Il naturalismo politico e la crisi del diritto in Matteo Liberatore

di Silvio Brachetta.

Questo ampio intervento di Silvio Brachetta si aggiunge a quelli di Stefano Fontana [leggi qui]e di Riccardo Zenobi [leggi qui], già pubblicati nel nostro sito. Continua così la nostra riflessione sulle conseguenze, anche attuali, del naturalismo politico.

Sul naturalismo in genere e sul naturalismo politico, in particolare, il gesuita padre Matteo Liberatore (1810-1892) offre una sintesi del suo pensiero nell’opera La Chiesa e lo Stato[1]. Liberatore avrebbe trattato più estesamente del tema in tre articoli pubblicati su “La civiltà Cattolica” nel 1883 e ora ripubblicati nel volume[2] ripubblicato a cura di Giovanni Turco e recensito da Stefano Fontana[3].

L’assunto è più che noto: la modernità ha rotto l’unione tra ragione e fede, tra natura e grazia, tra naturale e soprannaturale – in opposizione alla volontà di Dio, che li concepì uniti. Il naturalismo non è altro – secondo Liberatore – che l’affrancamento dell’ordine naturale da quello soprannaturale, dove il primo si dichiara indipendente dal secondo. L’origine di questa separazione, o rottura, è nel «peccato stesso di Lucifero», il quale «contro lo stendardo della grazia levò il vessillo della natura»[4]. Non vi è nulla di nuovo, dunque, in «questo preteso spirito moderno, che in verità è antico quanto il diavolo».

Naturalismo filosofico e politico

Liberatore elenca quattro gradi del naturalismo, ispirandosi al pensiero di Mons. Louis-Édouard Pie (1815-1880)[5], menzionato più volte nel testo. Il primo è «di quelli che accettano la presenza e l’autorità di Cristo nel solo ordine delle cose private e spirituali», ma «la rimuovono dalle cose pubbliche e temporali». Poi c’è il naturalismo di quelli che ritengono «facoltativo» l’ordine soprannaturale, per cui lo Stato «deve risolvere fuori d’ogni elemento rivelato il problema della vita umana e del governo pubblico». Il terzo e il quarto grado corrispondono alle posizioni del deismo e del panteismo: Dio è in una posizione completamente estranea alla natura (deismo), o coincide con la natura stessa (panteismo). In entrambi i casi, il soprannaturale – e dunque anche la Chiesa – è superfluo, perché in una posizione d’incomunicabilità completa col naturale (deismo), oppure perché esso è ridotto alla pura natura (panteismo).

Come già Stefano Fontana spiegava nella sua recensione, «il naturalismo politico si esprime a due livelli», che corrispondono ai primi due gradi citati da Liberatore: «il primo corrisponde ad una visione cosiddetta moderata (potremmo dire il livello dell’ipotesi, secondo la distinzione del vescovo Doupaloup) e il secondo ad una cosiddetta radicale»[6]. E le due visioni potrebbero anche dirsi «liberale» la prima («secolarizzazione»); «giacobina» la seconda («secolarismo»)[7]. Quanto invece agli ultimi due gradi – deismo e panteismo – essi corrispondono al naturalismo filosofico.

Più in dettaglio – scrive il gesuita – i politici naturalisti «sottraggono dalla rivelazione la società e si riducono alla separazione dello Stato dalla Chiesa», mentre i filosofi naturalisti «sottraggono dalla rivelazione la scienza, l’uno col negare a Dio la facoltà di dominarla [deismo], l’altra col togliere di mezzo Dio stesso [panteismo]». È abbastanza chiaro che il naturalismo filosofico è orientato maggiormente all’ambito speculativo, a differenza del naturalismo politico, a cui compete l’ambito pratico. L’autore ha ben presente la traccia segnata da Pio IX, nell’enciclica Quanta cura e, in particolare, nel Sillabo[8] accluso, dove alla lista degli errori riconducibili al naturalismo sono dedicate le prime sette allocuzioni.

