Breve biografia di Albino Luciani (Giovanni Paolo I)

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Si è cominciato a parlare in questi tempi di Albino Luciani, di cui ricorrono l’anno prossimo i 40 anni dalla morte. Luciani è stato una meteora: solo 33 giorni di pontificato, che sono rimasti però nel cuore di molti.

Per due motivi: per la sua evidente e innata simpatia e bonarietà e per le circostanze in parte misteriose della sua morte.

Cosa intendeva fare, quell’uomo venuto dal Veneto, per la Chiesa universale? Chi non gli lasciò il tempo di farlo? Il buon Dio, o gli uomini?

La morte

L’idea che Luciani sia stato ucciso non è soltanto una boutade giornalistica. Non è solo l’ipotesi di David Yallop e del suo best seller da 4 milioni di copie,

Ci hanno creduto, più o meno, anche molti uomini di Chiesa, molti fedeli e persino dei cardinali.

Giacomo Biffi, per esempio, in Memorie e disgressioni di un cardinale italiano, ricorda anzitutto che Luciani non era il personaggio mellifluo che spesso ci hanno descritto. Buono sì, ma anche forte. Scrive Biffi: “Era un solido uomo di governo che non temeva di prendere decisioni coraggiose e non era di quelli che lasciano correre. Purtroppo non ha avuto il tempo di dimostrarlo...”.

A questo punto l’ex cardinale di Bologna ricorda che Luciani fu l’unico vescovo italiano a prendere provvedimenti contro la Fuci, che si era schiarata per il divorzio. Poi, descrivendo la morte di Luciani, Biffi non si espone, ma sembra lasciare intendere di avere qualche sospetto. Ricorda infatti che il cardinale di Milano, Colombo, ricevuta la notizia della morte del papa, ebbe a confidargli: “Ma se gli ho parlato ieri sera!… Nulla poteva far presagire questa immane sciagura… Giovanni Paolo I mi parlava personalmente e a lungo con tono normalissimo, dal quale non traspariva nessuna stanchezza e nel quale non era possibile arguire qualsiasi malore fisico“.

Biffi ci tiene dunque a ricordare, con molta cautela, ma quasi facendole sue, le perplessità e lo stupore del cardinale Colombo. Al quale, come ricordava Marco Tosatti su La stampa parecchi anni orsono, intervistando don Giovanni Gennari, Luciani aveva esposto alcune sue idee di governo piuttosto chiare: Luciani voleva rimuovere dei prelati progressisti come il segretario di Stato Jean Villot, Ugo Poletti e Agostino Casaroli, e dare più spazio a personalità di “conservatori” come il cardinal Pericle Felici, grande ammiratore di san Pio X e il cardinal Giovanni Benelli. Non è forse un caso che tutte le ricostruzioni che portano avanti dei sospetti sulla morte di Luciani, tirino in ballo proprio Villot, e, con lui, Paul Marcinkus.

Ior e massoneria

Eh sì, perchè un’altra idea che Luciani aveva di sicuro era proprio la radicale riforma dello Ior. Infatti, come ricorda lo storico Pietro Melograni in Dieci perchè sulla Repubblica, conosceva i rapporti tra lo Ior, Marcinkus, Sindona e Calvi, ed aveva avuto modo di scontrarsi con questo grumo di potere quando era patriarca, causa l’acquisto, da parte di Calvi e ad insaputa del clero veneto, della Banca Cattolica del Veneto.

