Boris Johnson e noi: ultima chiamata per cambiare l’Europa

di Eugenio Capozzi.

Il trionfo di Boris Johnson nelle elezioni del Regno Unito è una svolta storica per quel paese, che ora finalmente dopo tre anni di stallo potrà proseguire sul percorso iniziato nel 2016 con il referendum sulla Brexit. Ma esso rappresenta anche l’ennesimo – forse il definitivo – avviso all’Europa e a tutto l’Occidente che il mondo è cambiato, che è necessario fare i conti con la realtà, che occorre voltare pagina e cominciare a ricostruire se non si vuole perire.

Dopo la vittoria del Leave e la vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi tre anni fa, le élites dominanti euro-occidentali – servendosi del loro gigantesco potere mediatico – hanno messo in atto un poderoso sforzo per negare la realtà dei fatti, per minimizzare e circoscrivere quanto stava avvenendo, per isolare e demonizzare le forze nuove che erano emerse. Uno sforzo ripetuto poi ad ogni consultazione elettorale, che produceva immancabilmente risultati opposti alle loro aspettative e alla loro visione del mondo.

Ci hanno raccontato che la vittoria di Brexit e Trump era stata colpa degli hacker russi, della “pancia” degli elettori, delle paure instillate dalle fake news sui social. Hanno sostenuto (con incredibile mancanza di pudore) che se le nuove destre sovraniste e revisioniste vincono è colpa degli elettori anziani, di quelli troppo ignoranti, persino di quelli troppo poveri – mentre quelli giovani, istruiti e informati naturalmente votano per l’inevitabile Progresso globalista, multiculturalista, euroentusiasta. Anzi, hanno cominciato a suggerire che forse il voto andrebbe limitato a loro, vincolato a un “patentino” civico, affidato ai “competenti”. E sul caso specifico della Gran Bretagna, per tre anni hanno offerto un’interpretazione completamente distorta di come sarebbero andate le cose. Hanno detto che gli elettori di Sua Maestà si erano pentiti della scelta del 2016, che a gran voce chiedevano di ripetere il referendum, che il Regno Unito si era messo in un vicolo cieco, che l’Unione europea l’avrebbe messo con le spalle al muro.

L’avvento al potere di Johnson, la sua linea politica chiara ed inequivocabile, il suo coraggio, la sua personalità straripante che riprende la grande tradizione churchilliana, la sua determinazione nel resistere alle pressioni e chiedere finalmente una piena investitutra elettorale al suo programma “Let’s get Brexit done”, hanno spazzato via definitivamente tutte queste illusioni e bugie. Ora, c’è da scommetterlo, quelle classi dominanti e quei media a partito unico cercheranno ancora di arrampicarsi sugli specchi per negare, deformare, nascondere la svolta. Ma “i fatti sono testardi”, e ben presto le sue conseguenze saranno sotto gli occhi di tutti, compresi quelli che si ostinano a non voler vedere e a non voler far vedere.

Proprio questo è il punto fondamentale della questione. La Brexit e le vittorie elettorali di partiti sovranisti, nazional-conservatori, identitari rappresentano la risposta di massa delle società occidentali ad una crisi profonda, alla relativizzazione e al rimpicciolimento dell’Occidente nel mondo globalizzato. Gli elettori non votano affatto con la “pancia”, ma con la testa, e sono molto più lucidi e razionali e propositivi delle loro classi dirigenti. Percepiscono chiaramente il declino pericolosissimo nel quale il nostro ex “primo mondo” sta scivolando, e attibuiscno il loro consenso a quei leader che propongono soluzioni per loro plausibili a quel declino: argini alla globalizzazione selvaggia, difesa degli interessi e delle identità nazionali, ordine e sicurezza contro l’immigrazione sregolata, defiscalizzazione, sburocratizzazione, politiche energiche per la crescita economica e per la famiglia.

La democrazia non è un sistema di governo perfetto, ma segnala con buona approssimazione i problemi di fondo delle società e porta alla luce processi razionalmente spiegabili. Davanti ai quali la politica può produrre proposte differenti e alternative, ma che non possono essere ignorati, tanto meno moralisticamente e ideologicamente condannati.

E’ invece proprio quello che hanno fatto fino ad ora le classi politiche progressiste, liberali e moderate, così come le super-burocrazie delle istituzioni internazionali, i grand commis e “competenti” di ogni genere incastonati tra alta accademia e redazioni dei media, gran parte degli intellettuali acriticamente proni ai nuovi miti ideologici del politicamente corretto.

Adesso si sveglieranno, una buona volta? Abbandoneranno la comfort zone del loro senso di superiorità, dei loro pregiudizi, delle loro demonizzazioni, e cominceranno a ragionare sui problemi concreti, sull’inversione di marcia che occorre all’Occidente per uscire dal pantano? O continueranno a tenere la testa sotto la sabbia, seppellendo sotto quella sabbia anche le società a cui appartengono?

Tre anni fa il voto sulla Brexit ha segnalato la drammatica urgenza di ridiscutere profondamente regole ed istituzioni dell’Unione europea, trasformata sempre più in un moloch iperverticistico e gerachizzato: una gabbia di ferro che condanna i suoi popoli alla stagnazione, alla decrescita, all’impoverimento, ad una fiscalità oppressiva, ad una crescente insicurezza. Invece di raccogliere la sfida lanciata dall’opinione pubblica britannica, le classi dirigenti dell’Unione si sono arroccate nello status quo, cercando soltanto di “ucciderne uno per educarne cento”, di dare ai “disertori” una punizione esemplare che scoraggiasse ulteriori tentativi di dissenso. Ora Boris Johnson impone, con la forza tranquilla della democrazia, l’opzione del suo paese in favore della libertà a quei dignitari continentali ostinatamente chiusi nella loro fortezza. Il Regno Unito sceglie, seguendo la lunga traccia della sua storia, di avventurarsi ancora una volta nell’Oceano. Sceglie l’asse transatlantico con gli Stati Uniti, scommette sulla sua capacità di rafforzarsi come hub globale di mercati, finanza, ricerca, tagliando – anche dolorosamente – i vincoli che lo univano ad una Ue vissuta ormai soltanto come zavorra.

Ma la campana suonata dagli elettori britannici suona, ancora una volta, per tutti noi. Il perentorio colpo di cannone proveniente da oltre Manica è forse l’ultima chiamata per riformare seriamente le istituzioni dell’Unione e le regole della moneta unica. Per mantenere i vantaggi dello spazio economico e poltiico comune ma al contempo restaurare la sovranità dei popoli, liberando le loro energie compresse, e cercare di riavviare lo sviluppo di un continente sempre più vecchio, stanco, impaurito, stretto tra vecchie e nuove potenze che minacciano di fagocitarlo.

Se i vertici dell’Ue non sapranno sfruttare nemmeno quest’ultima occasione per operare i coraggiosi cambiamenti che il momento storico richiede,  molto prima e molto più velocemente di quanto molti pensano l’intero edificio comunitario potrebbe collassare rovinosamente al suolo, innescando una reazione a catena dalle conseguenze inimmaginabili.

Fonte: l’Occidentale

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