Senza Dio si cancella l’uomo. La verità che nessuno riesce più a dire.

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La teoria svedese dell’amore è un documentario di pregevole fattura realizzato da Erik Gandini, regista di Bergamo che vive da 20 anni in Svezia. La sua è una critica lucida e aspra della società svedese colpevole, a suo dire, di aver reso le persone infelici con politiche familiari che hanno promosso l’autonomia e l’indipendenza tra le persone. Oggi in Svezia più della metà della popolazione vive da sola, c’è il tasso più alto al mondo di inseminazioni artificiali da parte di donne single e può succedere che ci si accorga dopo 2 anni del suicidio di una persona dentro le mura domestiche. Il documentario nella prima parte punta a ricostruire le cause che hanno determinato tale situazione, addebitando il tutto alle politiche sulla famiglia risalenti ai primi anni ’70. Si è voluto di proposito creare una società di questo tipo dove gli esseri umani, affidandosi totalmente allo Stato, potessero essere liberi e svincolati gli uni dagli altri. Cosa fare adesso? Nella seconda parte il regista cerca di dare possibili soluzioni e lo fa, in un primo momento, seguendo un medico svedese che ha scelto di continuare il suo lavoro in Africa dove la povertà di risorse ancora costringe le persone a volersi bene e alla fine dando la parola al sociologo Bauman  che tira le fila del discorso superando il concetto di indipendenza con quello dell’interdipendenza.

Seppur apprezzando l’opera cinematografica e il coraggio che Gandini mette nell’affrontare tale realtà non si può nascondere un certo disappunto su almeno tre elementi del discorso che il documentario sembra nascondere di proposito.

Il primo è l’aggettivo “socialista” che doveva essere aggiunto alla “formula magica” delle politiche familiari svedesi degli anni 70. Il regista, però, preferisce svincolare, tralasciando tra l’altro di leggere il sottotitolo del libro che compare all’inizio del film dove chiaramente si legge, anche se in svedese, “politiche socialiste sulla famiglia”. Sarebbe stato sicuramente più onesto ammettere il totale fallimento dell’ideologia progressista degli anni 70 sull’uomo e sulla famiglia, magari ricordando che non è la famiglia in generale ad aver fallito, ma proprio quel modello proposto dalle politiche socialdemocratiche di sinistra.

Il secondo elemento di disappunto è l’aver nascosto il credo religioso del medico (figura bellissima e in netto contrasto con l’algidità svedese) che compare alla fine del film. Sappiamo, ma solo dopo averlo chiesto espressamente al regista,  che il dott. Erichsen è un evangelista praticante e che quasi sicuramente la sua missione in Africa è il frutto della sua fede matura. Di questo aspetto purtroppo nel film non c’è traccia.

Da ultimo la sociologia quale unica scienza capace di rispondere al grido di solitudine degli svedesi. La risposta di Bauman è di una banalità disarmante; alle sue considerazioni ci sarebbe potuta arrivare anche una nonna vissuta prima degli anni sessanta. Purtroppo nel film manca completamente la possibilità di Dio o di una qualsivoglia remota ipotesi di soprannaturale. Risulta evidente, anche per chi non professa un credo religioso, che l’uomo si è potuto liberare dagli altri uomini perché in precedenza si è liberato di Dio. Sono state le politiche socialiste, di cui sopra, atee e materialiste a produrre, dopo pochi anni, il regno della de-responsabilizzazione dove non si deve dare conto a nessuno e dove avere una relazione non è un presupposto necessario per avere un figlio. Un mondo solitario e disperato che oggi paga un conto salatissimo, quello di ritrovarsi a scrutare un abisso vuoto dove non c’è più posto per l’uomo e per la Speranza, dove solo la morte diventa l’unica consolazione.

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