Luciani era un uomo del popolo, e in quegli anni in cui il marxismo faceva presa anche tra i cattolici, riteneva che l’amore per la povertà e per i poveri della Chiesa di Cristo non poteva continuare ad essere oscurato dalle malefatte della banca vaticana. Verrebbe da dire, andando un po’ oltre con la fantasia, che se Luciani non ce la fece, con lo Ior, perchè morì prima, neppure Benedetto XVI ha avuto successo: pur avendo chiamato un banchiere cattolico integerrimo come Ettore Gotti Tedeschi, deciso a rompere con il passato, si è visto tradito dal suo segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e ha assitito impotente al defenestramento di colui al quale si era rivolto, quasi in concomitanza con la sua abdicazione! E del resto, da allora allo Ior non è successo nulla di veramente decisivo…

Tornando a Luciani, alcuni anni fa Aldo Maria Valli, nel suo Il forziere dei papi. Storia, volti, misteri dello IOR, rammentava una frase del cardinale brasiliano Aloisio Lorscheider: “Lo dico con dolore, il sospetto rimane nel cuore, è come un’ombra amara, un interrogativo a cui non si è data piena risposta”.

Un sospetto che non è mai sparito del tutto, se Giovanni Vian conclude così la sua breve biografia di Giovanni Paolo I (Dizionario biografico degli Italiani, Treccani): “Giovanni Paolo I morì nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1978, quasi certamente per una patologia dell’apparato cardiocircolatorio, in circostanze che non sono state ancora completamente chiarite”.

Il mistero sulla morte di Luciani è amplificato da due fatti.

Il primo: è risaputo che egli aveva intenzione di fare chiarezza anche sui prelati iscritti alla massoneria. Due anni prima, esattamente il 12 settembre del 1976, la rivista OP (Osservatore Politico) del giornalista Mino Pecorelli, ucciso misteriosamente tre anni dopo, nel 1979, aveva infatti pubblicato una lista di “presunti prelati massoni”, tra i quali i già citati Villot e Poletti e il cardinale Sebastiano Baggio. Il dossier aveva fatto molto scalpore in Vaticano, e non è escluso che la decisione di allontanare Villot e Poletti, e di richiamare a Roma, al posto di Villot, quel cardinal Benelli cui Paolo VI aveva dato il compito di indagare proprio sui prelati massoni, fosse legata anche a questo. Quanto a Baggio, egli sarà, nei 33 giorni di pontificato di Luciani, uno suo strenuo e tenace oppositore.

Il secondo fatto che rende avvincente e misteriosa la morte di Luciani è il seguente: nel 1977, cioè 60 anni dopo le apparzioni di Fatima, Luciani incontrò suor Lucia. Secondo fonti attendibili, ne ricevette un avvertimeno: la Chiesa sarebbe passata attraverso una penosa apostasia, una immensa crisi.

Quindici anni dopo la morte del fratello papa, nell’agosto 1993, Edoardo Luciani, ebbe a confidare al settimanale cielino Il Sabato: “Io penso che il suo presagio di una morte repentina, da Papa, fosse legato ad un lungo colloquio che Albino ebbe con l’ unica veggente di Fatima ancora in vita. Incontrò suor Lucia l’ 11 luglio 1977, in Portogallo. Giusto un anno prima del Conclave da cui uscì papa. Mio fratello ne uscì sconvolto. Ogni volta che nel colloquio con noi ne faceva cenno, diventava pallido in volto. Come se un pensiero oscuro lo turbasse nel profondo. Tutti noi ne siamo rimasti sempre impressionati. Ora, a posteriori, mettendo insieme tutti gli accenni fatti da mio fratello in vari colloqui, è tutto chiaro. Quel giorno la veggente gli disse qualche cosa che riguardava non solo la Chiesa, ma anche la sua vita, il destino che Dio gli preparava. Potrei aggiungere altri particolari, ma preferisco tenerli per me, non so neanche perchè abbia confidato questi pensieri...”.

Morto di morte naturale (tesi forse più probabile); ucciso da qualcuno che voleva fermarlo; oppure semplicemente schiacciato dalle sue infermità, dalle responsabilità, e dall’opposizione sorda, anch’essa testimoniata da innumerevoli fonti attendibili (si veda Benny Lay nel suo Il mio Vaticano), che gli fu opposta subito dopo l’elezione da alcuni potenti curiali che temevano la svolta?

