Il “male minore” porta Male (1° parte: Male minore, nuovo nome della barbarie?)

01 male

L’argomento del “male minore” è un argomento che puntualmente salta fuori quando vi sono da prendere determinate decisioni politiche o legislative. I favorevoli al “male minore” si pongono sulla linea del “cedere per non perdere”, sulla necessità di “limitare i danni”. Chi sposa questa prospettiva afferma che è doveroso scegliere un “male minore” se questo può servire a evitare un “male maggiore”.

INDICE:

       1 ) “Male minore”, nuovo nome della barbarie?

Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

2) Male minore e aborto

3) Male minore e fecondazione extracorporea

4) Male minore e divorzio

5) Male minore e contraccezione artificiale

Male minore e “nuovi diritti” reclamati

6) Male minore e matrimonio gay

7) Male minore e droga libera

8) Male minore, eutanasia e suicidio assistito

9) Male minore, eutanasia passiva e Testamento biologico

10) Conclusione

              Bibliografia, Filmografia, Articoli e Studi

 

1) “MALE MINORE”, NUOVO NOME DELLA BARBARIE?

L’argomento del “male minore” è un argomento che puntualmente salta fuori quando vi sono da prendere determinate decisioni politiche o legislative. I favorevoli al “male minore” si pongono sulla linea del “cedere per non perdere”, sulla necessità di “limitare i danni”. Chi sposa questa prospettiva afferma che è doveroso scegliere un “male minore” se questo può servire a evitare un “male maggiore”. Oppure, trovandosi di fronte a due mali, si afferma l’obbligo di scegliere il minore perché bisogna avere il coraggio di “sporcarsi le mani”, mentre non scegliere affatto è considerata una condotta da irresponsabili.

02 Hannah ArendtTra coloro che si sono espressi contro la teoria del “male minore” vi è senz’altro la scrittrice e filosofa tedesca Hannah Arendt, famosa è la sua affermazione: “Chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”.

Nel 1940 la Arendt, di origini ebraiche, è costretta a fuggire in America per sottrarsi alla persecuzione nazista. Successivamente, nei primi anni Sessanta, ha la possibilità di seguire a Gerusalemme, come inviata del settimanale New Yorker, tutte le centoventi sedute del processo a Adolf Eichmann, il criminale nazista responsabile della deportazione di milioni di ebrei. Il resoconto del processo e le considerazioni della scrittrice saranno raccolte nel libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, pubblicato nel 1963, dove, con l’argomento del “male minore”, Arendt riesce a spiegare come i “buoni cittadini” possano essere resi partecipi di politiche del male.

L’idea espressa da Arendt è quella secondo cui i Consigli ebraici, optando ogni volta per il male minore della mitigazione degli orrori nazisti, avevano inconsapevolmente contribuito alla distruzione del loro stesso popolo e, in ultima analisi, alla loro stessa rovina; mentre se si fossero organizzati, non collaborando con i tedeschi nel tentativo di moderare le loro politiche, avrebbero potuto avere più chances di sopravvivenza. In altre parole, con l’intento di salvare se stessi e altri ebrei, ebrei eminenti – definiti dalla scrittrice “aiutanti delle SS” e “strumenti degli assassini” – avevano collaborato con i nazisti delle nazioni occupate, lasciando che moltissimi di loro fossero deportati e uccisi:

“Ad Amsterdam come a Varsavia, a Berlino come a Budapest, i funzionari ebrei erano incaricati di compilare le liste delle persone da deportare e dei loro beni, di sottrarre ai deportati il denaro per pagare le spese della deportazione e dello sterminio, di tenere aggiornato l’elenco degli alloggi rimasti vuoti, di fornire forze di polizia per aiutare a catturare gli ebrei e a caricarli sui treni e, infine, ultimo gesto, di consegnare in buon ordine gli inventari dei beni della comunità per la confisca finale”.

I capi ebraici erano gli unici a conoscere il segreto della destinazione finale delle deportazioni e, non informando le future vittime, anche quando ispirati dal senso di pietà, si trasformarono nei signori della vita e della morte:

“La verità vera era che sia sul piano locale sia su quello internazionale c’erano state comunità ebraiche, partiti ebraici, organizzazioni assistenziali ebraiche. Ovunque c’erano ebrei, c’erano stati capi ebraici riconosciuti e questi capi, senza eccezioni, avevano collaborato con i nazisti, in un modo o nell’altro, per una ragione o per l’altra…

La pura verità, è che se il popolo ebraico fosse stato disorganizzato e senza capi ci sarebbero stati caos e miseria, ma il numero totale delle vittime difficilmente avrebbe raggiunto i 4,5-6 milioni di persone”.

