Antifascismo mitologico in affanno, tra il dottorato di Liliana Segre e il discorso di Mattarella sulle foibe

di Cominius.

All’Università di Roma antagonisti e collettivi (e chi sennò?) inscenano il solito corteo con annesso canto di “Bella ciao” (e cosa sennò?) perché in occasione del conferimento del dottorato honoris causa a Liliana Segre uno dei rappresentanti degli studenti scelti dall’ateneo per presenziare alla cerimonia è esponente di una lista di centrodestra. Dopo averlo trasformato in una frazione di secondo in fascista pericoloso, gli occhiuti democratici – a cui ovviamente non importa più di tanto della volgare e formalistica rappresentatività della lista in cui lo studente è stato eletto – pretendono che le autorità accademiche lo escludano dalla cerimonia e, manco a dirlo, gli impediscano di parlare. L’ateneo (stranamente dico io) resiste: la cerimonia si svolge, i democratici manifestano e cantano fuori, lo studente fa il suo decorosissimo e ragionevole discorso di saluto dentro, e – ora arriva il bello – la senatrice chiede di dargli un bacio, con un gesto affettuoso e denso di significato, un gesto che rompe l’incantesimo dei rituali stanchi e dei cliché dell’antifascismo di comodo: il rospo fascista, baciato dall’eroina, quasi quasi diventa principe. Bel finale.

Il 10 febbraio, data stabilita con una legge del 2004, si celebra il giorno del ricordoin memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Tutto bene, quest’anno addirittura meglio, con un discorso solenne del presidente Mattarella e celebrazioni commosse e partecipate nelle sedi istituzionali, ma anche convegni e tantissime altre iniziative.

Ma… purtroppo c’è sempre almeno un ma.

A chi è molto giovane forse sfugge che gli eventi drammatici del confine orientale alla fine della seconda guerra mondiale sono stati a lungo rimossi, confinati nella memoria delle associazioni dei sopravvissuti e dei gruppi di destra che ne hanno sempre coltivato il ricordo. La fissazione della solennità civile del 10 febbraio li ha restituiti a tutta la comunità nazionale, ma nell’area politico-culturale che già all’epoca era vicinissima ai comunisti iugoslavi e che aveva adottato lo schema narrativo dei colpevoli fascisti cacciati dalle gloriose truppe della liberazione partigiana iugoslava, riservando agli esuli arrivati in Italia ostilità, boicottaggi e insulti, non tutti hanno gradito che il velo sia stato rimosso. Non è un caso che il presidente Mattarella abbia fotografato la situazione con una dichiarazione ufficiale che meriterebbe una lettura almeno in tutte le scuole: “Si trattò di una sciagura nazionale alla quale i contemporanei non attribuirono – per superficialità o per calcolo – il dovuto rilievo.  Questa penosa circostanza pesò ancor più sulle spalle dei profughi che conobbero nella loro Madrepatria, accanto a grandi solidarietà, anche comportamenti non isolati di incomprensione, indifferenza e persino di odiosa ostilità. …. Esistono ancora piccole sacche di deprecabile negazionismo militante.

Aggiungo che nelle deprecabili sacche di negazionismo militante vanno inseriti pure i trucidi imbrattatori di monumenti e quelli che – sacca nella sacca – non negano affatto (come potremmo chiamarli? inneggiastionisti?), ma che anzi esaltano le foibe come giusta e ripetibile destinazione per i “fascisti”.

Nel frattempo, oltre l’orizzonte del negazionismo puro, che è stato messo in seria difficoltà dalle immagini dei corpi riesumati dalle insenature del Carso e dalla pubblicazione delle tragiche memorie dei sopravvissuti, nella metà campo degli irriducibili si profila a grandi passi un’argomentazione più sofisticata. In sostanza, adesso che il vaso degli orrori è scoperchiato, c’è una tendenza crescente a contestualizzare, a giustificare, a comprendere il comportamento dei comunisti titini alla luce dei precedenti, ossia delle azioni del regime fascista e delle truppe italiane in quei territori, da sempre caratterizzati da una forte mescolanza etnica.

A questo proposito dovrebbe essere chiaro che l’oggetto dei contributi storiografici non può essere fissato per legge, o comunque d’autorità, e che, se qualcuno anche da destra ha tentato di farlo, ha sbagliato o si è imbattuto con modalità improprie nel terreno difficile che separa la celebrazione dalla ricerca storica.

Resta che ci sono sedi deputate al dibattito storico, nel quale rientrerebbe a pieno titolo anche l’esame delle conseguenze negative della caduta dell’impero multinazionale austroungarico; come pure tante altre vicende, inevitabilmente controverse.

Ma deve essere altrettanto chiaro che le operazioni condotte dai comunisti titini contro le popolazioni italiane travalicano enormemente le categorie della vendetta o della ritorsione, se si considera il numero delle persone colpite, la loro appartenenza politica e la loro collocazione sociale.

Meglio e più sinteticamente del presidente Mattarella non saprei dirlo: “…le terribili sofferenze che gli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia furono costretti a subire sotto l’occupazione dei comunisti jugoslavi. Queste terre, con i loro abitanti, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, conobbero la triste e dura sorte di passare, senza interruzioni, dalla dittatura del nazifascismo a quella del comunismo. Quest’ultima scatenò, in quelle regioni di confine, una persecuzione contro gli italiani, mascherata talvolta da rappresaglia per le angherie fasciste, ma che si risolse in vera e propria pulizia etnica, che colpì in modo feroce e generalizzato una popolazione inerme e incolpevole.

Insomma, è un’ottima cosa che il negazionismo, ormai insostenibile, sia ridotto a sacca deprecabile, e magari scompaia del tutto, ma cerchiamo di tenere lontano il tentativo crescente di mescolare le celebrazioni delle vittime con le giustificazioni dei carnefici.

Fonte: l’Occidentale

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