Quasi impossibile saperlo, ma questo non impedisce di approfondire cosa pensasse davvero Luciani del suo tempo e della Chiesa del suo tempo, al di là delle ricostruzioni di comodo. E cosa pensasse, per esempio, dell’enciclica tanto dibattuta, Humanae vitae, uscita proprio dieci anni prima della sua elezione. Lo vedremo in una prossima puntata, ricorrendo agli scritti dello stesso Luciani e ad alcuni testimoni ancora viventi.

Pope John Paul I stands at the balcony of St-Peter Basilica on August 27, 1978 during his inauguration mass, at the Vatican. (Photo credit should read -/AFP/Getty Images)
Pope John Paul I stands at the balcony of St-Peter Basilica on August 27, 1978 during his inauguration mass

Luciani e Humanae vitae

Siamo nel 1968, l’anno in cui esce l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI, che sarà il suo calvario e romperà definitivamente la possibilità per la Chiesa di annullarsi nel mondo. Molti cardinali, interi episcopati del nord Europa attaccano Montini, reo di aver detto un no deciso alla rivoluzione dei costumi allora imperante; un no deciso, per essere sintetici, alla pillola anticoncezionale, vista come l’inizio della separazione tra sesso e procreazione, ma anche tra uomo e donna.

Oggi, mentre assistiamo all’incalzare della fecondazione artificiale o dell’utero in affitto, che proseguono in questa scissione di ciò che in natura è strettamente connesso, l’enciclica Humanae vitae dovrebbe essere rilanciata e spiegata, perchè non perde affatto la sua validità, e perchè è stata confermata da tutti i papi successivi. Invece assistiamo, 50 anni dopo, ad un tentativo di rimetterla in discussione, all’interno della Chiesa. Alcuni commentatori, come Andrea Tornielli, per suffragare tale tesi, chiamano in causa proprio Albino Luciani, sostenendo che l’allora patriarca di Venezia, prima dell’enciclica di Montini, fosse favorevole alla pillola.

Ma le cose stanno proprio così?

Monsignor Gino Oliosi, esorcista ed ex penitenziere della diocesi Verona, docente di filosofia e teologia, autore di svariate pubblicazioni per l’editore Fede & Cultura, ha conosciuto bene Albino Luciani, con cui ha spesso collaborato. Ci racconta: “L’enciclica uscì in un momento in cui ero insieme ad Albino Luciani per un seminario. Ebbi il compito di leggerla e spiegarla. Mi buttai nell’impresa e sostenni una posizione che il futuro Giovanni Paolo I trovò corretta e sposò senza indugi. Tanto è vero che Luciani, subito dopo, incontrò personalmente tutti i sacerdoti della sua diocesi per spiegarla e farla accettare a chi non la avesse ancora compresa. La posizione è la seguente: l’enciclica di Montini esprime con intelligenza e fede profonda il pensiero della Chiesa, per il quale da una parte è impossibile separare ciò che Dio stesso ha unito, senza svilire e corrompere la sessualità umana; dall’altra, tenendo insieme oggettivo e soggettivo, occorre essere sempre pronti a sostenere e ad accogliere chi, avendo sbagliato, cerca di rialzarsi. La morale cattolica, infatti, non è la morale kantiana, ma esprime una tensione, umana e perciò fragile, verso il bene. In fondo è lo stesso ragionamento che la chiesa ha sempre fatto, anche per la castità prematrimoniale: infrangerla costituisce peccato, ma perdonabile nella misura in cui vi sia il tentativo di rialzarsi. Lo stesso, ancora, si deve dire del rapporto tra due persone che, dopo un matrimonio fallito, stanno insieme: Giovanni Paolo II ricordava che devono vivere non more uxorio, ma more sororio, perchè il matrimonio cattolico è indissolubile. Certamente può capitare che nel loro sforzo di vivere castamente, cadano: l’importante è che si sforzino di non ricadere. Non possiamo, invece, rendere buono e giusto, accettabile di per sè, ciò che non lo è mai, e che la Chiesa e la Bibbia chiamano adulterio“.