Le accuse mosse da Arendt alle élites ebraiche scatenano immediate e aspre polemiche: Arendt viene definita un’antisionista priva di compassione e di obiettività, un’ebrea affetta da odio verso se stessa che confonde perversamente le vittime con i carnefici. Le autorità ebraiche, invece, vengono da più parti giustificate e difese in nome della loro scelta per il male minore. La filosofa tedesca ribatte alle critiche affermando che, se ogni resistenza vera e propria era irrealizzabile, c’era pur sempre la possibilità di “non fare niente”, e in quella circostanza “non fare niente” era proprio ciò che i capi ebraici avrebbero dovuto fare.

Il “male minore” si incontra anche nelle risposte di Eichmann durante le fasi del processo a suo carico: siamo scesi a patti con il diavolo senza vendergli l’anima; noi che figuriamo colpevoli oggi, siamo però stati i soli a restare al nostro posto per evitare che le cose andassero anche peggio, mentre coloro che non hanno fatto nulla si sono sottratti alle loro responsabilità, pensando solo a se stessi, alla salvezza delle loro anime.

Benché l’accusa israeliana cerchi di dipingere Eichmann come il mostro responsabile della morte di milioni di ebrei:

“L’assassino di un popolo”, “un nemico del genere umano… nato uomo ma vissuto come una belva nella giungla… che non merita più di essere chiamato uomo”, un uomo che “ha commesso crimini orrendi, che non hanno nulla di umano perché sono al di là della frontiera che separa l’uomo dalla bestia”, e “che agì con entusiasmo, con piena soddisfazione e con passione fino alla fine”.

Arendt, al contrario, lo descrive come “l’incarnazione dell’assoluta banalità del male”. Si vuole farne uno Iago, un Macbeth, un Riccardo III, vi si vuole vedere una profondità diabolica, perversa, demoniaca – constata polemicamente la filosofa -, invece è un uomo qualunque, un piccolo borghese, al massimo un po’ codardo, che, non diversamente da tanti altri “bravi padri di famiglia”, non guarda troppo a fondo nei compromessi che è costretto a fare per mandare avanti la propria esistenza, cogliendo in essi l’occasione per fare carriera.

03 adolf eichmann al processoCiò che la scrittrice scorge nel criminale nazista è la dicotomia tra la persona e gli atti compiuti, nel senso che “le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso”. L’immagine che Eichmann offre di sé è, infatti, ben lontana da quella di un esaltato, di un folle, di una persona diabolica mossa dal puro piacere di compiere atti malvagi, egli appare piuttosto un uomo docile, un normale funzionario, che giustifica il ruolo cruciale avuto nell’esecuzione dell’olocausto con il fatto di aver semplicemente svolto il suo lavoro, “di avere eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra”. Una motivazione che, nel corso del dibattimento processuale, uscirà spesso dalla sua bocca:

“Si viveva in un’epoca di crimine legalizzato dallo Stato. La responsabilità era di coloro che davano gli ordini. Io sentivo che la mia adesione al nazionalismo che veniva predicato significava fare il mio dovere secondo il mio giuramento”.

“Dovevo obbedire, dovevo farlo. Un uomo può essere messo in una condizione che può portare alla follia e nella quale basta un niente, nemmeno un atto premeditato, per fargli tirare fuori una pistola”.

E quando il procuratore gli domanda: “In coscienza, si ritiene colpevole di complicità nell’assassinio di migliaia di ebrei, sì o no?”, Eichmann risponde:

“Sul piano umano, sì, perché sono colpevole di aver organizzato le deportazioni”, ma “i rimpianti sono inutili perché non servono a resuscitare i morti. I rimpianti non hanno senso… è più importante trovare i modi per impedire che ciò accada nel futuro…

