Simbolo della forza dell’apologetica in uno dei periodi più critici per la Chiesa

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di Silvio Brachetta.

San Roberto Bellarmino è un po’ il simbolo di ciò che possa fare l’apologetica, cioè la difesa argomentata della fede cattolica, durante uno dei tanti periodi critici della Chiesa. Periodo di crisi, il Rinascimento, ma tutt’altro che buio. In quei quasi ottant’anni – che corrispondono alla vita del Bellarmino – e che vanno dal 1542 al 1621 accaddero diverse cose notevoli, che avrebbero rappresentato l’inizio di quell’ampia rivoluzione altrimenti indicata con il termine di modernità. Tra il XVI e il XVII secolo morì Lutero, morì Calvino e Galilei riuscì a dimostrare qualcosa d’importante, che avrebbe potuto essere un guado tra passato e futuro, ma che invece si tramutò in rottura.
Molti gli attori su questo strano palcoscenico, in cui molto fu frainteso, spesso al di là delle intenzioni: da una parte gli scismatici, che confusero riforma e sovversione; dall’altra i pastori e i santi della Chiesa, che tentarono di arginare i danni causati dall’eresia e dallo scandalo protestante; in mezzo i nuovi filosofi e gli scienziati, che non seppero umanamente portare il peso di enormi intuizioni. A lato – troppo a lato – umanisti e chiusi aristotelici, i quali non trovarono né il modo, né la freschezza di far fruttare il patrimonio di pensiero che avevano ereditato da greci e romani.

Il gesuita militante

Benedetto XVI, nell’Udienza del 23 febbraio 2011, ci parla della vocazione peculiare del Bellarmino, non solo orientata allo studio e all’insegnamento della teologia, ma nettamente disposta alla sua difesa, almeno da quando gli fu affidata la cattedra romana di “Apologetica” nel decennio 1576-1586. A questo proposito dice Joseph Ratzinger: «Si era concluso da poco il Concilio di Trento e per la Chiesa Cattolica era necessario rinsaldare e confermare la propria identità anche rispetto alla Riforma protestante. L’azione del Bellarmino s’inserì in questo contesto». Da quest’esperienza il teologo trasse le sue Controversiae, che ebbero innumerevoli edizioni e segnarono l’apogeo della sua speculazione sistematica sulla dottrina della fede.
Alla competenza teologica non poterono non seguire importanti cariche e, perciò, «il Papa Clemente VIII lo nominò teologo pontificio, consultore del Sant’Uffizio e rettore del Collegio dei Penitenzieri della Basilica di san Pietro». È importante osservare che Bellarmino non si limitò ad esporre la verità, ma l’abbracciò e l’applicò nella propria vita. Questo fece di lui un santo e un precettore di altri santi, come quel San Luigi Gonzaga che incontrò e diresse al Collegio Romano.
Molti altri incarichi impegnarono il teologo sino alla fine dei suoi giorni: fu cardinale, predicatore, visitatore apostolico, inquisitore, diplomatico. Ma forse, innanzi tutto, fu visceralmente gesuita, sullo stile di Sant’Ignazio di Loyola, da quando diciottenne entrò nella Compagnia di Gesù. E lo stile ignaziano è, prima di ogni considerazione, impregnato di zelo militante e di amore fervoroso per il vero. La militanza per la verità, tra l’altro, lo portò a comporre il De ascensione mentis in Deum (Elevazione della mente a Dio), guarda caso «composto sullo schema dell’Itinerarium mentis in Deum di San Bonaventura», che parte dalle creature e giunge a Dio (alla verità) a posteriori. Anche San Tommaso, pure mediante la proposta delle cinque vie per giungere a Dio, aveva compreso l’importanza decisiva della speculazione a posteriori. S’intravvede qui la preclusione, secoli prima, della dottrina di Kant, convinto che l’unico percorso scientifico alla verità potesse avvenire solo a priori.
Canonizzato nel 1930 da Pio XI, Bellarmino fu, dallo stesso, proclamato Dottore della Chiesa nel 1931.

Galileo, suo malgrado, “tentò l’essenza”