C’è un solo ordine in due ambiti

Pio IX definisce il naturalismo «empio e assurdo sistema»[9], per dire che si tratta di una posizione non solo contraria a Dio, ma alla stessa ragione filosofica. Dietro al motto francese (e in seguito risorgimentale) «libera Chiesa in libero Stato»[10], si cela in realtà un inganno: non c’è nessuna liberazione della Chiesa o dello Stato ma, al contrario, si vuole «privare la società umana – scrive Liberatore – dal benefizio della redenzione». Si rintraccia, in questo caso, tutta la larghezza del concetto di “bene comune” che, secondo la dottrina cristiana, va assai oltre il bene materiale e comprende, invece, anche il Bene sommo (Dio).

Con la separazione, inoltre, tra Stato e Chiesa, i governanti ritornano ad essere ciò che erano prima del cristianesimo: «uomini sovrastanti ad uomini», che hanno l’unico obiettivo di sottomettere il suddito ad un suo simile. Se infatti essi non sono più «vicegerenti di Dio», come spesso si consideravano re ed imperatori cristiani, il potere politico non è più in grado, con le proprie forze naturali, né di conseguire, né di far praticare ai governati le virtù. La società, quindi, si guasta e scende al livello delle civiltà pagane, che sono tutte crollate a motivo della corruzione dei costumi e dell’insufficienza dell’impegno puramente umano. Senza il supporto della grazia, la famiglia prima e, in seguito, l’intero corpo sociale, implodono in se stessi, incapace com’è la natura di sostenersi in autonomia completa.

Dio Creatore – spiega il gesuita – «non ha stabilito due ordini tra loro paralleli, l’uno naturale l’altro soprannaturale», ma «un ordine solo, composto di due [ambiti, ndr]: la natura esaltata dalla grazia, ossia la grazia vivificante la natura». In Gesù Cristo, i due ambiti dell’unico ordine sono «coordinati e non confusi». Viceversa, «separata e spogliata di Cristo, la natura umana costituisce pienamente ciò che le sante Scritture appellano mondo». E questo mondo è proprio quel mondo citato nel Vangelo «a cui Cristo non appartiene, pel quale egli non prega, al quale egli ha detto sventura»: quel mondo, insomma, «di cui il diavolo è principe e capo».

Il danno del naturalismo politico sta pure alla base di una certa schizofrenia, che da sempre accompagna il cittadino cattolico: la separazione tra Stato e Chiesa «scioglie l’unità della persona umana, e pone l’uomo a cimento di trovarsi in contraddizione tra i doveri di cattolico e i doveri di cittadino». C’è anche un danno che si potrebbe considerare collaterale. Il singolo cittadino, cioè, non assiste mai passivamente allo sfacelo e, prima o poi, la società si corrompe in moti di rivolta o ribellione. In altre parole, l’ambizione smodata, la cupidigia o il capriccio di chi regge i popoli viene emulato dai popoli medesimi, che sostituiscono il vizio alla virtù.

Il diritto e il suo fondamento

Liberatore sostiene che il naturalismo politico è all’origine di tre conseguenze sociali: innanzi tutto è persa e oscurata la genuina idea del diritto. Segue a ruota, poi, la forza cieca, che va appunto a sostituire l’assenza del diritto. E infine, a motivo di tale sostituzione, si diffonde a macchia d’olio l’opinione dei singoli e l’azione ad arbitrio – oggi si direbbe la diffusione del relativismo.

Il diritto è definito dall’autore come «un potere morale inviolabile»: è «un potere, perché risiede nella facoltà di fare o pretendere alcuna cosa»; è «morale, perché trae origine dalla ragione, imperante nell’ordine dei costumi»; è «inviolabile, perché esige riverenza dagli altri». L’inviolabilità, inoltre, è il carattere distintivo del diritto giuridico da ogni altro potere morale. È quindi evidente che se nessun essere umano può disporre del diritto (poiché intangibile), esso dev’essere posto da qualcuno più in alto – da un «comune Signore». Il diritto, allora, per avere un senso, «inchiude l’idea di Dio, provvido e governatore». Espulso Dio dalla società, ne viene espulso anche il diritto e la stessa giustizia.

