L’ordine giuridico e l’ordine morale

Ubi homo ibi societas. Ubi societas ibi jus.

E’ da questo assioma insegnatoci dal senso comune prima ancora che dalla storia universale del diritto, che è partito l’avvocato Testa, presidente dell’Associazione Giovanile Forense, per offrire al confuso uomo contemporaneo una riflessione appassionata e intensa, in difesa della Legge e della Norma, e del loro necessario presupposto assiologico: l’esistenza del Vero e del Giusto (cfr. Carlo Testa, L’ordine giuridico e l’ordine morale. Riflessioni sul diritto naturale e sulla deontologia dei giuristi a proposito della Correctio filialis a Papa Bergoglio, Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma 2017, pp. 146, euro 18).

Tout se tient, insegnano i francesi, a cui fa eco papa Francesco con “tutto è collegato”, “tutto è in relazione”, addirittura “Tutto nel mondo è intimamente connesso” (Laudato sì, nn. 91, 142, 16).

La perdita della fede e del buon senso nei popoli di antica civiltà e di secolare tradizione cristiana ha comportato, tra mille perniciosi effetti, anche un offuscamento del senso del limite, del valore della legge, del rispetto della parola data e del bene comune.

A tutto ciò, come ben mostra il Testa, si è aggiunta la scuola tutto sommato anarchica del “positivismo giuridico kelseniano”. La quale, “trionfante nella cultura e nella prassi giuridica delle società attuali, obnubilando la possibilità di una misura comune, di una struttura universale del Diritto, ha degradato quest’ultimo a forma della volontà politica dominante (…). Questo relativismo giuridico ha prodotto confusione, disordine e sfiducia nella legge, oggi vista solo come forma di repressione e limitazione, in una società che ha fatto della sregolatezza illimitata un oggetto di culto” (p. 33).

Difficilmente poteva descriversi meglio la situazione odierna. Ed in effetti quanto il culto non lo si dà più al Legislatore Sommo, esso lo si darà all’uomo e alle sue voglie, le quali troveranno ingiusto ogni freno e ogni limitazione, che non sia autonoma e autoimposta.

La dittatura del relativismo denunciata a più riprese da Benedetto XVI – ma su cui ora si tace – tocca congiuntamente l’ambito morale e l’ambito civile, e la decadenza dei due ambiti è strettamente congiunta come lo sono nell’uomo l’anima e il corpo, o come lo sono, da un altro punto di vista, il pensiero e l’azione.

Se le nozioni di bene e di male non sono chiare e assodate, i confini tra lecito e illecito tendono ad oscurarsi nella società, e il delitto allo stato chimicamente puro – come è incomparabilmente rispetto a tutti gli altri l’aborto volontario – arriva ad essere legittimato come “diritto”.

Se quindi il rapporto tra legge morale e legge civile è strettissimo, lo è anche per forza di cose quello tra Giustizia divina e giustizia umana. E deve esserlo nel senso che la Fonte della legge, quale archetipo superiore alla storia e alle parti, deve presenziare ai suoi riflessi visto che l’immutabile primeggia sempre sul mutevole.

Secondo poi il mai troppo lodato Tommaso d’Aquino, e qui arriviamo alla sintesi suprema del rapporto tra le due sfere, quella trascendente e quella immanente, “La legislazione umana non riveste il carattere di legge se non nella misura in cui si conforma alla retta ragione; da ciò è evidente che essa trae la sua forza dalla Legge eterna. Nella misura in cui si allontana dalla ragione, la si deve dichiarare ingiusta, perché non realizza il concetto di legge: è piuttosto una forma di violenza” (I-II, q. 93, art. 3).

Come nota don Antonio Livi nell’introduzione epistemologica all’opera, “il diritto contiene in sé i medesimi presupposti logici, antropologici ed etici che sono alla base della filosofia e della teologia, ossia quelle certezze universali e necessarie che costituiscono il senso comune” (p. 7).

Non c’è bisogno di aver conseguito una laurea in giurisprudenza per cogliere al volo alcune di queste certezze universali indicate da Livi. Per esempio il fatto che certe azioni umane sono degne di lode, mentre altre sono meritevoli di biasimo e di punizione; che la colpa esiste nella realtà delle cose prima ancora che nei codici; che davanti alla legge siamo tutti perfettamente uguali perché tutti partecipiamo ugualmente all’umanità e alla socialità; che chi abbia commesso un torto debba in qualche modo riparare; che la pena debba essere proporzionata alla colpa; che ci sono delle azioni negative in sé stesse – come il tradimento coniugale – senza possibili eccezioni, semper et pro semper (anche nel 2017 quindi…).

Infatti si capisce facilmente, come ha costantemente insegnato il Magistero ecclesiastico, che la legge naturale, fondamento inconcusso di ogni legislazione civile, non cambierà mai (cfr. CCC, 1958: “la legge naturale è immutabile e permane inalterata attraverso i mutamenti della storia”).

Ma allora, come è possibile, si chiede coscienziosamente il Testa che sull’onda lunga dei cambiamenti epocali introdotti dalle leggi inique degli ultimi 50 anni (come il divorzio ad libitum e il matrimonio senza mater), sembra che anche la Chiesa, per voce dei suoi responsabili più in auge, assecondi “la deriva ereticale di talune tendenze della teologia morale contemporanea” (p. 9) ?

L’Autore non sa spiegarlo poiché, come diceva Jean Madiran, “quando c’è un eclissi siamo tutti immersi nelle tenebre”. Ma rigorosamente nota che “anche il Magistero del Pontefice, come quello di qualsiasi altra Autorità, è sottoposto alla superiore Legge Naturale” (p. 60).

In effetti, nessun uomo o angelo, può nulla contro quella legge di natura e di ragione che già il pre-cristiano Cicerone descriveva così: “Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione, essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall’errore (…). E’ un delitto sostituirla con una legge contraria, è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi può abrogarla completamente” (De re publica, 3,22).

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