Ambiguità di Kant

sc-27Bisogna riconoscere a Immanuel Kant (1724-1804) una sua grandezza filosofica innegabile, che si esprime anzitutto nelle sue opere magistrali Critica della ragion pura (1781), Critica della ragion pratica (1788) e Critica del giudizio (1790).

La grandezza di cui sopra significa apprezzare lo sforzo metodico e in tal senso scientifico dell’Autore nel risolvere o almeno di abbordare i grandi e perenni quesiti filosofici di fondo. E l’evidente amore alla ricerca, al sapere, alla scienza. Senza voler per forza di cose accettare tutti i presupposti e tutte le conseguenze del kantismo, soprattutto per quel che concerne l’etica kantiana e il suo rapporto contrastato e irrisolto, col mondo della religione e della teologia.

Nell’Ottocento il kantismo sfondò e sembrò essere l’inizio di un nuovo inizio del pensiero filosofico, proprio come si può parlare, fatte le debite proporzioni, di svolta galileiana o copernicana nella scienza e nella ricerca della verità.

Michele Federico Sciacca scrive in tal senso che Kant “è unanimemente considerato il più grande pensatore dell’età moderna, anzi con lui si fa cominciare una nuova epoca della filosofia” (Enciclopedia Cattolica, vol. VII, col. 640).

Se per molti anni da parte cattolica ci fu una ferma opposizione al kantismo – di cui il più celebre esempio sta nel libro “Il veleno kantiano” di padre Mattiussi (uscito nel 1907) – già da prima del Vaticano II il tono si è fatto più sobrio, e la critica più misurata e quindi più efficace.

In questo spirito, critico e costruttivo insieme, mons. Antonio Livi ha riunito una scelta di filosofi cattolici contemporanei, i quali fanno il punto sulla critica al kantismo dal punto di vista epistemologico, e per correlazione anche logico e metafisico (cf. Concetto Baronessa et alii, La critica kantiana della “ragione pura” e la metafisica, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma, 2018, pp. 130, € 20).

La cosa più significativa dell’articolato saggio è la sua autonomia – che qui è sinonimo di ortodossia – rispetto ad una teologia cattolica contemporanea che pare in larghissima parte aver perso la bussola e che quindi può essere definita a volte come kantiana, spesso come hegeliana, se non addirittura heideggeriana o perfino vattimiana!

Concetto Baronessa, curatore del prezioso saggio, si occupa dell’analisi delle aporie teoretiche delle Prefazioni (Vorrede) della prima e della seconda edizione della Critica della ragion pura (1781, 1787). L’Autore denota il paradosso logico del noumenon di Kant che se è assolutamente inconoscibile per un verso, come insegna la gnoseologia kantiana, d’altro canto è conosciuto come causa del fenomeno e quindi volens nolens come ente in sé, sovrasensibile. “La metafisica di Kant è dunque una contraddizione illusoria perché è illusorio pretendere che noi possiamo attingere conoscitivamente qualcosa che travalichi e trascenda ciò che possiamo apprendere mediante le nostre esperienze” (p. 67). Postulare l’esistenza del noumeno, vuol dire già averne qualche conoscenza e quindi, mediante l’astrazione e l’analogia entis, poter arrivare alla cosa in sé e all’universale.

Fabrizio Renzi spiega che, contrariamente ai postulati kantiani, “Non c’è estraneità tra pensiero e realtà, ma affinità (…). Non c’è, pertanto, nessuno steccato tra l’oggetto pensato e l’oggetto reale” (p. 111). L’errore nella conoscenza è possibile perché siamo esseri fragili, e non possiamo fotografare la realtà come fossimo angeli, ma procediamo per tappe, raziocinando, dividendo, associando e scomponendo. Nessuno sa tutto ma tutti sanno qualcosa: questa è la gradualità verticale che il vertice ha apposto alla natura ed è bene che sia così. Resta il fatto che il pensiero e l’attività razionale-conoscitiva sono cose assolutamente normali per l’essere umano, e tutti possono arrivare a conoscere con certezza le verità fondamentali della vita, come quelle del senso comune e quelle annesse. Anche ignorando tutto delle 3 Critiche kantiane.