Tengo a dichiarare che considero questo assassinio, lo sterminio degli ebrei, uno dei crimini più orrendi della storia dell’umanità. Dichiaro, per concludere, che già allora io stesso pensavo che questa soluzione violenta non fosse giustificata… La consideravo un atto mostruoso. Ma ero legato al mio giuramento d’obbedienza e dovevo occuparmi nel mio settore dell’organizzazione dei trasporti. Non ero sciolto dal mio giuramento. Quindi non mi sento responsabile, nel profondo di me stesso. E mi sento liberato da ogni colpa. Ero sollevato per non aver avuto nulla a che fare con lo sterminio fisico. Ero fin troppo occupato dal lavoro che mi avevano ordinato. Ero capace e svolgevo il mio lavoro dietro una scrivania. Facevo il mio dovere conformemente agli ordini. Non ho mai avuto rimproveri per non aver compiuto il mio dovere o di aver mancato in qualcosa nel fare il mio dovere. E ancora una volta, oggi, lo voglio ripetere”.

Disgraziatamente – nota Arendt – Eichmann non era un caso isolato, uomini del suo stampo si potevano incontrare in moltissimi altri burocrati, normali “padri di famiglia”, tedeschi “medi”, una massa compatta di uomini “normali” i cui atti erano però mostruosi:

“Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali.

Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male”.

Il problema etico più inquietante – osserva in sostanza Arendt – non è rappresentato tanto dagli ideatori della politica criminale, da chi ha commesso il male “per amore del male”, bensì dal grande numero di coloro che non erano né demoni né fanatici e che, semplicemente, non avevano le motivazioni per rifiutarsi di agire secondo quanto stabilito dalla legge. Nell’ambito della collaborazione dei tedeschi qualunque, soprattutto di quelli impegnati nel servizio civile, Arendt riesce a dimostrare come “l’argomento del male minore” sia diventato il più importante “armamentario terrorista e criminale”, e come questo sia stato usato “per abituare i funzionari e la popolazione ad accettare in generale il male in sé”, al punto tale per cui “chi sceglie il male minore dimentica rapidamente di aver scelto a favore di un male”.

04 Zygmun BaumanLa tesi della filosofa tedesca sarà ripresa dal filosofo polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman (“Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna 1992), secondo il quale non ci vuole niente di più di questo perché si dia il male: uomini e donne qualunque che

“continuino ad assecondare il gioco della storia con i dadi truccati di una ragione che destituisce di valore ogni pretesa di senso, per accordarsi all’universalità del calcolo costi-benefici”.

05 Eyal WeizmanPiù di recente, le osservazioni di Arendt sono state richiamate e calate nell’odierno contesto politico da Eyal Weizman – un architetto israeliano che insegna all’University of London -, che nel 2009 ha pubblicato con Nottetempo un libretto intitolato proprio “Il male minore”. Weizman cerca di svelare cosa si nasconde dietro il concetto di “male minore” nell’uso politico contemporaneo, e si chiede se la cultura del male minore può giungere a giustificare la violenza, fino a farla persino proliferare:

“Nella nostra postutopica cultura politica contemporanea, il termine [male minore] è così profondamente naturalizzato e invocato in una serie di contesti incredibilmente diversi tra loro – dalla morale individuale situazionale alle relazioni internazionali, passando dai tentativi di governare le economie della violenza nel contesto della ‘guerra del terrore’ a quelli degli attivisti umanitari e dei diritti umani di destreggiarsi in mezzo ai paradossi dell’assistenza – che esso sembra aver completamente preso il posto che precedentemente era riservato al termine ‘bene’”.

L’architetto israeliano porta quale esempio emblematico di questa visione, nell’ambito della cosiddetta “guerra del terrore”, il libro “Il male minore” di Michael Ignatieff, studioso di diritti umani e vicesegretario del Partito Liberale Canadese:

“Ignatieff propone che gli stati liberali stabiliscano meccanismi che regolino la violazione di alcuni diritti e consentano ai loro servizi di sicurezza di impegnarsi in forme di violenza extra-giuridica – vale a dire ‘mali minori’ – al fine di evitare o limitare potenziali ‘mali maggiori’ (Ignatieff ritiene per esempio che gli omicidi mirati rientrino ‘nel legittimo contesto del male minore’ poiché si spiegano come alternativa alla punizione collettiva).

Questi esecutori postmoderni dovrebbero dunque calcolare vari generi di misure distruttive in maniera utilitaristica, non in relazione al male che producono ma a quello che prevengono. Questo dovrebbe essere sufficiente a domandarci se il ‘male minore’ non sostituisca la ‘banalità del male’ come forma contemporanea di esecuzione”.