Questa posizione, in cui oggettivo e soggettivo non sono in conflitto, verrà sempre ribadita, anche nel Vademecum per i confessori su alcuni punti di morale attinenti alla vita coniugale, a cura del Pontificio Consiglio per la Famiglia del 12 febbraio 1997. Vi si legge infatti al punto 2.4: “La Chiesa ha sempre insegnato l’intrinseca malizia della contraccezione, cioè di ogni atto coniugale reso intenzionalmente infecondo. Questo insegnamento è da ritenere come dottrina definitiva ed irriformabile. La contraccezione si oppone gravemente alla castità matrimoniale, è contraria al bene della trasmissione della vita (aspetto procreativo del matrimonio), e alla donazione reciproca dei coniugi (aspetto unitivo del matrimonio), ferisce il vero amore e nega il ruolo sovrano di Dio nella trasmissione della vita umana”.

Mentre al 3.5: “Il confessore è tenuto ad ammonire i penitenti circa le trasgressioni in sé gravi della legge di Dio e far sì che desiderino l’assoluzione e il perdono del Signore con il proposito di rivedere e correggere la loro condotta. Comunque la recidiva nei peccati di contraccezione non è in se stessa motivo per negare l’assoluzione; questa non si può impartire se mancano il sufficiente pentimento o il proposito di non ricadere in peccato”.

Ma torniamo ad Albino Luciani. La testimonianza di mons. Gino Oliosi riguardo al patriarca di Venezia e al suo rapporto con Humanae vitae è confermata dai suoi scritti e dal più imponente studio sul tema, I veleni della contraccezione (ESD), a cura del medico e bioeticista Renzo Puccetti.

In quest’opera imprescindibile si analizza, grazie ad una bibliografia sterminata, sia il dibattito interno alla Chiesa che portò ad Humanae vitae, sia la validità scientifica, oggi ancora più evidente di ieri, dell’encliclica stessa.

Ebbene, proprio a riguardo di Luciani, Puccetti ricorda un passaggio della sua omelia in occasione della Messa in suffragio di Paolo VI, il 9 agosto 1978, pochi giorni prima della sua elezione al soglio di Pietro, nella Basilica di san Marco.

Rievocando il papa defunto, Luciani affermava:

La fede da conservare e da difendere fu il primo punto del suo programma. Nel discorso dell’incoronazione, il 30 giugno 1963, aveva dichiarato: «Difenderemo la santa Chiesa dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano l’integrità e ne velano la bellezza». San Paolo aveva scritto ai Galati: «Se un angelo del cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema» (Gal 1, 8). Angeli, ai nostri giorni, possono venire considerati la cultura, la modernità, l’aggiornamento, tutte cose cui teneva moltissimo papa Paolo. Ma quando esse gli parvero contrarie al Vangelo e alla sua dottrina, egli disse no inflessibilmente. Basti accennare alla Humanae vitae, al suo “Credo”, alla posizione da lui presa circa il catechismo olandese, alla chiara affermazione sull’esistenza del diavolo. Qualcuno ha detto che l’Humanae vitae è stata un suicidio per Paolo VI, il crollo della sua popolarità e l’inizio di critiche feroci. Sì, in un certo senso, ma egli l’aveva previsto e, sempre con san Paolo, s’era detto: «… È forse il favore degli uomini che intendo guadagnarmi, o non piuttosto quello di Dio?… Se ancora io piacessi agli uomini, non sarei più servitore di Cristo» (Gal 1, 10).

San Paolo aveva anche detto di sé: «Sono stato crocifisso con Cristo» (Gal 2, 20). Paolo VI confidò: «Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio [pontificale] non già perché io abbia qualche attitudine o io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra qualche cosa per la Chiesa, e sia chiaro che egli, non altri, la guida e la salva». Ha anche detto: «Il Papa ha le pene, che gli provengono anzitutto dalla propria insufficienza umana, la quale ad ogni istante si trova di fronte e quasi in conflitto con il peso enorme e smisurato dei suoi doveri e della sua responsabilità». Ciò arriva talvolta sino all’agonia”.

