Ci sarebbe molto da dire sulla linea adottata da anni dal quotidiano “di ispirazione cattolica” Avvenire, sia quanto alla pertinenza di tale ispirazione – rivendicata e contraddetta non raramente nelle stesse pagine del giornale – sia per altri motivi non proprio secondari.
Sulla cattolicità della stampa, della pubblicistica e della teologia cattolica, nei cinquant’anni dell’inverno post-conciliare, mi è sufficiente notare che i papi Giovanni Paolo II (1978-2005) e Benedetto XVI (2005-2013) hanno molte volte denunciato le rotture e le discontinuità presenti e gravi nell’ambito ecclesiale.
E’ noto a tutti il discorso del Natale 2005 di Benedetto XVI sulla doppia ermeneutica che ha fatto seguito al Concilio Vaticano II (1962-1965) in cui la cosiddetta “ermeneutica della discontinuità” era denunciata dal pontefice come prevalente su quella giusta e ortodossa. Tra i cattolici insomma non mancavano (come non mancano) coloro che prendono lucciole per lanterne, credendosi divinamente ispirati… E il papa in qual discorso si riferiva, come si capisce dal contesto, ad ambienti assai influenti nella Chiesa, come quelli appunto della stampa, dell’associazionismo, dell’episcopato e della docenza teologica.
Ma già Giovanni Paolo II da parte sua, giusto per citare qualcosa di forse meno noto al pubblico, nel lontano 1993, all’interno dell’enciclica Veritatis splendor sulla morale cattolica, faceva stato delle cattive interpretazioni di molti teologi e pastori, e in generale denunciava il dissenso interno alla cattolicità, “fatto di calcolate contestazioni e di polemiche attraverso i mezzi della comunicazione sociale” (n. 113). Il pontefice polacco, ricordava in parallelo, “il diritto dei fedeli a ricevere la dottrina cattolica nella sua purezza e integrità”. E criticava, già allora!, “molti dei moralisti cattolici” che arrivavano a ipotizzare “false soluzioni” (n. 75) ai problemi, non sempre facili certo, dell’agire umano e della politica.
Per non entrare troppo nel dettaglio di disquisizioni teologiche, cito solo il fatto che secondo Papa Wojtyla, alcuni teologi e intellettuali cattolici “si ispirano a una concezione della libertà che prescinde dalle condizioni effettive del suo esercizio, dal suo riferimento oggettivo alla verità”.
E queste parole sono di straordinaria attualità. Esistono sacerdoti cattolici che in nome della “libertà” giustificano ormai l’aborto, le nozze gay, l’uso di droghe e le mille stranezze e assurdità alla moda. Discorsi a volte complicati e complessi, ma che gira e rigira si fondano sull’idea della libertà, come se questo termine potesse essere lasciato solo senza alcun bilanciamento (tipo sicurezza, moralità, giustizia, rispetto del prossimo, etc.). Se così fosse, dovremmo tanto per dirne una dare a bambini la libertà di poter non andare a scuola o ai criminali la libertà di uscire dalle illiberali carceri dello Stato, etc.
E così, se ampi settori della teologia cattolica già oltre 20 anni fa, avevano una visione erronea o almeno carente della morale cioè dei giusti comportamenti da tenersi, questo può capitare anche ai quotidiani “di ispirazione cattolica”, nel 2017.
O forse il dogma dell’infallibilità del papa (quando stabilisce un articolo della fede) è condiviso anche dalla stampa e dalla pubblicistica cristiana?! Evidentemente non è così.
Ebbene, la direzione di Marco Tarquinio all’Avvenire è sembrata a molti troppo dura ed anche troppo morbida, a seconda degli argomenti in ballo.
Troppo dura per esempio verso Donald Trump presentato praticamente come il male assoluto, e ciò non solo prima delle elezioni, entrando a gamba tesa nella sfera direttamente politica, come un tempo avrebbero denunciato i radicali, ma anche dopo. Dimenticando quindi che in democrazia conta il voto popolare e non il consenso mass mediatico progressista.
Troppo morbida poi per tutto quello che attiene alla “ispirazione cattolica” del quotidiano CEI, specie sui temi caldi della vita, della famiglia, dell’omosessualità, delle tecniche di fecondazione assistita e così via. Su tutti le questioni che piacciono al potere, come l’immigrazione di massa, Tarquinio abitualmente scalda i motori. Sui temi politicamente scorretti (secondo la sinistra e i media dominanti) Tarquinio e i suoi si rifugiano nel dialogo e nell’ascolto dell’altro… Cari progressisti cattolici post conciliari, quando dialogherete non solo con gay trans tossicodipendenti islamici e buddisti, ma anche con tradizionalisti, salviniani, casapound, lefebvriani e populisti sarete credibili. Prima no.
O il dialogo infatti è apertura indiscriminata o è discriminazione voluta, ma allora i conti non tornano.
In questa vena di auto-contraddizione permanente Tarquinio domenica 10 settembre, ha risposto ad un lettore di nome Francesco Gennaro il quale si dichiara scandalizzato (udite udite…) per il fatto che Avvenire avrebbe riportato una frase di Angelino Alfano senza “una riga di commento”. E cosa diceva la scandalosa frase? Che la legge dello ius soli, oggi ribattezzata ius culturae per confondere le acque ai cittadini, sarebbe per lui “la cosa giusta al momento sbagliato”.
Tarquinio però invece di arrabbiarsi con il lettore un po’ saccente e seccante – quando le critiche vengono da sinistra non sono mai da buttare, ovviamente – si scusa sparando a zero contro “i razzisti senza vergogna”!
Da identificare, parrebbe, né più né meno con le masse popolari che giustamente e vitalmente desiderano vedere uno sacrosanto STOP davanti ad una immigrazione-colonizzazione che in Italia non si era mai vista, e i cui effetti ogni giorno più cruenti non possono essere negati da alcuno, neppure da Avvenire.
Da come parla Tarquinio, con una prosa odiosa e sdegnata, si direbbe che in Italia ci sia un partito ufficialmente rappresentato in parlamento o almeno un movimento di massa che parli di superiorità razziale dei bianchi sui non bianchi, o di cose simili. Altrimenti quale sarebbe il senso di frasi come queste: “settori dell’opinione pubblica nazionale [quindi non pochi ragazzi di periferia] che non si vergognano più di manifestare il loro razzismo”. Oppure: “i razzisti non hanno più vergogna”, “Alfano non è razzista. A mio parere non affronta però come potrebbe e dovrebbe i razzisti…”. Ma quali?
Tutto questo fraseggio tarquiniano ha un senso solo se si identifica come razzista l’opinione di coloro, e siamo credo la maggioranza ad averla, che vorrebbero maggior controllo sui moti migratori, attenzione sui pericoli dell’islamizzazione in Italia e in Europa, e fermezza sui traffici di esseri umani, spessissimo né di profughi né di disgraziati, ma di furbi, scaltri e delinquenti.
Questo delirio tarquiniano, riprendendo Giovanni Paolo II si spiega – ma non si giustifica – con le tendenze diffuse in seno alla Chiesa presso intellettuali e teologi, pastori e presuli, che hanno un concetto esagerato della libertà, quasi fosse l’unico bene vero da difendere e da promuovere. Mentre invece il bene comune della società, e specie dei suoi settori più deboli come anziani pensionati e malati, richiede di limitare l’esercizio della libertà ad alcuni per tutelare la maggioranza (ai delinquenti con il carcere, ai clandestini non assimilabili impedendogli l’ingresso o negandogli la cittadinanza).