La regola della misericordia. Sapersi regolare nelle virtù

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Tutte le virtù vanno esercitate in modo ragionevole, ponderato, prudente e giudizioso, ossia secondo la misura della retta ragione, senza lasciarci dominare da abitudini irriflesse, da impulsi istintivi, da interessi privati, da spinte caratteriali, da vani e irrazionali sentimentalismi, da emozioni incontrollate, dalla passione del momento, dalla paura, dal rancore, dall’invidia, dal piacere, dall’egoismo o da altri moti sconvenienti.

Ciò non vuol dire che in certe circostanze improvvise ed urgenti non siamo chiamati a prendere una decisione rapida e ad agire con prontezza e velocità. Anzi è in queste circostanze che si misura la nostra virtù, che per sua essenza comporta appunto la capacità di compiere il bene perfettamente, con prontezza e facilità, nell’occasione giusta.

In questi casi è di grande aiuto l’impulso che viene dallo Spirito Santo, che ci è donato insieme con la virtù della carità. Questa perfezione nell’agire si nota bene nel comportamento dei Santi, e noi siamo chiamati ad imitarli.

In questi casi, senza che il nostro agire cessi di essere guidato e regolato dalla prudenza, che è la regina delle virtù morali, veniamo nel contempo ad essere soggetti ad una regola superiore, che è quella della carità, la quale, avendo per fine la nostra santificazione, come figli di Dio, è a sua volta guida della prudenza, la quale ha un fine semplicemente umano, che è appunto quello di agire secondo ragione. La carità è la regina delle virtù teologali, le virtù tipiche dell’etica cristiana e quindi è in senso assoluto la regina delle virtù, dalla quale dipendono le virtù morali.

Benchè dunque il cristiano viva sotto l’impulso della carità, caritas Christi urget nos, non è mai dispensato dall’esercizio della ragion pratica e quindi della prudenza nel regolare il suo agire, tanto che si può dire che lo stesso esercizio della carità dev’ essere conforme a ragione, anche se si notano ogni tanto nei Santi delle azioni, che sembrano folli, imprudenti, urtanti o scandalose, al di fuori delle regole comuni, azioni, che loro soli si possono permettere, avendo ricevuto a tal fine delle grazie eccezionali. Ma poi, a guardar bene, ci si può accorgere che quelle azioni sono caratterizzate da grande perfezione, saggezza e carità.

Virtù teologali e virtù morali

La virtù della misericordia, per poter essere ben compresa e praticata, va inserita in questo quadro orientativo e valutativo. Essa, per sua natura, comporta un donare al misero e un perdonare al peccatore, che non conosce limiti. Vi sono virtù umane che comportano un mezzo tra due estremi o eccessi – virtus stat in medio -. Questo punto medio concilia due tendenze opposte, ugualmente viziose, ma per motivi opposti. Esso è stabilito dalla prudenza o dalla giustizia, in base al fine della virtù che entra in gioco, con eventuale riferimento alle tendenze emotive corrispondenti, come, per esempio, l’ira, la paura o il sesso.

Così la sobrietà sta in mezzo tra l’ingordigia e l’inedia; la castità sta in mezzo tra la frigidità e la libidine; la liberalità sta in mezzo tra l’avarizia e la prodigalità; la mitezza sta in mezzo tra la viltà e la violenza; la fermezza sta in mezzo tra la debolezza e la rigidità; la severità sta in mezzo tra la crudeltà e la mollezza, e così via.

E questo, perché la condotta umana è regolata da leggi morali, le quali, in base al fine dell’uomo, stabiliscono all’azione un confine o un termine o un limite, che deve essere raggiunto, quindi né superato, né fallito, senza che l’agente commetta colpa morale.

Per esempio, nel cibarci dobbiamo tener conto di quale e quanto cibo abbiamo bisogno: se volutamente ci nutriamo di più o di meno da quanto è prescritto da questa misura, o comunque contravvenendo alla nostra dieta, pecchiamo nel vizio della gola. Se il giudice irroga al reo una pena troppo severa o troppo mite, manca alla giustizia. E così via.

Esistono invece virtù, soprattutto quelle teologali, le quali non comportano il rischio dell’eccesso, perché non si tratta di stabilire un termine o punto di riferimento, né di conciliare due opposti, ma di accrescere all’infinito la qualità e il livello della virtù, per il fatto che qui l’uomo imita pro posse l’infinita bontà divina o si prefigge di amare Dio per quanto è amabile. Quantum potes, tantum aude, quia est maior omni laude, dice S.Tommaso del SS.Sacramento. Ebbene, la misericordia si trova tra queste virtù.

