Quell’apostrofo bianco disperso nel vuoto

di Marcello Veneziani.

Il vuoto. La pioggia, le sirene, le colonne, il vuoto. I gabbiani, le volanti, i fari, il vuoto. L’altare nel deserto, la sagoma bianca e barcollante, l’affanno, la voce, il vuoto. È una di quelle immagini, di quei momenti, di quelle pause dell’universo che non si scorderanno. Il Papa che predica nel deserto, che invoca il pieno dell’umanità, che annuncia indulgenza piena ma tutto intorno è vuoto. Di gente, di liturgia. Ci salveremo tutti insieme, dice, siamo tutti sulla stessa barca ma non si vede nessuno. La Desolazione. La potenza di un’immagine spettrale, la potenza per sottrazione, il silenzio che dice più delle parole.

Si, il popolo segue da remoto, prega da remoto, comunque è affacciato alla finestra di sicurezza che si misura in pollici. Però il messaggio più forte è il Vuoto. Incognita, solitudine, spaesamento, silenzio.

Ma il vuoto è mistico o è assenza di spirito, il vuoto è il sacro sotto vuoto spinto, teologia negativa, metafisica zen o è la religione esausta, sfinita e l’umanità che per salvarsi la pelle sta a casa e rinuncia a un atto di fede? Il vuoto è attesa di Dio, e dunque annunciazione di grazia, o è abbandono, lontananza, perdita di Lui e della fede?

Non riesco a spiegare la benedizione del Papa e l’indulgenza plenaria direttamente a casa, che si ottiene col solo desiderio di volerla. Quando mi sono proposto di assistere anch’io alla cerimonia – umanissimo, responsabile, vigliacco da casa – mi sono detto: non sarà un Bergoglio qualsiasi, stasera all’imbrunire; sarà il Santo Padre, parlerà da Vicario di Cristo. Ogni altra cosa cadrà in secondo piano, ogni pregressa polemica o perplessità sarà sospesa, dimenticata di fronte alla potenza del rito, del sacro, della liturgia.

Ma il rito è stato scarno e inconsueto, la liturgia minima, spoglia. Uno strappo alla tradizione nel nome dello stato d’eccezione, come tutto quello che stiamo vivendo in questi giorni d’emergenza planetaria. Lo Spirito Santo affiorava nel canto mariano, nel Vangelo di Marco, poi nella litania di San Tommaso d’Aquino, impropriamente datata dai commentatori in studio a mille anni fa, sbagliando di un paio di secoli. E naturalmente nel Cristo crocifisso di San Marcello al Corso, protettore dai contagi. La desolazione in cui era immerso il papa era un potente messaggio e forse un appello: mostrava la reale condizione del nostro tempo, del nostro mondo che la cristianità riflette perfettamente. La desolazione della Chiesa rispecchia la desolazione del mondo.

Del Papa di venerdì mi ha colpito e toccato soprattutto una cosa: la sua plateale fragilità, il suo apparire solo e sperduto, malandato e vulnerabile davanti all’immane tragedia del virus che si diffonde e della fede che si ritira. Inadeguato nelle parole, nei gesti, nel corpo, nello sguardo. Umile, senza carisma. Umile, senza grazia. Però umile, evangelicamente umile.

Ha mosso a tenerezza la sua estrema precarietà, la sua manifesta inadeguatezza di fronte alle richieste del mondo – salvezze, guarigioni, miracoli – la sua incapacità di rappresentare il dramma dell’epoca e la potenza dello spirito. Il suo dire flebile, sommesso, nei contenuti ancor più che nel tono. Ho provato tenerezza per quell’apostrofo bianco nel vuoto, l’ho sentito debole, umano troppo umano, fraterno più che paterno, piccolo, schiacciato da una missione più grande di lui. Amabile nella sua cagionevole esposizione, soccorrevole ma insieme da soccorrere.

Allora ho cercato precedenti significativi in San Pietro. E mi sono ricordato di un’immagine esattamente opposta a quella che abbiamo visto venerdì scorso. Era l’aprile di quindici anni fa, c’era il mondo in Piazza San Pietro, il popolo gremiva le strade, il clero, suore e religiosi di ogni parte del mondo, i potenti della terra. Era il rito funebre per la morte di Giovanni Paolo II, dopo un lungo, magnifico pontificato. C’era il mondo, quel giorno a San Pietro. L’unico assente era lui, il Papa. Il contrario di quel che è accaduto venerdì scorso.

Ma ad un certo punto la sua presenza fu avvertita da tutti. Al centro del colonnato campeggiava la nuda solitudine di una bara di cipresso e un libro veniva mosso dal vento, volteggiava sulla nuda cassa. Spiegava le ali del Vangelo, animate dal vento. Fu potente nel silenzio e nell’assenza, quell’immagine mobile sull’eterno riposo, a riassumere la cerimonia d’addio del Pontefice. Woytila rese vivo il Vangelo durante il suo apostolato; e vivo appariva ora quel libro che batteva le ali quasi a custodire il suo estremo rifugio, la sua papa-immobile di legno sguarnito.

A vedere quel battito incessante di pagine, pensavi a chi le stava sfogliando, quasi a voler dare un ultimo sguardo riassuntivo a tutte le sue apostoliche narrazioni prima dell’Esame. Anche da morto il papa, con l’aiuto di un evangelico vento, possente come era stata la sua voce un tempo, seppe comunicare, catturare l’attenzione dei fedeli e la scena del mondo, lasciando in ombra il coro dei potenti e le cerimonie liturgiche. L’invisibile dette spettacolo di sé, in mondovisione, alla morte del papa. Quell’animazione del Vangelo nello statico paesaggio di una cerimonia funebre sussurrava ai presenti che di veramente vivo al mondo non c’è che l’invisibile, e chi vi si accosta ne avverte il fiato. Pareva davvero l’anima di un Grande nell’atto finale di spiegare le ali e salutare la terra; del resto, anima, pneuma, soffio, evocano tutti l’animazione del vento. E il respiro, che è oggi la vittima del virus. L’anima decollava, salutando i presenti.

Confronto le due immagini di Piazza San Pietro di venerdì e di allora, e non so ancora rispondere se sono due immagini contrapposte, o se l’una è solo il rovescio dell’altra. E dov’era la vita, dove la morte. Alla fine il vento ci porterà con sé.

MV, La Verità 29 marzo 2020

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