mattina dopo, venerdì 13 marzo, all’inizio della messa da lui celebrata in solitudine a Santa Marta e trasmessa in streaming – come ogni mattina in questi tempi di calamità –, papa Francesco ha praticamente sconfessato quell’ordinanza. Con queste parole testuali:

“Le misure drastiche non sempre sono buone. Per questo preghiamo: perché lo Spirito Santo dia ai pastori la capacità e il discernimento pastorale affinché provvedano misure che non lascino da solo il santo popolo fedele di Dio”.

Non solo. Nella stessa mattina si fa vivo il cardinale Konrad Krajewski, “elemosiniere” del papa e suo fidatissimo braccio operativo, che dichiara a Vatican News, dall’ingresso della chiesa di Santa Maria Immacolata di cui è rettore, nel quartiere romano dell’Esquilino: “È mio diritto assicurare ai poveri una chiesa aperta e quindi stamattina alle 8 sono venuto qui e ho spalancato il portone”. E come non bastasse ha aggiunto, interpellato da “Crux”: “È un atto di disobbedienza, sì. È un atto che deve infondere coraggio agli altri preti”.

Messo al tappeto da questa doppia micidiale bordata – con in più la dichiarazione del cardinale Comastri sulla basilica di San Pietro “mai chiusa” –, al cardinale vicario non restava che ritrattare. E infatti, attorno a mezzogiorno dello stesso venerdì 13 marzo, De Donatis ha emesso un controdecreto che riapriva, se non tutte le chiese di Roma, almeno quelle parrocchiali ed equiparate.

Naturalmente sui media, non solo italiani, è esplosa con grande fracasso la notizia che papa Francesco aveva sconfessato il suo vicario, costringendolo a riaprire le chiese di Roma.

Ma purtroppo, salvo rare eccezioni, la quasi totalità dei media aveva mancato di sottoporre a verifica ciò che andava strillando ai quattro venti.

Il cardinale vicario De Donatis, infatti, aveva accompagnato il suo controdecreto con una lettera ai fedeli della diocesi di Roma, nella quale forniva una notizia in più di importanza capitale, che obbligava a riscrivere l’intero racconto.

La notizia in più era nelle primissime righe della lettera:

“Con una decisione senza precedenti, consultato il nostro vescovo papa Francesco, abbiamo pubblicato ieri, 12 marzo, il decreto che fissa la chiusura per tre settimane delle nostre chiese”.

Quindi il cardinale vicario non aveva deciso la chiusura di testa sua, ma aveva semplicemente fatto ciò che il suo ruolo gli impone: quello di dare esecuzione alle decisioni del vescovo di Roma di nome Francesco.

Che poi Francesco volesse ritornare sui suoi passi – viste le molte reazioni di cui Krajewski è stato lo scomposto primattore – era nella logica delle cose, come infatti confermava il cardinale vicario, un poco più avanti nella stessa lettera ai fedeli:

“Un’ulteriore confronto con papa Francesco, questa mattina, ci ha spinto però a prendere in considerazione un’altra esigenza. Di qui il nuovo decreto che vi viene inviato con questa lettera”.

Ma c’è modo e modo. Francesco poteva risparmiare al suo cardinale vicario d’essere da lui trattato pubblicamente come incapace, senza discernimento, insensibile ai poveri e al “santo popolo fedele di Dio”. E invece proprio questo è accaduto.

Questo incidente, come il precedente, non ha messo a nudo solo i guasti del sistema di comunicazione vaticano – lunedì 16 marzo il prefetto del dicastero per la comunicazione Paolo Ruffini è stato ricevuto in udienza dal papa – ma ancor più quelli della catena di comando.

A partire dal suo primo anello, Francesco.

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