“Amoris laetitia” e la fine della verità. Ma quanto è vecchia questa Neochiesa!

di Aldo Maria Valli.

Come ogni libro del professor Stefano Fontana, anche Esortazione o rivoluzione? Tutti i problemi di “Amoris laetitia” (Fede & Cultura, 128 pagine, 15 euro) va letto da cima a  fondo, con attenzione e gratitudine.

La tesi di Fontana è chiara: Amoris laetitia costituisce un’autentica rivoluzione, rispetto alla tradizione e al magistero precedente. Presentandosi come documento di natura pastorale piuttosto che dottrinale sembra quasi voler rassicurare. In realtà è rivoluzionaria proprio perché privilegia la pastorale sganciandola dalla dottrina e, mettendo in primo piano la prassi, relativizza l’idea di verità. Tuttavia, come vedremo, in questo suo essere “nuova” è molto vecchia.

Nella prima parte del libro Fontana dedica specifica attenzione al linguaggio di Amoris laetitia perché è proprio il linguaggio che rivela le intenzioni di Francesco. È il linguaggio del “sì… ma”, delle domande senza risposta, dell’ambiguità voluta, dell’indeterminatezza utilizzata al fine di destrutturare quelle che l’esortazione considera, sia pure senza dirlo apertamente, certezze ormai superate.

L’insofferenza del papa per la dottrina è evidente, è netta è la predilezione per la prassi. Proprio utilizzando la retorica del “sì, ma anche”, si dice che l’unità fra dottrina e prassi è importante, “ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretate la dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano” (paragrafo 3). Inoltre “in ogni Paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alla sfide locali” (sempre paragrafo 3).

Naturalmente il concetto-chiave di “inculturazione” non viene precisato e il lettore resta col dubbio. Significa che la morale dev’essere diversa da luogo a luogo? Significa che una norma che vale nel Paese A non vale nel Paese B? In proposito nessuna risposta, ma nei fatti il relativismo si insinua e, di nuovo, è l’idea di verità assoluta a essere messa in discussione.

Le norme divine ridotte a “ideali” (a cui si può tendere, ma senza la pretesa di raggiungerli) e il peccato trasformato in semplice inadeguatezza e fragilità umana sono altri fattori che fanno di Amoris laetitia un documento teso a scardinare la dottrina cattolica sostituendola con il pragmatismo e lo storicismo (da cui la rottura netta rispetto a Veritatis splendor di san Giovanni Paolo II), ma qui vorrei concentrarmi sul capitolo che Fontana ha voluto intitolare Kasper in fotocopia e nel quale l’autore dimostra come Amoris laetitiasia il risultato di un  lungo cammino incominciato a metà degli anni sessanta del secolo scorso proprio dal cardinale tedesco, tanto apprezzato da Francesco.

Se Amoris laetitia ricalca la relazione tenuta da Kasper nel febbraio 2014 in preparazione dei due sinodi sulla famiglia, la relazione ricalca a sua volta le tesi sostenute dal teologo tedesco nel libro del 1979 Teologia del matrimonio cristiano, e questo libro altro non è se non il risultato di una riflessione che Kasper fece partire nel 1967 con Per un rinnovamento del metodo teologico, nel quale sosteneva che il dogma non può essere considerato in senso assoluto, ma va storicizzato, perché “è una funzione della Chiesa” e, come tale, “sempre si rinnova”.

Eccole lì le radici di Amoris laetitia. La verità, sosteneva il giovane Kasper, “possiede sempre un suo Sitz im Leben (ambito vitale)”, per cui non va presa in se stessa, ma va messa in relazione con “gli eventi sociologici e antropologici”. Così facendo, si scopre “il carattere pragmatico ed esistenziale della verità”, e questo è il motivo per cui, sosteneva Kasper, l’intera teologia cattolica va rivista, togliendo di mezzo la dogmatica come ordine immutabile e riconoscendo che è la storia “l’orizzonte ultimo di ogni realtà”.

Se poi torniamo ancora più indietro, al 1965 e a quel Il dogma sotto la parola di Dio nel quale il futuro cardinale spiegava che il dogma non è rivelazione di verità su Dio e sull’uomo, ma è qualcosa che, trovandosi tra la Parola di Dio e le situazioni reali, richiede sempre un’interpretazione alla luce della storia, ecco che Amoris laetitia ci appare per quel che è: uno degli ultimi frutti del vecchio modernismo.

Il filone lo conosciamo bene. È quello dei Chenu, dei Rahner, e Kasper non è che il distillato di un pensiero teologico ispirato allo storicismo, e senza che ci sia stato nemmeno lo sforzo di rinnovare un po’ il linguaggio, visto che (Fontana lo dimostra) nel testo proposto dal cardinale tedesco nel febbraio 2014 in vista dei due sinodi sulla famiglia si ritrovano quasi alla lettera le espressioni usate trentasei anni prima in Teologia del matrimonio cristiano.

Tutto già progettato? si intitola il capitolo successivo del libro di Fontana, e la risposta non può essere che positiva. D’altra parte, rivelatore è il fatto che al sinodo straordinario del 2014 non fu invitato nessun esponente del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia (poi rivoluzionato a sua volta da Francesco, fino al licenziamento dei suoi docenti più prestigiosi). Evidente la volontà di riallacciarsi al pensiero modernista troncando di netto con le tesi del papa polacco riproposte e valorizzate dal primo preside dell’Istituto, quel professor Carlo Caffarra che poi sarebbe stato uno dei quattro cardinali sottoscrittori dei famosi dubia(che mai hanno ricevuto risposta) proprio su Amoris laetitia.

Sì, tutto già progettato, e da lungo tempo. Per cui Amoris laetitia non è nuova, ma vecchia, anzi vecchissima. E tuttavia è rivoluzionaria nel senso pieno del termine, perché con essa il magistero abbandona la via ontologica e imbocca la strada dell’esistenzialismo.

Dio? Si rivela nella vita del popolo. La dottrina? Va interpretata in base alle situazioni date. La legge? Va modulata a seconda della storia e dei luoghi, per cui è possibile un pluralismo dottrinale e morale. I principi morali? Non sono più validi in assoluto ma possono avere eccezioni. Il discernimento? Non serve per scorgere la volontà di Dio, ma per aiutare l’uomo, immerso nella storia, ad aggiustarsi rispetto agli “ideali”.

Così, grazie a un linguaggio adeguato, tutto può diventare oggetto di discernimento nel senso che tutto può essere reversibile, interpretabile, aggiustabile. L’assoluto e il definitivo non ci sono più. Se la verità è nella storia, anche la Parola di Dio va relativizzata a seconda delle singole situazioni, delle singole biografie. Sarà la prassi a fare da sintesi. Ma, essendo prassi, sarà a sua volta variabile, modificabile sulla base degli accadimenti, delle sensibilità, dei gusti.

Scrive Fontana nella parte finale del suo bel libro: “Possiamo anche dire: il come è diventato il cosa. Il contenuto sarà precisato dalla prassi”. Il bene non è importante in sé, ma in quanto “cammino” da fare insieme. E a nulla serve interrogarsi sulla meta, perché non è quello il punto. Il punto è la condivisione, il dialogo, il processo. Così il sinodo stesso cambierà e non ci sarà più bisogno di esortazioni apostoliche post-sinodali, perché saranno le discussioni interne al sinodo ad avere valore magisteriale.

Benvenuti nella Chiesa fluida.

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