Non che lo Stato autonomo non abbia un’idea astratta del diritto, anche perché i liberali insistono (opportunamente) sul fatto che nella natura e nella ragione è rintracciabile una qualche concezione di giustizia o divinità. Per di più, c’è un liberalismo cattolico che non rinnega l’esistenza di Dio e del Dio della rivelazione. Il problema – obietta Liberatore – è che «l’umano consorzio ha bisogno dell’idea non astratta, ma concreta del diritto», non «generico, ma specifico», specialmente nelle sue applicazioni particolari. Se lo Stato si separa dalla Chiesa, il potere politico «non ha virtù bastevole a determinare e mantenere» il diritto. Non solo ma, quanto alla sfera religiosa, anche i pagani l’avevano: questo non fu sufficiente per mantenere la civiltà, che crollò nella corruzione e nel putridume. Non basta, quindi, avere Dio (o le divinità) come orizzonte astratto e generico, ma è necessario il Dio vero, il Logos della vera religione con la sua dottrina, affinché tutto si tenga. Proprio quel Logos, proprio quella religione, non una qualsiasi.

La Chiesa ha questa prerogativa, cioè di «serbare nel mondo incontaminata l’idea del diritto e conseguentemente della giustizia», per via della sua «inerranza». Aveva dunque ragione l’avvocato Adolphe Thiers quando affermò che «nessuna società umana è possibile, senza alcune idee morali fortemente stabilite»[11]. Non vi è alcuna autorità umana che possa garantire l’inerranza, nelle questione morali-pratiche. Questa autorità va ricercata a monte, avendo essa un’origine superiore.

Il surrogato del diritto è l’arbitrio caotico

La seconda conseguenza sociale, effetto del naturalismo politico, è il fatto che, estinto il diritto autentico, subentra la pura forza, senza la quale la società non potrebbe conservarsi. Tra l’altro, il diritto aveva pure una funzione di principio unificante, come del resto sosteneva Cicerone: la comunità civile è «coetum hominum, iure sociatum» – «collezione d’uomini, associata dal diritto»[12].

Liberatore dà un’ulteriore definizione di diritto: esso «non è altro che il vero in ordine all’azione». Da qui la sua capacità unificante: «il solo vero, con la sua unità, ha virtù di congiungere insieme gl’intelletti e conseguentemente la volontà». In tal senso, solo il diritto può «trasformare il comando altrui in principio motore di enti ragionevoli». Tolto il potere unificante del diritto resta, da un lato, la moltitudine, che ha bisogno di una guida, dall’altro rimane un’autorità priva di virtù e riformata in puro impulso.

Espulso il diritto – ma in fondo il Logos, il significato – rimane l’obbedienza per se stessa, che induce «i governati contro i governanti» (rivolta) e la corsa al potere dei singoli, mossi dalla sola smania di comandare. Agli stessi governanti non resta che l’arbitrio della propria volontà e «la moralità viene a confondersi con la pura legalità». È il problema della nostra epoca, del presente, in cui abbiamo leggi ingiuste – contro la vita, la famiglia, il patrimonio – che sono tollerate e difese in quanto legali, ovvero votate a maggioranza democratica. A questo quadro è da aggiungere una postilla: negato il fondamento divino del diritto, l’autorità non ha altro mezzo di trattenere il caos delle masse, se non per mezzo del «timore della pena», così che l’uomo non è più spinto a ricercare la virtù, ma è reso negletto dalla paura.

Quanto alla terza conseguenza sociale, l’autore afferma che il naturalismo politico, dopo avere annichilito il diritto, è costretto a «cercare un altro principio morale», che possa fungere da surrogato. E qua, in una cornice di liberalismo onnipresente, vale la massima «quot capita, tot sententiae» – ognuno dice la sua, liberamente e capricciosamente, non potendo fondare le proprie convinzioni su nulla di assoluto. Se, come visto, è caduto il principio di coesione sociale, la massa non è certo in grado di darselo da sola, poiché la massa è, per definizione, un coacervo di opinioni. La stessa pubblica opinione si tramuta in caos: il vero e il falso non hanno più contorni netti, ma nemmeno sfumati. Anche questo esempio, benché partorito nel XIX secolo, è attualissimo e fotografa le società odierne, specialmente in Occidente – tralasciando l’Oriente e il Sud del pianeta, nelle mani di oligarchie totalitarie.

Particolarmente acuta l’osservazione di Liberatore, secondo cui Dio non «ha promesso la propria assistenza, né ha comunicato la propria infallibilità» alla pubblica opinione, che rimane un tribunale mosso da elementi esterni «ai singoli intelletti umani». Molto ironico è il suo giudizio sul giornalismo che, rappresentando la pubblica opinione, si dimostra nient’altro che «una turba di scribacchiatori impudenti, disposti a vendersi al maggiore offerente». Ecco allora sorgere la «moralità del successo»: guida il popolo colui che s’impone attraverso i media o mediante la forza di carattere o fisica.

