Che cos’è il clericalismo?

Un mutamento di significato

In un Discorso del 30 novembre scorso, parlando ai Religiosi, il Papa ha dato una definizione di ciò che egli intende per «clericalismo» come grave errore da evitare nella formazione del clero e come causa dell’attuale grave corruzione sessuale del clero.

In questa occasione il Papa usa il termine «clericalismo» in un nuovo significato, sul quale è bene che ci fermiamo. Ricordiamo infatti che il significato dei termini evolve e si basa solo su convenzioni contingenti, per cui è ad libitum. Tuttavia, la prudenza nel linguaggio consiglia, nel caso si voglia cambiare il significato di una data parola, di tener conto dell’uso che fino ad allora si è fatto di quella parola, nonchè delle origini storiche del significato di detta parola.

Infatti, il cambiamento di significato non è sempre e comunque inopportuno o  sconsigliabile; anzi, possono sempre esserci buone ragioni per cambiarlo. Ma occorre fare attenzione che, almeno nei primi tempi del nuovo uso del termine, nella comunità linguistica il vecchio significato non può sparire del tutto, ma ne resta sempre una traccia, che può generare l’equivoco. Per questo il nuovo significato dovrà essere spiegato, prendendo le distanze dal precedente.

Diverso è il caso di uno che inventa un termine nuovo per designare una cosa nuova da lui scoperta. Qui il dovere di far questo si impone. Per esempio, Teilhard de Chardin ha denominato «sinantropo» un cranio paleoantropologico cinese da lui scoperto e studiato. Ne aveva tutto il diritto ed anche il dovere. Ma quando si prende un termine già in uso con un dato significato, non è che sia del tutto proibito cambiarlo, ma occorre tener presente, come si è detto, che quel termine difficilmente potrà liberarsi subito e del tutto dal significato precedente. E di ciò si dovrà tener conto, se non si vuole esser fraintesi.

Ora, per quanto riguarda il termine clericalismo, esso ha una lunga storia, che si allaccia alle polemiche massonico-liberali dell’800 contro il potere temporale della Chiesa e quei cattolici che lo appoggiavano, sicchè il termine, nella bocca di costoro, nemici della Chiesa e del cattolicesimo, aveva un significato spregiativo, che giungeva, nei casi estremi, al disprezzo per la stessa religione. Così i «clericali» diventavano, in fin dei conti, soprattutto nel linguaggio marxista, gli stessi cattolici o credenti sic et simpliciter.

Nel clericalismo, secondo quest’accezione storica, ciò che comunque è preso di mira non è tanto il singolo credente come tale o il popolo credente, ma, come dice chiaramente la parola, è la sua guida, il clero e quindi la gerarchia, considerati come mistificatori, oppressori ed impostori. Così per esempio, il Tommaseo[1], riferendosi al termine clericale, usato dai nemici della Chiesa scrive: «Ne abusano in senso di disprezzo come sostantivo per notare di biasimo non solo il clero e chi parteggia umanamente per esso, ma chi professa credenze religiose».

Ora, mentre nel linguaggio massonico-liberale ottocentesco, spregiatore del clero, il clericalismo è sic et simpliciterla condotta del clero e di coloro che gli obbediscono, ossia i fedeli cattolici, il termine clericalismo, nel linguaggio di Papa Francesco, subisce uno spostamento semantico: clericalismo, sempre in senso spregiativo, non è più l’essere ed agire da prete ut sic, cosa che non avrebbe senso in colui che è al vertice della gerarchia ecclesiastica, ma, restando sempre il prete o l’ecclesistico, diventa un personaggio altezzoso, che sfrutta slealmente la propria autorità per assoggettare a sé nel peccato il prossimo.

Oltre a ciò, c’è da considerare che l’accezione ottocentesca del termine «clericale» veniva opposta da massoni e mazziniani ad «anticlericale» come loro titolo di merito e sacro dovere. Se dunque vogliamo raccogliere, come fa il Papa, il termine di clericale,dovremmo tener presente che esso trascina con sè anche il termine di anticlericale. Che dovremmo dire, allora? Che il cattolico dev’essere anticlericale? Non sembra ciò una stonatura?

Il clericalismo è un’aristocrazia?

Dice inoltre il Papa: “Esiste un clericalismo che si manifesta nelle persone che vivono con atteggiamenti da ‘segregati’, con la puzza sotto il naso. Sono quelli che vivono una specie di atteggiamento aristocratico rispetto agli altri. Il clericalismo è un’aristocrazia”.

