Dagli “aperitivi solidali” allo Stato di polizia, relativismo e autoritarismo al tempo del Coronavirus

di Eugenio Capozzi.

Nel giro di pochi giorni siamo passati da una filosofia ufficiale di libertarismo/globalismo totale all’esaltazione dell’”uomo forte” che impone ordine attraverso decreti del Presidente del Consiglio e conferenze stampa a reti unificate, alla perentoria esortazione a “stare a casa” come alfa e omega del civismo, alla malcelata eccitazione per il coprifuoco. Fino alla pubblica delazione dei presunti “untori”, nella persona dei cittadini che, tra lo stupore dei nuovi zeloti, si ostinavano ancora a pretendere di camminare o correre da soli, pur essendo queste attività ancora legali e assolutamente compatibili con il “distanziamento sociale”. Insomma, a sinistra è esplosa la “libido” dello Stato di eccezione, per non dire dello Stato di polizia. Che immediatamente ha proiettato su capri espiatori individuati nella popolazione “indisciplinata” la responsabilità dell’aumento dei contagi, scagionando così in un colpo le colossali inefficienze, i ritardi, le esitazioni fatali, le leggerezze, le preclusioni ideologiche da parte del governo che nelle settimane precedenti hanno trascinato il paese in una crisi drammatica con pochi precedenti nel dopoguerra

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In questo terribile mese dall’esplosione dell’epidemia di Coronavirus nel nostro paese abbiamo assistito alla stupefacente mutazione verificatasi nelle posizioni delle forze governative della sinistra “giallo-rossa”. Abbiamo potuto constatare come per un lungo, troppo lungo periodo una valutazione realistica del contagio stesso ed una risposta adeguata ad esso siano state drammaticamente impedite da ostacoli di pura natura ideologica, e più precisamente da una pregiudiziale di tipo multiculturalista e “globalista”.

Il virus veniva dalla Cina: per fermarlo si sarebbero dunque dovuti – in base al realismo e al buonsenso – chiudere immediatamente i confini a quanti provenivano da quel paese o costringere quest’ultime alla quarantena. Ma simili misure suonavano radicalmente inaccettabili alle orecchie degli esponenti politici del Pd e dei 5Stelle, così come di tutta l’opinione pubblica “progressista” del paese. Più in generale, poi, la sfida rappresentata dalla diffusione di un virus di inedita pericolosità poneva bruscamente in evidenza i limiti della retorica globalista, e l’insostituibilità, nelle situazioni di emergenza, di un rafforzamento del controllo dei confini nazionali e dell’azione diretta degli Stati nazionali per la salvaguardia della salute e della sicurezza dei propri cittadini.

Si trattava naturalmente di un tasto molto dolente, di un tema indigesto per generazioni di progressisti occidentali. Ma in Italia in particolare, nella cultura egemone a sinistra il tema della sicurezza nazionale era stato totalmente rimosso in favore dell’esaltazione di un europeismo astratto e idealizzato, così come della convinzione ingenua che il mondo globalizzato fosse ormai un mondo senza più confini effettivi, in cui la governance sovranazionale fosse in grado di affrontare qualsiasi problema e conflitto. A questo si aggiungevano poi gli strascichi ideologici e psicologici lasciati dall’ormai annoso e feroce dibattito sull’immigrazione, l’apertura sostanzialmente indiscriminata alla quale è diventato negli ultimi anni uno dei dogmi più ferrei del nostro progressismo: parlare di controllo dei confini nazionali, anche solo per fermare un contagio, veniva percepito dai nostri “liberal” e “democrats” – con al seguito i pentastellati ormai omologati al pensiero unico “no border” – come pericoloso in sé, perché il discorso si sarebbe potuto immediatamente estendere per analogia ai flussi migratori, dando ragione – orrore, orrore – a Salvini e ai sovranisti.

E’ da questa radicale preclusione ideologica che è derivata la negazione ostinata opposta per settimane decisive da tutta la classe dirigente di maggioranza al riconoscimento della gravità del problema. Così come ad essa va ricondotto il rifiuto altrettanto ostinato e prolungato di adottare le misure severe di contrasto invocate dalla parte più responsabile e autonoma della comunità scientifica, dalle opposizioni, dalle regioni più coinvolte. Da qui l’accusa di razzismo a chiunque chiedesse un’intensificazione dei controlli, la preoccupazione spropositata di non “offendere” la comunità cinese in Italia, gli slogan “abbraccia un cinese”, “mangia un involtino”, “il vero virus è il razzismo”, gli “aperitivi solidali”, il declassamento sistematico dell’epidemia a “un’influenza”. E da qui poi, anche quando la gravità del fenomeno è diventata evidente, la resistenza a considerare l’epidemia come una questione nazionale, al di là delle prime aree coinvolte, e quella a chiudere alcune attività sociali a rischio, come scuole, università, stazioni sciistiche, bar, locali notturni, ristoranti.