Una siffatta “economia della violenza” – osserva Weizman -, potrebbe originare gravi conseguenze, dato che “le questioni di violenza sono sempre imprevedibili”, ma anche pericolosi paradossi, con scenari di proliferazione della violenza invece della sua prevenzione:

“Il presunto male minore potrebbe essere più violento della violenza a cui si oppone e potrebbe non esserci fine alle sfide che derivano dall’impossibilità di calcolo”.

Inoltre, “una misura meno brutale è anche una misura facilmente naturalizzabile, accettabile, tollerabile. Quando misure eccezionali vengono normalizzate, possono venire applicate più frequentemente. […] alla fine, potrebbero essere commessi più mali minori, con il risultato di un grande male raggiunto cumulativamente”.

Optare per il “male minore” – afferma dunque Weizman – conduce all’accettazione e normalizzazione di un determinato male e, quindi alla sua reiterazione e diffusione, per questo egli arriva a suggerire che il “male minore” possa essere in realtà “il nuovo nome della nostra barbarie”.

L’architetto nota, inoltre, che proprio l’argomento del “male minore” è stato spesso usato dai regimi totalitari. Famoso è il detto di Stalin – ricordato anche da Arendt (“Le uova alzano la voce”) – secondo il quale “non puoi rompere le uova senza fare una frittata”, vale a dire: a forza di rompere le uova prima o poi si produrrà necessariamente la frittata desiderata. Con il suo slogan Stalin vuole insegnare che l’edificazione del regime della vera giustizia tra gli uomini si può realizzare solo attraverso grandi sacrifici di vite umane. “La strada verso l’utopia (intesa come risultato di bene) è lastricata di mali minori”, commenta Weizman.

La frase dell’architetto israeliano richiama alla mente il noto proverbio “Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”, che oltre a calzare a pennello con il nostro ragionamento, ci mostra anche qual è la meta finale di chi accetta di compiere il male a “fin di bene”, di scendere cioè a compromessi con il male, seppure con la buona intenzione di prevenire un male più grande: la meta finale è l’inferno, la dannazione eterna. Uno scenario ben rappresentato anche dal seguente racconto:

La tentazione

06 tentazione

C’era una volta un eremita così perfetto che aveva già un piede in Paradiso.

Viveva di quasi niente in una grotta scavata nei fianchi di una montagna verde dove raccoglieva frutti selvatici, bacche e qualche radice per il pranzo della domenica.

  • “Come posso tentarlo?”, si chiedeva continuamente il diavolo.

Lo spiava, fiutava le sue impronte, lo esaminava dalla testa ai piedi per trovare il minimo punto debole. Niente. Pestava i piedi, si arrabbiava, imprecava, finché decise di passare all’attacco diretto.

Si presentò all’eremita, che stava rammollendo un pezzo di pane raffermo nell’acqua della sorgente.

  • “Salve”, gli disse Satana. “Sai chi sono io?”.
  • “Il diavolo”, risposte tranquillamente l’eremita.
  • “Dio mi ha dato il permesso di tentarti. Vorrei che tu commettessi un peccato grave”.
  • “Parla”, disse l’eremita. “Ti ascolto”.
  • “Assassina qualcuno”.
  • “No. È fuori discussione”.
  • “Allora assali una donna”.
  • “È una cosa bestiale e disgustosa. Non lo farò mai. Vattene, diavolo. Non hai fantasia”.
  • “Almeno bevi un sorso di vino. Non è neanche un peccato. Accontentami”.
  • L’eremita sospirò: “Va bene. Un sorso non è nulla di male”.

Immediatamente gli comparve tra le mani una brocca di vino fresco e frizzante. Ne bevve un sorso. Prese fiato e ne bevve un altro.

  • “Uhm”, disse. “È gradevole”. Bevve un altro lungo sorso e disse: “È forte… È diabolico!”.

Cominciò a ridere stupidamente. Poi riprese a bere, malfermo sulle ginocchia.

Una ragazzina saliva per il sentiero.

  • “Buongiorno sant’uomo”, disse. “Ti ho portato qualche mela e del pane”.

Ululando, con gli occhi annebbiati, l’eremita afferrò la ragazzina per i capelli e la sbatté a terra. La poverina urlò con tutte le sue forze. Suo padre, che lavorava nei campi, la udì e accorse. L’eremita vedendo arrivare l’uomo afferrò una grossa pietra e lo colpì con tutte le sue forze.