Questo atteggiamento altezzoso e saccente esiste effettivamente in certi Superiori, Vescovi, teologi e preti. Esso ha la sua manifestazione più evidente e grave in certi atteggiamenti scismatici per non dire ereticali, di ribellione alla gerarchia o al Papa, quando non si è in comunione col Magistero o con i vescovi, quando, quindi, il clericale non è «inserito» nella Chiesa, ma, con atteggiamento egoistico, gnostico e presuntuoso, vuol dominare in essa,  disprezza e inganna i subordinati o chi ne sa meno di lui, instillando in loro con vani sofismi una falsa riverenza per il sacerdote, inducendoli a peccare e a soddisfare la sua concupiscenza.

Invece di servire la Chiesa, il clericale si serve della Chiesa per il suo egoismo, la sua ambizione, la sua ingordigia, la sua avarizia e le sue voglie, atteggiandosi a guida spirituale dei giovani. Anche se è attorniato da seguaci ed ammiratori, peraltro ingenui o mondani come lui, è in realtà un isolato nella Chiesa, perché è manchevole proprio nelle condizioni basilari per appartenere alla Chiesa, che sono l’umiltà, la fede  e l’obbedienza al Vangelo ed ai pastori.

Lasciano invece perplessi queste parole del Papa: «Il clericalismo è un’aristocrazia», anche se per capire bene che cosa il Papa vuol dire, bisogna guardare al contesto, dove egli parla di «aristocraticismo». Non si tratterebbe dell’aristocrazia come tale, ma della sua degenerazione elitaria e spocchiosa.

Resta comunque che forse era meglio evitare quell’espressione così secca o quanto meno distinguere un’aristocrazia sana da una degenere, dato che l’elemento aristocratico, rettamente inteso, come mette in evidenza la concezione aristotelica, è un fattore assolutamente necessario per l’esistenza di una sana e completa organizzazione dello Stato e della società civile politica.

«Aristocrazia» vuol dire «governo dei migliori». Ed è giusto che sia così. Lo Stato infatti, per assicurare il bene comune nell’ordine, nella giustizia e nella pace, ha bisogno di una degna e capace classe dirigente, possibilmente di nobili natali, da una stirpe illustre, di buona educazione, colta, virtuosa, di buona fama, che disponga di amicizie potenti ed influenti, ricca di mezzi economici. È questa appunto la classe aristocratica.

Se però l’aristocrazia è il ceto sociale più elevato, ciò non toglie che i ceti popolari, quelli più bassi, i poveri, la gente semplice, non istruita, ignota, di limitate capacità, dedita a mestieri umili, senza potere e di umili origini, siano composti da individui, i quali, in quanto persone umane, siano di uguale dignità dei membri dell’aristocrazia. Ed anzi, per quanto riguarda il governo dello Stato e della cosa pubblica, tutti i cittadini, aristocrazia e popolo, nobili e plebei hanno il diritto e il dovere di scegliersi i governanti, e di governare se stessi mediante loro, perché il governo dello Stato spetta al popolo. E questo è il fattore democratico, che esprime, come  insegna Aristotele, la libertà della persona umana come tale.

In tal modo nella giusta costituzione dello Stato, si dà sotto un certo aspetto, l’applicazione di un fondamentale principio di uguaglianza, e sotto un altro aspetto, l’applicazione di un principio di disuguaglianza o di diversità. Il primo principio riguarda l’uguale dignità umana di tutti i membri della specie umana, che riguarda il diritto che il popolo ha di governare se stesso, eleggendo i propri governanti, per cui, come insegna S.Tommaso, il governante è vicem gerens multitudinis[2].

Il secondo principio concerne la classe dirigente, che dev’esser composta dei migliori, ossia dei più capaci e adatti a governare, eletti dal popolo; ed ecco l’aristocrazia. Il tutto del corpo politico abbisogna del garante e custode dell’unità; ed ecco la monarchia.

Qualcosa di simile, ma anche di diverso, si verifica nella costituzione della Chiesa. Nella Chiesa all’aristocrazia della società civile corrisponde il clero, ossia la gerarchia. Clericalismo, quindi può essere la cattiva condotta di qualche prelato o del Papa stesso: ma non può essere la gerarchia come tale.

La causa immediata della corruzione sessuale

Indubbiamente, un prete lussurioso non è necessariamente uno scismatico; ma quanto meno è un peccatore che non osserva i doveri del suo celibato e dell’etica sessuale. Il Papa, pertanto, a mio giudizio, se avesse voluto fare un discorso chiaro ed efficace contro la corruzione sessuale del clero, avrebbe dovuto ricordare la causa specifica diretta di questo fenomeno scandaloso, che non è altro che la lussuria. E quindi ricordare il modo e i mezzi specifici per guarire da questo vizio.

