Ma la post-verità è vera o falsa?

wittgenstein

Parafrasando Wittgenstein: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”

Come è facile notare, il riferimento al vero e al falso rimane ineludibile: quello che si dice è vero o falso? Se la risposta è “dipende”, allora: da cosa dipende?

La stessa nozione di “post-verità” non può che fare riferimento alla verità stessa, sia pure come a qualcosa che si vorrebbe superare, o che secondo qualcuno sarebbe già superato, in una definizione che però a sua volta non solo rimanda problematicamente al concetto di verità, ma può essere esso stesso giudicato “vero” o “falso”, in quanto tale.
Vero “o” falso, non vero “e” falso.

In altre parole, l’ovvietà della domanda sulla verità è inevitabile. E la leziosa e stucchevole, oltre che banale forma di difesa dei sostenitori del relativismo conoscitivo (la pretesa ricollocazione dell’intero discorso entro l’ambito probabilistico dell’intepretazione, della narrazione, delle opzioni valoriali e così via), appare fin dalle prime battute del tutto inutile, in quanto ad ogni tentativo di dissoluzione si può sempre ripetere l’obiezione binaria: se tutto ciò che si pensa sia effettivamente riducibile o meno, e per quali motivi.

Il grande nemico, il braccio destro dell’Impero*, contro cui non possiamo stancarci di lottare è il Relativismo. In ogni sua forma culturale, a partire dalle più seducenti (e folli). E’ infatti un tratto tipico dei nostri tempi una sorta di auto-celebrazione sociale della follia (o meglio di una manifestazione specifica di psicosi) senza precedenti, in ogni angolo del pianeta ed in ogni forma per ora immaginabile. La destrutturazione narrativa della realtà, così come la negazione della ragione, è ormai un elemento dominante del mondo oggi socialmente condiviso. Molte forze sono al lavoro, in sinergia, per ridurre tutto ad interpretazione, a narrazione, a opinione, a “pancia”, a “post-verità”.

Tra tutte le dinamiche in campo (molte delle quali hanno una storia filosofica lunghissima) quella più sconcertante per la sua pervasività è senz’altro il riduzionismo para-scientifico, operante nella visione naturalistica del mondo e della scienza. Una visione ormai imperante, non c’è che ammetterlo, ed assunta acriticamente a dogma scientifico, in particolare dal darwinismo in poi, che prende ancora il nome di Naturalismo.

Nelle brevi riflessioni che seguono, vorrei dunque proporre una specifica critica al Naturalismo, intesa come una forma particolare di difesa con cui si può (e si potrà sempre) contrastare, dal piano logico, qualsiasi forma generale di Relativismo.

Il modello che seguiremo è quello offerto dal logico e filosofo Edmund Husserl (1859 –1938).

La critica al Naturalismo, non a caso, costituisce una delle costanti più significative del pensiero di Husserl: per il filosofo tedesco, l’antinaturalismo ha un invincibile fondamento logico ed una coerente esplicazione nell’esercizio del metodo fenomenologico, di cui Husserl è padre, e costituisce infine un legame teoretico incessante, che fa da ponte tra la gnoseologia e l’etica. Tralasciamo la pars construens del discorso husserliano, che richiederebbe un’esposizione sintetica di che cos’è la Fenomenologia, e concentriamoci invece sulla pars destruens.

Dalle prime opere, ma in particolar modo a partire dal lungo articolo La filosofia come scienza rigorosa (siamo nel 1911), il Naturalismo diventa per Husserl un bersaglio polemico costante ed inevitabile proprio in quanto profondamente ed inscindibilmente legato al Relativismo, che è al tempo stesso causa ed effetto dell’ideologia naturalista.

Nella Filosofia come scienza rigorosa Husserl sembra muoversi su due livelli (concettualmente distinti ma sempre intrecciati sotto il profilo dell’esposizione): quello della riflessione sulla crisi della filosofia e della denuncia delle illusioni del Naturalismo, dello Psicologismo e dello Storicismo (le tre grandi radici del Relativismo culturale e filosofico).

L’argomentazione di Husserl è lunga e complessa, tuttavia è possibile esporne una sintesi eseplificativa.

Mentre lo Storicismo assume sfacciatamente una posizione relativista, dal momento in cui afferma che la verità è figlia del tempo (e quindi mutevole nelle sue forme e nelle sue rappresentazioni storicamente date e circoscritte), lo Psicologismo, considerando i concetti ed i pensieri come meri eventi mentali, si declina in una forma di Naturalismo più sottile ed insidioso, che ci porta ad interpretare la Logica come una branca della Psicologia. Da ciò deriva che l’impossibilità di ammettere come entrambe vere proposizioni contrarie, per esempio, non deriverebbe tanto dalla validità in sė del principio di non-contraddizione, quanto piuttosto dal fatto che la psiche umana “si è evoluta” in un modo tale che le impedisce di pensare contraddittoriamente. Per l’ideologia naturalista, se noi abbiamo una certa concezione, una certa logica (e così via), ciò dipende in sintesi dalla nostra costituzione psichica, che potrebbe anche essere diversa: da qui l’abdicazione rispetto a qualsiasi forma di verità incontrovertibile.

Da questo punto di vista lo Psicologismo non è che una variante del Naturalismo, il quale considera le leggi logiche come espressione delle leggi di funzionamento fisiologico del cervello.

In base a questa prospettiva, quindi, la Logica deriva da una certa struttura del cervello e se – in conseguenza dell’evoluzione – dovesse cambiare la configurazione cerebrale, cambierebbe, di conseguenza, anche la Logica stessa.