Quando ritornò in sé, l’eremita vide l’uomo che giaceva ai suoi piedi in un lago di sangue.

  • “Credo sia morto”, disse Satana, con aria virtuosa. Raccolse un fiore e se lo mise in bocca.
  • L’eremita si gettò in ginocchio inorridito: “Signore Dio, che cosa ho fatto?”.
  • Il diavolo rispose: “Di tre mali hai scelto il minore. Questo ti farà passare lunghe giornate in mia compagnia”.

Fischiettando, con le mani in tasca, si avviò. Dopo qualche passo si fermò, si voltò e come chiamasse un vecchio compagno di strada, disse:

  • “Allora, eremita, vieni?”.

Non esistono mali minori…

Il racconto mostra non soltanto che la scelta del male minore non ha prevenuto alcunché ma che, anzi, proprio quella scelta, la scelta del male minore, è stata decisiva per il verificarsi del male maggiore che altrimenti non ci sarebbe stato.

Come si è arrivati a questo disastroso epilogo e alla tragica sorte che alla fine attende il protagonista della storia (la dannazione eterna)? Ci si è arrivati solo dopo il cedimento alla tentazione diabolica, non a caso il titolo del racconto non è “il male minore”, ma appunto “La tentazione”.

La scelta tra “male minore” e “male maggiore” potrebbe dunque essere solo una tentazione? La risposta non può che essere sì perché in realtà, dal punto di vista morale, il “caso perplesso” non esiste. Alla voce “Minor male” del Dizionario di Teologia Morale (Editrice Studium, 1969) del Cardinale Pietro Palazzini, si legge:

“Di due mali scegliere e perciò compiere il minore non è lecito, se si tratta di due mali morali ossia di due operazioni che sono in se stesse violazione della legge morale. La tesi è evidente. Un male non diventa bene o lecito, perché c’è un altro male più grande, che si potrebbe scegliere. Il problema morale, proposto nella domanda ‘Se è lecito o obbligatorio scegliere di due mali il minore’, suppone una cosa, che in realtà non può esistere, cioè il cosiddetto caso perplesso, nel quale l’uomo sarebbe costretto a scegliere tra due atti peccaminosi, così che se non scelga l’uno, necessariamente debba scegliere l’altro. Un tale caso moralmente è impossibile. Perché l’uomo può sempre astenersi da qualsiasi atto positivo, che importa la scelta di un mezzo. L’uomo può sempre non fare, se fare l’una o l’altra cosa sia sempre peccato; e questo non fare non è peccato in sé (p. es., non procurare l’aborto).

Se da questa omissione seguono, in virtù di circostanze, gravi danni, p. es. la morte della madre, o della madre e del bambino insieme, l’uomo non è responsabile per questi danni, perché nessuno è responsabile per le conseguenze della condotta da lui seguita quando non c’era possibilità d’agire senza peccare.

Scegliere il minor male è lecito, quando questo minor male non è in sé un male morale (peccato), ma è o un male puramente fisico o un atto od omissione in sé buona o indifferente, dal quale o dalla quale però, nel caso concreto, seguirà un effetto accidentale cattivo, meno grave però di quello che produrrebbe un altro mezzo; p. es. di due farmaci, che producono tutti e due un effetto cattivo sulla salute, ma che sono ugualmente utili per me, io devo scegliere il meno nocivo, perché ho l’obbligo di non recare nocumento alla mia salute”.

La convinzione che tra due mali si debba scegliere il minore e il fatto che in questa scelta, che si crede obbligata o quantomeno necessaria, si racchiuda invece una tentazione, è stata svelata anche da Mary McCarthy, la scrittrice amica della Arendt, la quale osserva: “Se qualcuno ti punta addosso una pistola e ti dice ‘Uccidi il tuo amico o io uccido te’, ti sta semplicemente tentando”.

Anche Weizman, al pari di Arendt, arriva alla conclusione secondo cui sia preferibile “non fare niente” piuttosto che collaborare con il male. Scrive infatti Weizman: quando nient’altro è possibile

“fare niente è l’ultima forma effettiva di resistenza, e le conseguenze pratiche del rifiuto, e perciò del caos, sono quasi sempre migliori, se abbastanza persone rifiutano […] Dobbiamo avere il coraggio di pensare oltre l’economia e i calcoli della violenza e della sofferenza, oltre l’ordine aritmetico ‘del più e del meno’ che regola lo scambio dei beni e della sofferenza umana, oltre le interminabili negoziazioni, complessità, contingenze e complicità del pragmatismo miope della ‘politica del male minore’”.