Ancora più interessanti ci sono parsi gli studi del domenicano Giovanni Cavalcoli e del filosofo Livi. Il Cavalcoli, da perfetto conoscitore della gnoseologia e dell’epistemologia tomista, espone il dna della metafisica perenne: “Per la metafisica classica, la ragione umana [ciò su cui ha più insistito il filosofo di Königsberg] è quella facoltà dell’anima, per la quale l’intelletto, partendo da princìpi primi di per sé evidenti, mette ordine nei giudizi in modo da procedere con sicurezza e senza errore nella ricerca e nella dimostrazione della verità” (p. 73).

Alla luce di questa visione ‘naturale’ direi della ricerca filosofica, Cavalcoli snocciola da par suo gli errori di Kant quanto alla conoscenza della realtà. Per Kant l’universale e il necessario esistono e non solo il particolare e il contingente (contro Hume e gli scettici posteriori), ma in qualche modo il particolare nasconde, piuttosto che rivelare l’universale. Se è vero, che “l’universale astratto è solo nella mente” (p. 77), esiste un “universale concreto” che sta fuori di essa, e riposa nella realtà. L’uomo assoluto non si dà, ma questo uomo qui ha realmente la stessa umanità degli altri uomini esistenti.

Secondo il domenicano il filosofo prussiano ha il merito di riprendere, se non la formula della adaequatio rei et intellectus di san Tommaso, almeno il concetto, quando scrive che “La coincidenza della conoscenza con l’oggetto è la verità” (cf. p. 77). Nondimeno rimane un’ombra di soggettivismo in Kant per il ruolo esorbitante che egli attribuisce alle categorie mentali nel percorso di ricerca del vero. Kant infatti, “Non ha mai capito a fondo la nozione metafisica di causalità (…). Se Kant avesse riflettuto su ciò, sarebbe senz’altro giunto alla scoperta dell’esistenza di Dio” (p. 80). Non però al Dio utile della ragion pratica, che in fondo è riducibile al Dio moralista dei deisti e dei teisti, ma al Dio Creatore e Origine dell’universo postulato dal pensiero forte e cattolico.

Ancor più radicale è la critica che mons. Livi propone all’epistemologia kantiana, notando che Kant ignora completamente la problematica, peraltro già nota ai suoi tempi, dei criteri-assiomi del senso comune (si pensi alle definizioni di Claude Buffier e di Thomas Reid).

In assenza del riconoscimento delle verità del senso comune (come l’esistenza delle cose, di noi stessi e di altri esseri ragionevoli, e quindi di Dio), ogni presunta dimostrazione filosofica va in tilt e diventa una circolarità indefinita e senza fondamento. Infatti, il metodo filosofico di Kant, senza rendersene conto, “assume implicitamente alcune essenziali nozioni metafisiche [classiche] delle quali non intende riconoscere la validità” intrinseca, cioè universale (p. 95). Ma allora mentre sembra voler superare i presupposti del pensiero metafisico classico, dà per scontata l’assiologia tradizionale, creando una logica-illogica, che sa più di ideologia razionalista che di scienza dai chiari e riconoscibili connotati.

Livi dimostra in pagine a volte ostiche ma sempre sapienti che senza la nozione filosofica del senso comune, come lui l’ha ri-proposta nel XX e XXI secolo, ogni discorso che si pretende filosofico rischia di divenire un vaniloquio. Se non si ammettono delle prime verità di base “la cui consistenza non dipende dalla dimostrazione scientifica” (p. 96, corsivo mio), si cade nella retorica e nell’auto-referenzialità. E anche se si fosse kantianamente attentissimi alla logica formale, si mancherebbe alla logica materiale del discorso. Magnifici i fraseggi dei filosofi moderni e contemporanei, si pensi a Hume o a Martin Heidegger, che hanno il sapore del vuoto e dell’abisso.

La verità di un giudizio, che per Livi è sempre soggettiva quanto all’origine e oggettiva quanto al referente extra-mentale, deriva dalla congruenza del pensiero con la res, che si percepisce anzitutto attraverso i sensi e poi per astrazione con l’intelletto. Per Kant invece la verità sembra diventare la coerenza del detto con il pensato, o del pensato con le leggi interne del pensiero: ma qui si scade in un solipsismo torbido che allontana dalla contemplazione del cielo stellato fuori di sé, più di quanto non si creda…

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