Non bisogna dimenticare, per capire Luciani, che egli era anzitutto un catechista, e che riteneva che la “dottrina” non fosse un vecchio arnese passato di moda da sostituire con una pastorale proteiforme e nebulosa, ma fosse, al contrario, l’origine e il fine della pastorale stessa. In questo si trovò sempre in grande conflitto con un pensiero, così ben analizzato da Stefano Fontana nel suo La nuova chiesa di Karl Rahner (Fede & Cultura) allora sempre più pervasivo: quello, appunto, del gesuita Karl Rahner. Su questo argomento torneremo nella prossima puntata.

Luciani e i Gesuiti: un forte scontro

Divenendo papa, Luciani sapeva benissimo che avrebbe dovuto prendere sulle spalle una croce molto pesante. Si presentò subito al popolo di Dio come egli era: un insegnante di catechismo per fanciulli ed un pastore. Per Luciani non vi era alcuna difficoltà a tenere insieme le due cose: il pastore non vuole che nessuna delle sue pecore vada dispersa, per questo è pronto ad indicare ad ognuna, con tutto l’amore e la pazienza possibili, la retta via dell’ovile.

Uno dei suoi pochi testi rimasti si intitola Catechetica in briciole, e contiene riflessioni come questa: Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio… Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano”.

Per Luciani il catechismo ha anche il grande merito di mettere nel cuore il senso del peccato, il rimorso: “il rimorso non lascerà loro aver pace nel peccato e presto tardi li ricondurrà al bene”. In questo era del tutto fedele alla Tradizione della Chiesa, che lungi dal separare verità e amore, carità e giustizia, misericordia e castigo, tiene insieme queste realtà inscindibili. All’inizio d’anno del seminario, il 20 settembre 1977, Luciani si era rivolto così ai suoi giovani: “Vi raccomando invece l’amore alla Tradizione: non siate di coloro che, abbagliati e accecati, più che illuminati, da qualche lampo, pensano che ora soltanto è nato il sole e vogliono tutto rovesciare e cambiare.

Nei 33 giorni di pontificato Giovanni Paolo I si trovò di fronte a grandi difficoltà. Aveva intenzione, come si è già visto, di rinnovare la Curia, di riformare lo Ior e di affrontare il dossier spinoso dei prelati iscritti alla massoneria.

La lista dei 121 massoni stilata da Mino Pecorelli proprio nel 1978 conteneva non soltanto il nome di Paul Marcinkus, con cui Luciani aveva avuto a che discutere da patriarca di Venezia, ma anche quello di Donato De Bonis, braccio destro di Marcinkus, sul cui operato criminoso si è fatto luce soltanto pochi anni orsono, e i gesuiti Roberto Tucci, direttore della Radio Vaticana, Virgilio Levi, vicedirettore de L’Osservatorio Romano e Giovanni Caprile, firma insigne della Civiltà cattolica.

Che fossero davvero massoni, Luciani certamente non lo sapeva, ma tutto fa pensare che avrebbe voluto andare a fondo della questione.

Era convinto, infatti, che le idee rivoluzionarie che attecchivano tra i gesuiti, soprattutto i giovani, spesso sprezzanti vesrso la Tradizione e la Dottrina, rappresentassero un grosso problema per la Chiesa. Anzitutto per le loro innovazioni in campo dottrinale, così ben esemplificate dall’opera del gesuita Karl Ranher, non certo un amante del catechismo; in secondo luogo per i loro cedimenti in campo morale; infine, per la loro apertura al mondo, massoneria compresa.

Il vaticanista Benny Lay, ne Il mio Vaticano, ricorda spesso come la questione dei gesuiti fosse all’ordine del giorno anche all’epoca di Paolo VI.