Meglio il caos piuttosto che il compromesso con il male, dicono in sostanza sia Arendt che Weizman.

Dunque, con il male non si scende a patti, nemmeno se si presenta in forma “minore”, o mascherato da atto di giustizia, o come prevenzione di un male più grande, con esso non si tratta a costo di morirne, come insegna da sempre anche il cristianesimo. Scrive San Paolo nella Lettera ai Romani:

“Non facciamo il male affinché ne venga il bene” (Rm 3,8).

“Aborrite il male e attenetevi fermamente al bene” (Rm 12,9).

“Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm 12,21).

Parole riprese da Giovanni Paolo II nel Messaggio per la celebrazione della 28° giornata mondiale della pace:

“Il male non si sconfigge con il male: su quella strada, infatti, anziché vincere il male, ci si fa vincere dal male”.

La scelta del minore dei mali, che di fatto si traduce nell’imboccare la scorciatoia del compromesso, è quindi una tentazione diabolica che non solo non previene il male maggiore, ma a esso prepara la strada e spalanca la porta. Dopodiché il male comincerà a chiedere, di volta in volta, sempre di più (pendio scivoloso) insinuandosi dall’ingresso nelle stanze vicine, e poi da queste in tutti gli altri ambienti, finché non diventerà il legittimo padrone dell’intero edificio.

07 Ernest HelloQuesta verità secondo cui, dal cedimento alla tentazione diabolica – mediante l’accettazione di scendere a patti con il male – si arrivi all’inesorabile vittoria finale del male, è stata evidenziata con sagace ironia dallo scrittore francese e apologista cristiano Ernest Hello (1828 – 1885) che, nell’opera L’homme del 1872, così scrive:

“Lo spirito del male dice: ‘Riposati. Che farai nella mischia? Altri combatteranno abbastanza. Tu che sei savio, non iscomodare le tue abitudini. Il male, continua il diavolo, è sempre esistito ed esisterà sempre nelle stesse proporzioni. I pazzi che vogliono combatterlo non guadagnano nulla e perdono il loro riposo. Tu che sei savio, dà ad ogni cosa la sua parte e non dichiarare a niente la guerra. È impossibile illuminare gli uomini. Perché dunque tentarlo? Fa pace con le opinioni che non sono tue. Non sono esse tutte ugualmente legittime?’.

Così parla il demonio; e l’uomo separato dalla verità, perché ha paura di lei, che è l’Atto puro, l’uomo, insensibilmente e a sua insaputa, si unisce all’errore […] discende a poco a poco, durante il suo sonno, in quell’indifferenza glaciale, placida e tollerante, che non s’indigna di niente, perché non ama niente, e che si crede dolce perché è morta.

E il demonio vedendo quest’uomo immobile, gli dice: ‘Tu gusti il riposo del savio’; vedendolo neutro tra la verità e l’errore, gli dice: ‘Tu li domini entrambi’; vedendolo inattivo, gli dice: ‘Tu non fai del male’; vedendolo senza risorsa, senza vita, senza reazione contro la menzogna e il male […], gli dice ‘Io t’ho ispirato una filosofia savia, una dolce tolleranza, tu hai trovato la calma nella carità’, perché il demonio pronunzia spesso le parole di tolleranza e di carità.

L’uomo vivo, l’uomo attivo che ama e che è unito all’unità, afferra il rapporto delle cose, e unisce fra loro le verità.

L’uomo morto ha perduto il senso dell’unità. Non unisce più verità fra di loro: non concilia più, per la contemplazione dell’armonia, le cose che devono esser conciliate, le cose vere, buone e belle.

Ma in cambio, compone una parodia satanica dell’unità; cerca di amare insieme il vero e il falso, il bene e il male, il bello e il brutto; non sempre si adira, almeno in apparenza, se si affermano i dogmi, ma preferisce che si neghino.