La liberalità nasce da una prospettiva soprannaturale

Confortato dalla dottrina secondo cui la società nasce dalla famiglia – per cui fu concepito da Dio il fatto che la natura umana contemplasse un solo capo – Liberatore reputa che la forma monarchica sia la più adatta al consesso civile. E nota pure che l’autorità regia è certamente avvilita dal naturalismo politico. Benché pagano, cita Omero: «Non è buono il governo di molti, sia uno il principe»[13]. La monarchia, inoltre, è anteriore all’aristocrazia (o all’oligarchia) e ai governi democratici. In effetti, non è difficile associare mentalmente la monarchia al monoteismo e altre forme di governo al paganesimo politeista.

Liberatore, nella sua apologia alla monarchia, cita anche lo storico francese Guizot, secondo cui «la forza dell’autorità monarchica […] non risiede punto nella volontà propria», ma è «tutt’altra cosa», benché si presenti nella medesima forma della volontà del singolo uomo[14]. L’autorità monarchica è «la personificazione della sovranità del diritto, della volontà essenzialmente ragionevole […], superiore a tutte le volontà individuali»[15]. Ammesso che il monarca cristiano sia veramente sottomesso a Dio e al suo magistero, questa sua volontà – scrive Liberatore – è l’espressione del volere divino: è allora una volontà «ragionevole, illuminata, giusta, imparziale» e «godrà l’amore e il rispetto dei popoli».

Un ultimo aspetto da considerare è la promozione delle «istituzioni di libero reggimento», nel senso che la Chiesa, «restaurando il concetto della umana fratellanza […] indusse la società a spezzare» le catene indecorose di quella «turba sterminata di schiavi», creata dalle antiche repubbliche e oligarchie pagane. Dopo il tramonto di Roma, fiorì la civiltà medievale, in tutta la sua ricchezza di arti, mestieri, conoscenze, cultura e scienza. Ma tutto questo fu possibile solo perché l’uomo medievale era riuscito a conservare la prospettiva di un fine soprannaturale e di un bene che andava oltre i singoli beni materiali. La modernità e il conseguente naturalismo politico hanno mortificato questo ordinamento, pur non distruggendolo completamente: se oggi qualche suggestione di bene o di ordinamento civile è rimasto, forse lo si deve all’inerzia dell’esplosione spirituale innescata dalla cristianità.

[1] Matteo Liberatore, La Chiesa e lo Stato, Tipografia Giannini, Napoli, 1872. Qua si prende in considerazione il solo Capo II, “Del naturalismo politico”, pp. 114-183.

[2] Matteo Liberatore, Il naturalismo politico, a cura di G. Turco, Ripostes, Giffoni Valle Piana 2016.

[3] Stefano Fontana, “Matteo Liberatore e il principale nemico della DsC. A proposito di un testo a cura di Giovanni Turco”, Osservatorio Cardinale Van Thuân, 22/12/2019.

[4] Liberatore, La Chiesa e lo Stato, op. cit. Tutte le citazioni, ove non espressamente indicato, sono qui tratte dal Capo II dell’opera e artt. segg.

[5] Louis-Édouard Pie, Troisième instruction synodale sur les principales erreurs du temps présent, H. Oudin, Poitiers 1864.

[6] Fontana, “Matteo Liberatore…”, op. cit.

[7] Cf. ivi.

[8] Pio IX, Lettera enciclica Quanta Cura & Syllabus complectens praecipuos nostrae aetatis errores (Elenco contenente i principali errori del nostro tempo), 08/12/1864.

[9] Ivi.

[10] «L’Eglise libre dans l’Etat libre»: motto coniato da Charles Forbes de Montalambert e ripreso da Camillo Benso di Cavour.

[11] Adolphe Thiers, “Discorso al Corpo legislativo di Francia”, 13/04/1865, cit. da Liberatore.

[12] Cicerone, De republ., 6.13.13.

[13] Omero, Iliade, L. II, v. 204.

[14] François Guizot, Histoire générale de la civilisation en Europe, 1828, Leçon n. 9.

[15] Ivi.

Fonte: Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân

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