Non c’è miglior modo di celebrare un autore se non di liberare il suo pensiero e di provare a metterlo a frutto, se non altro per evitare di fossilizzarne le dottrine. Le sentenze di un grande autore non servono per essere ripetute a pappagallo o imbalsamate, così come avvenne spesso nella vicenda storica del neo-aristotelismo rinascimentale o del neo-tomismo novecentesco. Il grande autore è un punto di partenza, non un punto d’approdo. Quanto a Bellarmino, gli toccò in sorte l’incontro-scontro con il genio di Galileo Galilei e vale ora la pena di approfondire un aspetto, relativo alla vicenda, finora ritenuto secondario.
È sorprendente – se non del tutto illogico – che la polemica tra Galileo e l’autorità religiosa del suo tempo si sia cristallizzata sul tema, tutto sommato secondario, della teoria eliocentrica copernicana condivisa dallo scienziato pisano. Il caso coinvolse un Galileo già anziano e condannato quando Bellarmino era già morto. Il contendere, semmai, avrebbe dovuto innescarsi molto prima e su tutt’altra materia: da quando, precisamente, un Galileo giovane ebbe a priori l’intuizione tremenda ed epocale attorno alla sostanza delle cose. Galileo dimostrò a posteriori questa sua intuizione – mediante l’esperimento e al modo che sarebbe piaciuto a Tommaso, Bonaventura e Bellarmino – secondo cui la quantità, il numero, l’ordine o la misura non sono accidenti, ma sono parte inseparabile della sostanza, dell’essenza delle cose. Dopo un millennio e mezzo, cioè, Aristotele veniva corretto da uno scienziato pisano, che spostava la quantità dall’elenco degli accidenti e la inseriva direttamente nell’essenza.
È sorprendente che nessuno ebbe una percezione chiara di ciò. Non Bellarmino, non gli aristotelici e nemmeno lo stesso Galileo, che ritenne un’«impresa impossibile» il «tentar l’essenza», ovvero speculare sul mondo al modo degli aristotelici, i quali si accontentavano di alcuni giudizi letti sui libri, invece di accedere alla realtà mediante l’esperimento sui fenomeni. Paradossalmente, quindi, Galileo fu anti-essenzialista e convinto fenomenologo, dopo essersi pronunciato genialmente, consapevole o meno, proprio sull’essenza.

L’Eucaristia sembra sconfessare la scienza

Cosa c’entra Bellarmino e la teologia in tutto questo? In che misura il gesuita e Galileo furono al servizio della verità? Ci fu qualcuno, in effetti, a cui non sfuggì la singolare relazione che Galileo poneva tra sostanza e accidenti. Si tratta del gesuita, matematico e architetto Orazio Grassi che, in un suo resoconto, scrive: Galileo «erra dicendo che non è possibile separare concettualmente dalle sostanze corporee gli accidenti che le modificano, come la quantità». Secondo il Grassi, «la quantità non soltanto si distingue realmente dalla sua sostanza, ma esiste anche separata da esse». Prova ne sarebbe l’Eucaristia: durante la transustanziazione l’intera sostanza del pane è sostituita dalla sostanza divina, ma restano gli accidenti del pane e del vino, che comprendono appunto il peso e la misura.
Grassi trae l’autorità di questi suoi giudizi direttamente dai canoni del Concilio di Trento e dalla dottrina di Roberto Bellarmino. Nel De sacramento Eucharistiae, Bellarmino conferma la transustanziazione. E spiega che quando Gesù dice «questo è il mio corpo», l’aggettivo dimostrativo «questo» designa proprio la sostanza. Il Dottore, però, specifiche che le specie eucaristiche che permangono – il bianco e tondo dell’ostia consacrata – non fanno parte della sostanza, ma «designano la quantità» che rimane. Sembrerebbe dunque che in nessun modo la quantità possa far parte della sostanza, nonostante Galileo e nonostante la chimica dei secoli successivi, che dimostra in modo efficacissimo l’intima struttura matematica delle cose. Come dunque risolvere la questione?

La sostanza è unione di quattro ragioni

La via d’uscita la offre lo stesso Bellarmino, nel già menzionato De ascensione mentis in Deum. È Aristotele stesso a dire che ogni effetto è il risultato di quattro cause. Tutto ciò che veramente importa – afferma Bellarmino all’inizio dell’opera – è non cercare nulla se non «quattro comuni cagioni: chi sia l’Autore di me; di che materia m’habbia fatto; qual forma dato; et a qual fine creato». Se dunque ogni ente creato è l’effetto di una quadruplice causa creatrice, la sostanza non può non dipendere dalla materia (causa materiale), dalla forma (causa formale), dal creatore (causa efficiente) e dal perché quell’ente è fatto così (causa finale). Galileo ha ragione quando sostiene l’importanza del linguaggio matematico con il quale è stato scritto il cosmo, ma ha torto quando ritiene che tale linguaggio esaurisca la spiegazione del reale.
Allo stesso modo, Bellarmino con ragione difende la verità sull’Eucaristia e dice che le specie eucaristiche – geometriche e pesanti – non sono che accidenti. Non tiene conto però che sono accidenti perché è crollata la sostanza del pane, che è unione di numero, forma, potenza e significato. Sono allora quattro le ragioni della sostanza, che sottendono alla quadruplice domanda di Bellarmino: Quanto? Come? Chi? Perché? Se così non fosse l’uomo, che conosce primariamente per mezzo dei sensi, non avrebbe un accesso reale e diretto all’ente e alla sua sostanza, ma si arresterebbe alla conoscenza del fenomeno (materia e forma), ossia del fantasma delle cose. È, invece, più prossimo al tomismo il ritenere che l’uomo abbia accesso diretto alla verità della sostanza, in modo sensibile attraverso il fenomeno e in modo intelligibile attraverso la potenza e il significato, irraggiungibili dal senso, ma superiori al numero quanto l’anima è superiore al corpo.

Fonte: Vita Nuova Trieste

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