Non avendo voluto unire ciò che è unito, credere a tutta la verità, conciliare quel che è conciliabile, cerca di unire ciò che è necessariamente ed eternamente contradittorio, di credere insieme alla verità e all’errore, di conciliare il Sì e il No; non avendo voluto amare Dio tutto intiero, cerca di amare Dio e il diavolo: ma è l’ultimo che preferisce”.

“Che si direbbe d’un medico il quale, per carità, avesse riguardi verso la malattia del suo cliente? Immaginate questo tenero personaggio. Direbbe al malato: Dopo tutto, amico mio, bisogna essere caritatevole. Il cancro che vi corrode è forse in buona fede. Suvvia, siate gentile, fate con lui un po’ d’amicizia; non bisogna essere intrattabili; fate la parte del suo carattere. In questo cancro, esiste forse una bestia; essa si nutre della vostra carne e del vostro sangue, avreste il coraggio di rifiutarle quanto le occorre? La povera bestia morirebbe di fame. Del resto, io sono condotto a credere che il cancro è in buona fede e adempio presso di voi ad una missione di carità.

È il delitto del secolo decimonono quello di non odiare il male, e di fargli delle preposizioni. Non vi ha che una proposizione da fargli, è di scomparire. Ogni accomodamento concluso con lui somiglia neppure al suo trionfo parziale, ma al suo trionfo completo, perché il male non sempre domanda di scacciare il bene, domanda il permesso di coabitare con lui. Un istinto segreto lo avverte che domandando qualche cosa, domanda tutto. Appena non è più odiato, si sente adorato”.

Il presupposto secondo cui non sia lecito fare il male, nemmeno a fin di bene, nasce dal fatto che ci sono azioni che sono sempre cattive, lo sono in se stesse e perciò la loro natura “intrinsecamente cattiva” non cambia al cambiare del fine e delle circostanze, per questo motivo non è mai lecito compierle. Scrive Giovanni Paolo II nell’Enciclica Veritatis Splendor:

“Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati ‘intrinsecamente cattivi’ (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Per questo, senza minimamente negare l’influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che ‘esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto’.

Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del dovuto rispetto della persona umana, offre un’ampia esemplificazione di tali atti: ‘Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l’intimo dello spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e ledono grandemente l’onore del Creatore”.

“Insegnando l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi – prosegue il papa -, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura. L’apostolo Paolo afferma in modo categorico: ‘Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio’ (1Cor 6,9-10).

Se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti ‘irrimediabilmente’ cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: ‘Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) – scrive sant’Agostino -, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?’.

Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto ‘soggettivamente’ onesto o difendibile come scelta”.

L’assunto “fare il bene, non fare il male”, non è di certo una prerogativa del cristianesimo ma una caratteristica innata dell’essere umano, ovvero della cosiddetta “legge morale naturale”. Le prime riflessioni sul “diritto naturale” risalgono allo stoicismo greco, che riconobbe l’esistenza di un “diritto di natura” che non muta nel tempo e nello spazio, un diritto che, proprio per la caratteristica di appartenere alla natura umana, vale per tutti gli uomini.

“Bisogna fare il bene ed evitare il male” è il primo e fondamentale principio del diritto naturale. Da questo discendono altri doveri, anch’essi definiti dallo stoicismo greco, i quali sono nel contempo anche diritti: dare a ciascuno il suo (concetto di giustizia), onora il padre e la madre, non ledere alcuno, non fare all’altro quello che non vuoi patire tu (regola d’oro), valido anche nella sua accezione positiva: fai all’altro ciò che vuoi sia fatto a te, bisogna rispettare i patti. Si tratta di principi base della vita sociale, di attitudini che regolano i rapporti con gli altri, di dettami universalmente validi e conosciuti, per questo motivo su di essi non è ammessa ignoranza.

Anche San Paolo, nella Lettera ai Romani, parla di legge morale naturale “scritta nel cuore” dell’uomo:

“Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano ora li difendono” (Rm 2,14-15).