Se non che, a partire dalla prima decade di marzo, l’atteggiamento del governo – e della sua opinione pubblica di riferimento – si è, come sappiamo, bruscamente rovesciato. Da quando il dilagare del contagio, l’aumento delle vittime, la pressione sul sistema sanitario nazionale si sono configurati in tutta la loro evidenza, l’esecutivo Conte è passato con un repentino salto mortale dal “La situazione è sotto controllo” e dal “Niente allarmismi” alla strategia di un “lockdown” in stile “cinese” massiccio e indiscriminato sull’intero territorio nazionale; completato da misure via via più stringenti di limitazione della libertà di movimento di tutti i cittadini. Una politica di fortissimo controllo sociale tutto “a valle”, rudimentale, ma abbracciata dalla classe di governo nostrana con piglio quasi militaresco – rafforzato ulteriormente dall’esibizione di muscoli in stile quasi “sudamericano” di qualche governatore regionale di centrosinistra in cerca di facili consensi securitari (esibizione che se fosse stata fatta dall’ex ministro degli Interni avrebbe suscitato commenti di orrore e raccapriccio).

Media, intellettuali, divi dell’entertainment più o meno “organici” hanno immediatamente risposto, e si sono adeguati alla nuova linea. E così nel giro di pochi giorni siamo passati da una filosofia ufficiale di libertarismo/globalismo totale all’esaltazione dell’”uomo forte” che impone ordine attraverso decreti del Presidente del Consiglio e conferenze stampa a reti unificate, ai tricolori sui balconi (evidentemente non più tacciabili di sovranismo … ), alla perentoria esortazione a “stare a casa” come alfa e omega del civismo, alla malcelata eccitazione per il coprifuoco. Fino alla pubblica delazione dei presunti “untori”, nella persona dei cittadini che, tra lo stupore dei nuovi zeloti, si ostinavano ancora a pretendere di camminare o correre da soli, pur essendo queste attività ancora legali e assolutamente compatibili con il “distanziamento sociale”.

Insomma, a sinistra è esplosa la “libido” dello Stato di eccezione, per non dire dello Stato di polizia. Che immediatamente ha proiettato su capri espiatori individuati nella popolazione “indisciplinata” la responsabilità dell’aumento dei contagi, scagionando così in un colpo le colossali inefficienze, i ritardi, le esitazioni fatali, le leggerezze, le preclusioni ideologiche da parte del governo che nelle settimane precedenti hanno trascinato il paese in una crisi drammatica con pochi precedenti nel dopoguerra.

Questo in realtà non sorprende più di tanto chi conosce la storia di quella cultura politica, e delle sue varie componenti. Infatti, al fondo del libertarismo globalista esibito finora nella sinistra italiana (e in gran parte di quella europea) risiede un radicale relativismo, ai limiti del nichilismo, che deriva dalla matrice ideologica comunista, sfociata poi – come aveva ben previsto Augusto Del Noce – in una adesione totale all’edonismo soggettivistico delle società consumistiche. Quella radice, che impedisce di fondare l’idea di libertà personale in una concezione condivisa della natura umana, può anche ribaltarsi da un momento all’altro, specularmente, in un’altrettanto decisa apologia del potere forte, con venature autoritarie. D’altra parte anche la cultura politica del M5S viene dalla stessa radice, ed evolve il relativismo/nichilismo della sinistra italiana in un feroce moralismo giustizialista, un giacobinismo senza fondamenti filosofici alla ricerca di colpevoli da mettere alla gogna, “furbetti”, “caste” da sacrificare alla rivincita dell’invidia e del rancore sociale.

Va detto, però, che alla libido autoritaria scatenata dalla strategia del lockdown nell’opinione pubblica italiana non sono rimaste estranee nemmeno molte componenti della cultura politica di destra. Abbiamo visto infatti, in questi giorni, tanti, anche troppi esponenti di Lega e FDI, e tanti loro elettori, abbracciare con sospetto entusiasmo la strategia indiscriminata del “chiudiamo tutto” e dello “state a casa”, aderendo con toni accesi alla “caccia agli untori”, e smettendo di domandarsi e domandare quanto la strategia assoluta del “distanziamento sociale” sia stata finora efficace, se esistano della alternative ad essa (anche guardando ai casi di paesi dell’Estremo Oriente diversi dalla Cina), e fino a quando la soppressione di alcune libertà costituzionali fondamentali sia sostenibile dalla società e dall’economia italiana. Questa perdurante pulsione autoritaria anche nelle proprie file è un dato su cui la destra politica liberale e sovranista deve riflettere a fondo.

Fonte: l’Occidentale

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