Siamo già nel bel mezzo di un corto circuito logico abbastanza evidente: si sta logicamente affermando, con pretesa di verità, che la logica è relativa e che la verità non è assoluta.

Da quanto detto risulterà chiaro che, allo stesso modo, lo Psicologismo ed il Naturalismo sono per Husserl entrambe forme di quel Relativismo soggettivista che non intende mai il vero e il falso in modo assoluto, ma sempre in relazione alle strutture biologiche e psicologiche dell’uomo, anzi, in loro stretta dipendenza. Strutture storiche, se si parla di Storicismo, ma con esiti analoghi: lo Storicismo è ugualmente portatore di conseguenze relativiste là dove non ammette che il pensiero possa avere una validità al di fuori dei confini del contesto storico in cui esso sorge. Ma sempre, beninteso, tutta questa montagna di relatività viene affermata con pretesa di legislazione universale.

In questo modo, ciò che è vero per un essere vivente dotato di un certo tipo di cervello (e quindi di mente), potrebbe essere falso per un soggetto dotato di un differente tipo di mente e di cervello.

Siamo così al cuore dell’argomento di Husserl: questa – del Naturalismo – è una concezione insostenibile ed evidentemente contraddittoria. Per questa via infatti – osserva Husserl – si viene a negare l’idea di universalità e di necessità della ragione e si giunge alla conseguente liquidazione dell’idea stessa di verità. E’ come se Naturalismo, Storicismo e Psicologismo dicessero: “è vero che non esiste alcuna verità”, mantenendo però la pretesa di essere nel vero. L’incoerenza dello Psicologismo del Naturalismo e dello Storicismo sta insomma proprio nella pretesa di verità che esibiscono (così come, del resto, ogni altra teoria da queste derivata).

È secondo Husserl, in particolare, il Naturalismo – tra tutte le forme di Relativismo – il responsabile principale di un gravissimo ritrdo sia etico che filosofico dell’intero panorama culturale occidentale.

Così si esprime il Filosofo tedesco in Filosofia come scienza rigorosa (1911):

«L’incanto che esercita l’atteggiamento naturalistico e che soggioga noi tutti fin dall’inizio, rendendoci incapaci di astrarre dalla natura e di rendere così anche lo psichico oggetto di una ricerca intuitiva nell’atteggiamento puro, anziché psicofisico, ha […] sbarrato il cammino verso una grande scienza, inimitabilmente ricca di conseguenze, la quale è da un lato la condizione fondamentale per una psicologia pienamente scientifica e dall’altro il campo di un’autentica critica della ragione. L’incanto dell’originario naturalismo consiste anche nel fatto che esso rende a noi tutti così difficile vedere “essenze”, “idee”, o piuttosto, poiché noi già per così dire le vediamo costantemente, riconoscerle nel loro carattere specifico invece di naturalizzarle in maniera assurda».

Concludendo, l’illusione del Naturalismo era allora per Husserl (come oggi, per noi) un pericoloso ostacolo per la maturazione di un’etica solida ed interosggettivamente condivisa, fondata su una concezione forte di verità e di evidenza (e quindi di diritto naturale, di bene comune, di dignità umana, e così via). L’esclusività con cui, nella seconda metà del XIX secolo, la visione del mondo è stata determinata dallo sviluppo delle scienze “esatte”, delle quali il Naturalismo è il substrato comune, è stata la causa dell’allontanamento dai problemi decisivi di una vera umanità. Ma le scienze così intese, limitandosi ad una pretesa analisi “oggettiva” dei “fatti”, non sono state in grado di dire nulla intorno alle questioni generali che concernono il senso e i valori che devono orientare le scelte umane, individuali e collettive.

E’ così che il tramonto dell’Occidente, per usare le parole di Oswald Spengler, sta effettivamente assumento i contorni di una realtà ineluttabile. Una realtà che si potrà evitare solo a patto di operare incessantemente uno smascheramento dell’ideologia relativistica, oggi tanto in voga, del «politicamente corretto», per la quale tutte le culture e tutte le civiltà si equivalgono e ciascuno è libero di determinare da sé la relatà socialmente condivisa, magari col supporto di una neo-lingua appositamente ideata.

Da quanto sommariamente esposto risulterà chiaro che il Relativismo afferma che per ogni specie di essere vivente in grado di giudicare, ciò che è vero, secondo la sua costituzione o ai sensi delle leggi del pensiero, deve essere preso come vero in assoluto. Questa teoria è una sciocchezza, poiché implica che lo stesso contenuto di una sentenza (la stessa proposizione) può essere vero per un soggetto di specie homo e falso per un soggetto di una specie diversa. Ma lo stesso giudizio contenuto non può essere vero e falso “nello stesso tempo”. Il Relativismo non si accorge (o forse sì, ma fa finta di niente: e questo è ancora un altro problema) che utilizzando i termini di “vero” e “falso” afferma l’opposto del loro senso. In altre parole: affermando che “non esistono verità assolute”, afferma ciò che nega e nega ciò che afferma, cadendo in una contraddizione dalla quale non riesce ad uscire. Ed il naturalismo, portandoci a credere di trovarci tutti sullo stesso piano, insieme alle altre forme viventi del pianeta, porta la relativizzazione ontologica al suo massimo livello.
Se siamo nell’epoca della morte della verità e quello che rimane è solo il sentimento o l’istinto, che cosa ci differenzia dagli animali?

Questo va detto, chiaramente, a chi parla di “post-verità”: se non esiste verità, che senso hanno i discorsi umani?

Meglio allora tacere.

Wittgenstein docet.

Fonte: Enzo Pennetta

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