Per esempio il 9 marzo 1970 Benny Lay scrive: “La nota con cui radio vaticana ha condannato le dichiarazioni di tre docenti gesuiti della Gregoriana a favore del divorzio è più severa del comunicato della Compagnia di Gesù…”; il 12 ottobre 1973, invece, Lay ricorda “il duro linguaggio, accompagnato da severi moniti, con cui Paolo VI si è rivolto ai gesuiti per la partecipazione della loro assemblea”; il 7 marzo 1974 nota che padre Tucci “ha risposto picche al cardinal Benelli” che gli chiedeva di partecipare ad una serie di conferenze per attivare i parroci romani contro il divorzio; il 27 febbraio del 1975 ricorda che “la maggioranza dell’assemblea dei gesuiti… ha bocciato la candidatura di padre Paolo Dezza, confessore di Montini”, cioè del papa.

Una questione che angustiava Montini, ed ancora di più Luciani (vedi ad esempio 30 Giorni, del 9 settembre 1993) era l’intenso dialogo aperto da alcuni gesuiti, tra cui il citato padre Caprile, con la massoneria.

Il vaticanista Ignazio Ingrao, nel suo documentatissimo Il concilio segreto (Piemme, 2013) dedica un paragrafo al tema. Il titolo è: “Una loggia dei gesuiti?

Ingrao ricorda appunto i sospetti su padre Tucci e padre Caprile, finiti anche nelle lista di prelati massoni pubblicata da Panorama, ma soprattutto i fatti certi: “Ciò che è invece storicamente accertato è l’impegno profuso dal gesuita Caprile e dal religioso paolino Esposito nel promuovere incontri bilaterali con i massoni subito dopo il concilio. Dal 1960 al 1979 si svolgono ben nove ‘conversazioni bilaterali’. Per due volte i massimi vertici della massoneria italiana varcano il portone della sede della Civiltà cattolica per incontrarsi con i gesuiti…”.

E’ certo che Luciani non vedeva di buon occhi tali incontri bilaterali, che riceveranno il definitivo stop, dopo la sua morte, grazie a due cardinali tedeschi, Joseph Stimpfle e Joseph Ratzinger (vedi: http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/7167.html).

Fatto sta che nei suoi 33 giorni di pontificato non riuscì a fare chiarezza e pulizia, nè compiere molti atti di governo, nè a scrivere che poche lettere, molto brevi e per lo più di circostanza.

L’unica lettera lunga e approfondita è quella rivolta “Ai gesuiti”. Avrebbe dovuto leggerla e consegnararla il 30 settembre 1978, cioè due giorni dopo la morte, in occasione di una speciale udienza ai procuratori della Compagnia di Gesù convenuti a Roma da ogni parte del mondo.

Si tratta di un testo ricco in cui, a parte i saluti di rito, vi sono continui richiami e severi moniti.

Il papa cominciava così: “Ma poichè voi, in questi giorni dovete procedere ad un esame circa lo stato della Compagnia mediante una valutazione sincera, realistica e coraggiosa della situazione oggettiva, analizzando se necessario le deficienze, le lacune, le zone d’ombra, voglio affidare alla vostra responsabile meditazione alcuni punti, che mi stanno particolarmente a cuore”. Deficienze, lacune, zone d’ombra: come inizio, non è dei più lusinghieri. Voi, continuava il papa, “vi preoccupate dei grandi problemi economici e sociali che oggi travagliano l’umanità”, “ma nella soluzione di questi problemi sappiate sempre distinguere i compiti dei sacerdoti religiosi da quelli che sono propri dei laici. I sacerdoti devono ispirare e animare i laici all’adempimento dei loro doveri, ma non devono sostituirsi ad essi, trascurando il proprio compito specifico nell’azione evangelizzatrice“.

In parole povere, il papa richiamava i tanti gesuiti dediti affascinati dalle dottrine marxiste, dediti alla politica, alla sociologia, al sociale, più che a Cristo stesso, per poi radicare questo errore in un fatto: l’allontanamento dalla “solida dottrina”.

Bisogna qui ricordare che il nome scelto da Luciani, Giovanni Paolo I, era anche in onore di san Paolo, colui che aveva scritto, nella II lettera a Timoteo: “ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero“.

