Chi garantisce la continuità del Magistero

di Stefano Fontana.

Quando il magistero insegna una cosa nuova dovrebbe sempre farlo in due modi: a) affermandola in modo chiaro e non con giri di parole o allusioni, in modo da permettere a tutti di carpirne l’esatto significato per poterlo valutare alla luce della tradizione; b) spiegando che si tratta di una esplicitazione di quanto sempre ritenuto vero dalla Chiesa nella tradizione apostolica. L’onere della prova, come si dice in gergo, spetta in primo luogo al magistero e solo in seconda battuta ai teologi o ai fedeli. Se il magistero non lo fa o lo fa in modo impreciso, delega il compito ai teologi e ai fedeli, con il doppio rischio della confusione delle interpretazioni

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La discussione in margine alle vicende che hanno colpito l’Istituto Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia, e di cui la NBQ ha ampiamente reso conto, pone anche un problema che è rimasto nascosto. Eccolo: a chi spetta primariamente garantire che le ultime cose insegnate sono in continuità con le antiche? I teologi che interpretano gli ultimi insegnamenti alla luce dei precedenti – per esempio Amoris laetitia alla luce di Familiaris consortio – svolgono null’altro che il loro dovere, anche se oggi devono combattere per poterlo fare. Però il primo dovere in questo campo spetterebbe alla fonte magisteriale e solo in secondo luogo ai teologi e ai fedeli.

Facciamo un esempio terra-terra. Se il mio parroco in una omelia domenicale afferma cose strane, di difficile decifrazione teologica o pastorale, qualche sua esegesi forzata, oppure affronta tematiche pastorali di frontiera e si slancia in proposte avventate e discutibili, certamente il fedele che assiste all’omelia deve leggere le sue parole alla luce di quanto la Chiesa ha sempre insegnato. Se il sacerdote dicesse che le relazioni omosessuali vanno accolte e apprezzate per gli elementi positivi che contengono, il fedele dovrebbe filtrare quelle parole alla luce della morale – naturale e soprannaturale – da sempre insegnata dalla Chiesa. Lasciamo perdere la situazione di fatto, ossia se i semplici fedeli siano in grado di farlo o se, piuttosto, tendano ad assumere le parole di un’omelia come oro colato. La situazione di diritto, ossia come dovrebbero andare le cose, sembra essere così.

Questo dovere/diritto dei fedeli, in virtù del battesimo e del senso della fededel popolo di Dio innestato nel Corpo di Cristo, di leggere le cose nuove alla luce delle cose antiche è quindi sacrosanto. E non si tratta di magistero di serie A (quello antico) e magistero di serie B (quello recente). Si tratta semplicemente di magistero che, se non è in armonia con la tradizione, non è magistero.

L’atteggiamento contrario significherebbe un positivismo cattolico. “Positivo” significa “fattuale”, che si dà di fatto. Il positivismo cattolico consiste nel ritenere magistero un insegnamento solo perché di fatto è pronunciato dall’autorità rispettiva. Nel caso dell’omelia del parroco, il positivismo cattolico vuole che qualunque insegnamento egli diffondesse con le sue parole dovesse essere seguito perché ritenuto magistero. Però, come detto sopra, così non è.

Fatte le debite distinzioni, questo discorso vale anche per tutti i livelli in cui il magistero viene espresso, vale anche per i vescovi e per il papa. Ciò, naturalmente, non significa accostarsi al magistero con occhio pregiudizialmente critico, assumere un atteggiamento di indisponibilità preventiva, non riconoscere i diversi livelli del discorso. Si sa, per esempio, che in un intervento magisteriale ci possono essere rimandi a verità assolute di fede, ma anche osservazioni personali di valore ben meno impegnativo.

Sempre al magistero ci si deve accostare con “religioso ossequio”, ma questo non vuol dire ad occhi chiusi. Sia la sapienza della fede appresa dalla Chiesa e nella Chiesa, sia l’uso della ragione naturale – anche Gesù Cristo applicava il principio di non contraddizione quando pensava e parlava – non possono essere messe da parte e nessun magistero lo può chiedere.

Stabilito, quindi, questo dovere/diritto di accogliere il magistero cum grano salis, ossia usando la ragione naturale e valutando il nuovo in continuità con la tradizione, ci si chiede però se i primi a doverlo fare non debbano essere proprio i pastori, ossia coloro che in forma eminente godono del munus docendi, del compito di insegnare. Tornando al nostro parroco, il primo a doversi preoccupare di non turbare i fedeli con novità eterogenee rispetto alla tradizione, o con assurde provocazioni, o con affermazioni decisamente fuori le righe dovrebbe essere lui stesso. Certo, i fedeli ascolteranno le sue parole con il grano salis di cui si parlava sopra, ed eventuali loro valutazioni critiche onestamente condotte alla luce della tradizione sarebbero legittime, ma prima ancora dovrebbe essere lui a garantire che quanto dice rappresenta un approfondimento nella continuità.

Ciò vale anche per i “piani alti”. Quando il magistero insegna una cosa nuova dovrebbe sempre farlo in due modi: a) affermandola in modo chiaro e non con giri di parole o allusioni, in modo da permettere a tutti di carpirne l’esatto significato per poterlo valutare alla luce della tradizione; b) spiegando che si tratta di una esplicitazione di quanto sempre ritenuto vero dalla Chiesa nella tradizione apostolica.

L’onere della prova, come si dice in gergo, spetta in primo luogo al magistero e solo in seconda battuta ai teologi o ai fedeli. Se il magistero non lo fa o lo fa in modo impreciso, delega il compito ai teologi e ai fedeli, con il doppio rischio della confusione delle interpretazioni e dell’accusa di voler fare le pulci al magistero: chi ti credi di essere tu che passi al vaglio l’omelia del tuo parroco, del tuo vescovo o addirittura del papa?

Fonte: La nuova Bussola Quotidiana

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