Ora, è facile che il prete lussurioso sia sensibile al plauso o all’ammirazione del mondo. Ma il clericalismo non è affatto alieno dalla ricerca del potere e del successo mondano e teme i giudizi del mondo, sia quello dei falsi cattolici, sia quello dei non-credenti. In tal senso è vero che i vizi sessuali del clero possono essere causati dal clericalismo.

 Che questa corruzione possa essere l’espressione e l’effetto di quella volontà di dominio e di sfruttamento del prossimo, che è il clericalismo, è vero. Ma il clericalismo come tale non si manifesta solo nella lussuria, bensì anche in tanti altri modi. Esso è infatti sostanzialmente originato dalla superbia e dalla conseguente ribellione alla legge divina,.che sono le ispiratrici diaboliche di tutti i vizi.

Occorre pertanto dire che il prete lussurioso non è necessariamente clericale, così come il clericale non è necessariamente un lussurioso, ma il clericale sarà certamente un superbo. La lussuria, cioè, non nasce necessariamente e direttamente dalla superbia clericale, ma certamente sempre da un’inclinazione e tendenza passionale viziosa del soggetto nel campo dell’attività  sessuale, normale o invertita.

La lussuria, dunque, come tutti i vizi carnali, gola, ira e avarizia, non nasce solitamente da calcolata malizia e deliberata volontà, come i vizi spirituali della superbia, dell’orgoglio, dell’ipocrisia, dell’empietà, dell’invidia, della disonestà, dell’infedeltà, della gelosia, dell’accidia. Questi  vizi, a causa del deliberato consenso in materia grave, sono i peggiori e producono il peccato mortale.

Invece i vizi carnali sono per lo più causati dalla fragilità, perché la debole volontà è vinta della violenza della passione, per cui facilmente hanno delle attenuanti e la colpa si abbassa al livello del peccato veniale, senza con ciò escludere la possibilità del peccato mortale.

In questi casi il soggetto può conoscere bene il proprio dovere; non falsifica la legge come fa il clericale eretico per aver via libera a soddisfare la sua libidine. Solo che, a causa della forza della concupiscenza, cede alla tentazione e si lamenta con S.Paolo: «Non riesco a capire ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. … Io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. … Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra» (Rm 7, 15.19.22-23).

Il Lutero giovane, ancora monaco, nel constatare questa situazione da lui pure avvertita, ma non ben interpretata, si disperava, perchè credeva di essere sempre e inevitabilmente in peccato mortale, non sapendolo distinguere dal veniale. Se avesse riflettuto al fatto che quando non c’è la malizia deliberata della volontà, ma solo la fragilità di una volontà debole trascinata dalla passione, non è il caso di considerarsi dei dannati, ma si tratta semplicemente di non arrendersi e di confidare nella misericordia divina. Anche lui, certo, finì per confidare nella divina misericordia, ma rinunciando allo sforzo ascetico della propria purificazione, senza il quale non si può pretendere di ricevere misericordia.

Occorre ricordare altresì che il prete lussurioso non scandalizza il mondo laicista, anche se questi può fingere un’ipocrita condanna, che può servire a danneggiare la Chiesa. Ma in fondo il laicista vede in quel tipo di prete l’uomo moderno libero da pregiudizi medioevali e il vero maschio.

Ma, ovviamente il prete, soprattutto se si tratta di pedofilia e sodomia, scandalizza i buoni cattolici, che pur ben conoscono le miserie umane e sono pronti a compatire. In ogni caso, per rimediare allo scandalo e riconfortare gli animi, tentati di perdere la fiducia nella Chiesa, occorrerebbe che il Papa non si limitasse a dire che il fenomeno lo «preoccupa», parlando genericamente di «clericalismo», ma che ne precisasse piuttosto la causa specifica e diretta, che è la lussuria.

I rimedi alla corruzione sessuale del clero

Occorrerà altresì riorganizzare la formazione del clero con la proposta di chiari e persuasivi esempi e modelli di vita[3], con insegnanti ed educatori fedeli al Magistero, di integra condotta e capaci di confutare quelle eresie in campo morale, che in qualche modo giustificano la corruzione sessuale sotto colore di «affettività», «libertà», «creatività», «diversità» e trucchi del genere.