Se nel passo di Paolo la parola “dottrina” ritorna ben due volte, affiancata, in un caso, dall’aggettivo “sana”, nel prosièguo del discorso di Giovanni Paolo I ai gesuiti la sottolineatura è ancora maggiore, l’insistenza quasi imbarazzante. Il papa ripete piùe più volte una parola che molti gesuiti non vogliono più sentire.

Egli infatti ricorda che “Sant’Ignazio esige dai suoi figli una soda dottrina“; raccomanda, tre righe sotto, di essere fedeli ad una “dottrina solida e sicura, pienamente conforme all’insegnamento della Chiesa”; invita poi a “non permettere che insegnamenti e pubblicazioni di gesuiti abbiano a causare confusione e disorientamento in mezzo ai fedeli”, e aggiunge: “ricordatevi che la missione affidatavi dal vicario di Cristo è di annunciare, in maniera bensì adatta alla mentalità di oggi, ma nella sua integrità e purezza, il messaggio cristiano, contenuto nel deposito della rivelazione”.

Il concetto non è abbastanza esplicito e forte? Luciani lo ripete ancora, invitando i gesuiti a formare i giovani con “una dottrina solida e sicura” perchè chi frequenta le loro scuole lo fa “per la sodezza e sicurezza di dottrina che sperano di attingervi”.

Ma non è finita. Il papa continua: “Non lasciate cadere queste lodevoli tradizioni (legate ad una severa disciplina religiosa, ndr); non permettete che tendenze secolarizzatrici abbiano a penetrare e turbare le vostre comunità”, perchè “il doveroso contatto apostolico col mondo non significa assimilazione al mondo, anzi esige quella differenziazione che salvaguardia l’identità dell’apostolo, in modo che veramente sia sale della terra e lievito capace di far fermentare la massa”.

Giovanni Paolo I, come si è detto, morirà prima di pronunciare questo discorso.

Ma un anno dopo, il 21 settembre 1979, Giovanni Paolo II, che avrà sempre un rapporto molto conflittuale con i Gesuiti, forse riecceggiuando il discorso del suo predecessore, ripeterà loro di dare al novizi una “formazione dottrinale con solidi studi filosofici e teologici secondo le direttive della Chiesa, e formazione apostolica indirizzata a quelle forme di apostolato che sono proprie della Compagnia, aperte sì alle nuove esigenze dei tempi, ma fedeli a quei valori tradizionali che hanno perenne efficacia“. Ancora una volta si trovano le due parole tanto invise: dottrina e tradizione.

Illustrissimi

Per farsi un’idea di cosa pensasse davvero papa Luciani su tante questioni è utile rispolverare un suo libretto, intitolato Illustrissimi, edito per la I volta nel 1976, ma corretto per una nuova edizione, da Luciani stesso, poco prima di morire. Illustrissimi sono i personaggi celebri con cui l’allora patriarca di Venezia immagina di dialogare: san Bonaventura e san Francesco di Sales, Alessandro Manzoni e Guglielmo Marconi, Gilbert Chesterton e Mark Twain

Questo dialogare produce, come scrive Igino Giordani nella prefazione, una “apologetica potente, se pur bonaria, senza sottintesi e senza ampollose citazioni culturali, ricca di episodi della vicenda quotidiana”, attraverso cui Luciani mostra ad ogni passo di amare gli uomini e le donne del suo tempo, ma anche di sfidare senza paura pregiudizi ed errori della cultura contemporanea. Ragionando amorevolmente con i suoi interlocutori, un po’ come avrebbe fatto decenni dopo il cardinal Giacomo Biffi, Luciani discerne di continuo tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra ciò che viene da Dio e ciò che viene dal diavolo.

Sì, perchè il diavolo torna spesso nei suoi ragionamenti, per mettere in guardia da coloro che lo vedono dovunque, ma anche dalla “più riuscita beffa del diavolo”, quella di “far credere agli uomini che egli non esiste”. Luciani crede di vivere in un’epoca caratterizzata da “un tremendo vuoto morale e religioso”, in cui “gli adùlteri, i sadici, gli omosessuali dagli psicologi del profondo sono praticamente quasi sempre scusati…“.

