Il testamento biologico e il (dubbio) consenso

Il testamento biologico è forse la più complessa delle casistiche che il dibattito in bioetica abbia mai esplorato, e se diversi Paesi europei, per prassi o per legge, l’hanno autorizzato, questa non è affatto una buona ragione per liquidare, come tanti cervelloni vorrebbero, la questione come risolta. Del resto, casi agghiaccianti che mettono in crisi la presunta eticità delle direttive anticipate di trattamento di certo non mancano.

Ricordiamo la vicenda di Kerrie Wooltorton, ventiseienne inglese che, giunta in ospedale in seguito a volontario avvelenamento, ha esibito ai medici pronti a soccorrerla un foglietto nel quale documentava la propria volontà

di non essere curata. Risultato: la giovane, in seguito alla massiccia dose di anticongelante ingerito, se n’è andata proprio come voleva, tra l’incredulità dei medici timorosi di incorrere nell’illegalità qualora avessero agito per salvarla.

Domanda: è giusto che uno stato tuteli l’aspirante suicida di turno paralizzando ogni soccorso, pena azioni giudiziarie?

Il dibattito sul testamento biologico è da considerarsi tutt’altro che esaurito. Lo prova, senza scomodare auliche elucubrazioni, l’impeccabile ragionamento di un pensionato romano che in una lettera si è chiesto: “Se io, ora che sono sano, firmo un bio-testamento ma dopo, nel momento cruciale, quando non ho più possibilità di farmi capire, non desidero più accorciare la mia vita perché sento e vedo ancora, come faccio a tornare indietro dal momento che mi fanno morire di fame e di sete? In pratica avrei firmato la mia condanna a morte” (La Stampa, 3/10/2009). Esattamente.

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