Questa sarà la «svolta epocale», alla quale sembrano aver alluso in recenti discorsi  i Cardd.Bassetti e Parolin, come compito del pontificato di Papa Francesco, nella linea di quella «nuova Pentecoste», che fu auspicata da S.Giovanni XXIII come effetto della riforma conciliare.

Continua il Papa: “Quando c’è clericalismo, ‘aristocraticismo’, ‘elitarismo’, non c’è il popolo di Dio, che è quello, in definitiva, che ti dà una collocazione. Il religioso clericale invece non è inserito. E il clericalismo è l’opposto dell’inserimento”.

L’aristocraticismo estranea il clericale dal popolo di Dio, privandolo della comunione spirituale e fraterna, che in esso si realizza. Tuttavia, occorre ricordare che ciò a cui il sacerdote, il vescovo e il Papa stesso, per evitare il clericalismo, devono attingere forza soprattutto dall’unione affettuosa con Cristo sommo Sacerdote nella celebrazione del sacrificio eucaristico.

E’ certo la Chiesa, che è il popolo di Dio, che dà al sacerdote e allo stesso vescovo una collocazione nella Chiesa. Ma radicalmente il sacerdote, il vescovo e il Papa stesso ricevono la loro collocazione nel popolo di Dio da Dio stesso. È Dio in Cristo che manda gli apostoli agli uomini, per formare il popolo di Dio e convocarlo attorno all’altare del Signore.

Il clericale, invece, con la sua «puzza sotto il naso», non ascolta la Chiesa nella sua gerarchia, ma in qualche modo si ritiene gnosticamente al di sopra della Chiesa, come se non ne avesse bisogno e fosse da essa indipendente.

Tuttavia, per evitare il clericalismo, il sacerdote e il vescovo devono stare uniti a Dio in Cristo, devono essere uniti al Papa, più che alla Chiesa, che da Cristo dipende e su cui si fonda. Essi devono badare a non essere segregati da Dio e dal Papa più che dal popolo. Devono essere sì inseriti nel popolo, ma in forza del mandato apostolico divino, e non perchè eletti dal popolo.

Non sono i preti che devono far riferimento al popolo, sia pure il popolo di Dio, ma è il popolo che deve far riferimento a loro in Dio. Non sono loro a non doversi separare dal popolo, ma è il popolo che non deve separarsi da loro. La loro azione sacerdotale o episcopale non dev’essere anzitutto gradita al popolo, ma a Cristo, in obbedienza al Papa, anche a costo di essere sgraditi al popolo, com’è capitato ai profeti e a Cristo stesso. Altrimenti si rischia di dar corda al  populismo e all’Iglesia populardella teologia della liberazione. Il problema dell’unità della Chiesa più che essere quello della gerarchia che si separa dal popolo, è che il popolo si separi dalla gerarchia e dal Papa, e non li segua.

Può accadere che qualche cattivo vescovo si isoli da laici cattolici ferventi e convinti. È chiaro che egli, come vescovo, se è in comunione col Papa, resta sempre, se non altro canonicamente, anche per loro il punto di riferimento ecclesiale. Tuttavia, un vescovo tiepido, accentratore o modernista, cioè clericale, può esser inserito nella Chiesa e in comunione col Papa meno di quei laici fervorosi e convinti.

Queste cose, il Papa, a mio giudizio, dovrebbe dircele, benchè siano sottintese in quelle che ha detto, giacchè è chiaro che il popolo di Dio non è un semplice  popolo qualsiasi, come se fosse in gioco un semplice regime democratico, ma è il popolo che ha Dio per Signore, il popolo che Dio si è scelto, e i cui capi, ossia, la gerarchia, non è scelta dal popolo, ma da Dio in Cristo. Per evitare il clericalismo bisogna dunque essere inseriti in questo popolo, a patto che esso sia a sua volta inserito nel cammino della salvezza sotto la guida di buoni pastori.


[1] N.Tommaseo-B.Bellini, Dizionario della lingua italiana,I, II, Torino 1867, p.1454.

[2] Summa Theologiae, I-II, q.90, a.3.

[3] Mi domando che idea è stata quella di far presiedere nell’ottobre scorso al noto modernista Enzo Bianchi un incontro internazionale di sacerdoti ad Ars, patria di quello splendido modello di sacerdote che fu S.Giovanni Maria Vianney, che fu proposto appunto come modello di sacerdote da Papa Benedetto per l’Anno Sacerdotale del 2009. Tutto ciò ha il sapore di una beffa ai danni della memoria del Santo Curato d’Ars e di una grave offesa a Papa Benedetto.

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