Chiacchierando con san Luca, in un brano intitolato Proibito proibire, scrive: “tutta una letteratura pare avere per parola d’ordine: ‘dagli al padre’ e rende il padre responsabile di quasi tutto. Un’altra letteratura, propagandando una liberalizzazione completa da ogni legge, chiede contraccezione senza freni, aborto a piacimento della madre, divorzio a volontà, relazioni prematrimoniali, omosessualità, uso di stupefacenti”.

Poche righe più sotto, accennando ad una certa retorica sui poveri in auge nella Chiesa, afferma: “è bene avere scelto la causa dei poveri, degli emarginati, del Terzo Mondo. Attento però, con la scusa dei poveri lontani, a non trascurare i poveri vicini… Sei per la grande causa della pace. Benissimo, ma attento che non si verifichino le parole di Geremia profeta: ‘Van dicendo: pace pace, ma di pace non c’è neanche l’ombra’. La pace infatti costa: non si fa a parole, ma con sacrifici e rinunce amorose da parte di tutti. Non è neppure possibile ottenerla solo con sforzi umani: occorre l’intervento di Dio“.

Qua e là, con bonomia e cordialità, Luciani lancia frecciate non tanto verso il mondo ateo, quanto contro quei cattolici che vogliono aggiornare di continuo il deposito della fede, ignorando che “Cristo è il medesimo ieri, oggi e per i secoli” e che quelle che per il mondo sono “idee vecchie e sorpassate, sono spesso idee di Dio, delle quali è scritto che non passerà neppure una virgola!“.

Così Luciani mette in guardia i teologi che si accostano troppo al marxismo, trasformando Cristo in una sorta di sindacalista e di rivoluzionario; i credenti che fanno sempre la comunione, ma trascurano la confessione; gli ecumenisti che dimenticano che “la fede non è pluralista” e che esiste una sola Verità. Critica coloro che ripetono come pappagalli pensieri alla moda, in nome dell’aggiornamento e del “dialogo”, e che in nome delle novità smantellano “allegramente tutto l’edificio passato”, mettendo in soffitta “quadri, statue” e la sacralità dei riti…

Spesso, per concludere, Luciani torna su un argomento: la crisi in cui versa la società gli sembra eclatante nel campo della morale. In nome della libertà, del femminismo, della “promozione” della donna, afferma, si gonfiano i numeri degli aborti clandestini, si propaganda l’aborto legale, nonostante esso sia “un trauma per la salute della donna, per i parti e i figli successivi”; nonostante “psicologi e psichiatri segnalino altre cattive conseguenze” che “sonnecchiano nel subconscio della donna che ha abortito, ma riemergono in seguito in tempo di crisi“; nonostante l’aborto liberi non la donna, ma il suo “partner, marito o no, da noie e seccature, permettendogli di dare corso ai suoi desideri sessuali senza assumere i relativi doveri“.

(buona parte di questo breve saggio è comparsa, a puntate, su La Nuova Bussola quotidiana)

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Autore: Francesco Agnoli

Laureato in Lettere classiche, insegna Filosofia e Storia presso i Licei di Trento, Storia della stampa e dell’editoria alla Trentino Art Academy. Collabora con UPRA, ateneo pontificio romano, sui temi della scienza. Scrive su Avvenire, Il Foglio, La Verità, l’Adige, Il Timone, La Nuova Bussola Quotidiano. Autore di numerosi saggi su storia, scienza e Fede, ha ricevuto nel 2013 il premio Una penna per la vita dalla facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, in collaborazione tra gli altri con la FNSI (Federazione Nazionale Stampa Italiana) e l’Ucsi (Unione Cattolica Stampa Italiana). Annovera interviste a scienziati come  Federico Faggin, Enrico Bombieri, Piero Benvenuti. Segnaliamo l’ultima pubblicazione: L’anima c’è e si vede. 18 prove che l’uomo non è solo materia, ED. Il Timone, 2023.

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