Quindi, i pagani, pur non avendo la legge rivelata (Dieci Comandamenti) sono lo stesso in grado – grazie all’uso della coscienza e della ragione – di distinguere il bene dal male e, perciò, di agire optando per il primo ed evitando il secondo, perché si tratta di  una prerogativa connaturale all’uomo (“scritta nel cuore”). Per questo motivo, nessun uomo può appellarsi al fatto che, non credendo egli in Dio, non sia tenuto a discernere il bene dal male e perciò autorizzato ad agire come gli pare e piace. Né uno Stato democratico e civile, chiamato a realizzare il bene comune, può fare a meno di considerare quest’istanza fondamentale e i principi che ne discendono, essendo essi alla base della vita sociale e del vivere comunitario. Non c’è bisogno quindi di essere credenti per stabilire, per esempio, l’iniquità dell’omicidio: uccidere una persona è chiaramente un atto contrario al diritto naturale. Ciò rende sicuramente valido il divieto di “pena di morte”, ma altrettanto validi saranno anche il divieto di aborto e quello di eutanasia.

 

Male minore e “nuovi diritti” legalizzati

Ora, nonostante la cattiveria intrinseca di certe azioni, che ogni persona provvista di ragione e di una coscienza funzionante è in grado di vedere, non v’è dubbio che negli ultimi quarant’anni della nostra epoca si sia assistito a un fiorire di leggi inique – volte a garantire i cosiddetti “nuovi diritti” -, che violano innegabilmente la legge morale naturale. Il fatto è ancor più grave se si considera che queste violazioni del diritto naturale sono potute avvenire grazie al contributo decisivo dei cattolici, proprio quei cattolici che dovrebbero avere una marcia in più nell’ambito del discernimento del bene dal male, visto che loro, oltre a possedere la legge morale naturale che a tutti è data, hanno in più la legge rivelata all’uomo da Dio in persona: i Dieci Comandamenti e il Vangelo. Per questo motivo i cattolici sono doppiamente responsabili della deriva etica consumatasi nella storia recente e ancora oggi prepotentemente in corso, doppiamente responsabili per il fatto di aver violato sia il diritto naturale che i Comandamenti di Dio.

Com’è stato possibile, in Paesi culturalmente avanzati e con alti livelli di civiltà come il nostro, arrivare all’introduzione di leggi barbare in violazione di principi naturalmente riconoscibili? E soprattutto, cos’è che ha portato i politici cattolici a dare il proprio voto e assenso a questi “nuovi diritti” iniqui e immorali? Tutto questo è potuto avvenire proprio grazie all’argomento oggetto della nostra riflessione: la tentazione, l’abbaglio, la scelta del “male minore”.

Ognuno dei “nuovi diritti”, introdotti nelle ultime quattro decadi, ha alla radice questa scelta nefasta: la scelta del male a fin di bene. Una scelta in cui il “bene” viene rimpiazzato dal “male minore” e l’istanza fondamentale “bisogna fare il bene ed evitare il male” – istanza su cui si gioca tutta l’esistenza umana sulla terra e quella eterna futura, sia che si creda in Dio oppure no – diventa semplicemente “bisogna scegliere il male minore per evitare il male maggiore”. In ciascuno dei “nuovi diritti” già introdotti, così come in quelli che si stanno reclamando a gran voce, vi è alla radice questo calcolo utilitaristico dei costi/benefici che prende in esame solo il presunto male (maggiore) che si previene, e non tiene per nulla in considerazione né il bene, né il male che la scelta del “male minore” produce.

08 di 2 mali scegli il minoreTuttavia, quando dalla teoria si passa alla verifica dei fatti, quando cioè si vanno a controllare i risultati prodotti da queste politiche del compromesso sui princìpi fondamentali, i nodi tornano tutti quanti al pettine. Si può, infatti, notare che il “male maggiore” che si doveva prevenire non è stato affatto prevenuto e che anzi, spesso, è stata proprio la legittimazione del “male minore” a preparare la strada al verificarsi del “male maggiore”. Inoltre – grazie all’effetto “normalizzante” prodotto dalla legalizzazione e grazie all’innescarsi del meccanismo del cosiddetto “pendio scivoloso” -, si è potuta registrare sia la reiterazione ed espansione del “male minore” di partenza, che la nascita di nuovi mali a esso conseguenti. Tutto questo ha portato al risultato finale di un “trionfo completo” del male – come direbbe Ernest Hello -, o di “un grande male raggiunto cumulativamente”, se usiamo le parole di Weizman.

Esaminiamo ora, uno per uno, i “nuovi diritti” che sono stati legalizzati, concentrandoci in particolare sulla situazione italiana. Partiremo per ciascuno di essi dalla radice (“male minore”) che ne ha determinato la legalizzazione, poi ci occuperemo di valutare le conseguenze che, di fatto, ne sono discese. (segue)

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