Tuttavia, ciò non vuol dire che, al lato pratico, di fatto, anche la misericordia non debba sottostare ad una regola, che ne limita il flusso verso il suo oggetto o destinatario o decide a chi rivolgersi e a chi non rivolgersi. Chi si deve legare e chi si deve sciogliere.

Si tratta di un limite o un freno, che non viene dal suo interno, ma che le è imposto dall’esterno e quindi la rende impossibile in date condizioni. La misericordia divina di per sé è onnipotente; ma di fatto essa non si impone con la forza a chi non la vuole e pertanto può essere bloccata dalla malizia di colui al quale sarebbe destinata.

Nell’esercitare la misericordia verso il prossimo, dobbiamo imitare il comportamento di Dio. Nella Scrittura, abbondantissimi sono i passi, nei quali si esalta la grandezza della divina misericordia e si narrano le sue opere. Ma con altrettanta chiarezza la Bibbia ci dice che non sempre Dio fa misericordia, ma a volte castiga; per cui alterna questi due interventi opposti secondo il suo misterioso beneplacito: “Avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia” (Es 33,19). “Dio castiga ed usa misericordia” (Tb 13,2). “Tanto grande è la sua misericordia quanto grande è la sua severità” (Sir 16,13).

Alternanza di misericordia e giustizia

Dobbiamo chiederci che cosa è che ci deve portare ad esercitare ora la misericordia, ora la giustizia e qual è il criterio o la regola per operare questa distinzione o alternanza. Ma è chiaro che, prima di rispondere a queste domande, è bene che ricordiamo brevemente qual è la differenza tra queste due virtù, escludendo gli errori contrari.

Sia la misericordia che la giustizia sono virtù che devono nascere dalla carità e che sono finalizzate al bene del prossimo. Si tratta di due doveri fondamentali della condotta umana. La misericordia sovviene gratuitamente ai bisognosi senza esigere compenso. Si esercita soprattutto nella premura per gli altri e nella disposizione a tollerare o scusare le debolezze altrui e a perdonare i torti ricevuti. Dal punto di vista emotivo, essa si serve della compassione.

La giustizia consiste in generale nel rispetto del diritto e nell’obbedienza alla legge. Essa fa riferimento a due cose: ciò che noi dobbiamo agli altri e ciò che gli altri devono a noi. La prima cosa è la volontà costante di ricompensare, di rendere o di restituire a ciascuno ciò che gli spetta o gli appartiene di diritto, secondo i suoi meriti e le sue necessità. La seconda, sta nell’esigere o rivendicare dagli altri ciò che ci spetta di diritto o secondo i nostri meriti e necessità.

Atti della giustizia sono: la mitezza e il rispetto nel trattare con gli altri; la socievolezza, la laboriosità, la fedeltà, lo stare ai patti e al proprio posto, l’apertura al dialogo, la riparazione agli errori e ai torti fatti agli altri, il dolore o penitenza per i per propri ed altrui peccati, l’espiazione o sconto della pena e della colpa, il sacrificio cultuale, l’accettazione del giusto castigo, l’obbedienza all’autorità, la difesa di se stessi o degli altri, mediante un’ira moderata, nella modalità del coraggio; la pazienza nelle avversità; la docilità nell’apprendere, l’umile disponibilità a correggersi, il comando prudente, il servizio diligente secondo la nostra competenza, la giusta remunerazione del lavoratore, la resistenza all’oppressore e al malvagio, la liberazione da un potere tirannico, la virtù militare.

Virtù fondamentali e virtù d’emergenza

Prima di affrontare il nostro tema, facciamo un’altra premessa, in relazione alla necessità che abbiamo di esercitare le virtù. Al riguardo, occorre distinguere due generi di virtù. Alcune devono essere sempre esercitate, perché senza di esse la vita morale non potrebbe esistere. E queste si possono chiamare virtù fondamentali o vitali. Invece, altre virtù devono essere esercitate quando si presentata l’occasione, quella che S.Paolo chiama kairòs, l’occasione favorevole (II Cor 6,2), mancando alla quale, cadremmo nel peccato. Possiamo chiamarle virtù di emergenza.

Ebbene, la carità e la prudenza stanno tra le prime: la carità, perché è alla guida delle virtù che ci conducono a Dio come nostro fine ultimo soprannaturale; la prudenza, invece, è la regna delle virtù umane. Invece la giustizia e la misericordia si trovano tra le seconde.

Infatti, queste virtù riguardano il nostro rapporto con gli altri, cosa alla quale non siamo tenuti in ogni momento, ma parte del nostro tempo dobbiamo dedicarlo anche alla cura di noi stessi e al culto di Dio. Ma anche quando entriamo in relazione con gli altri, dobbiamo saper discernere di volta in volta quale virtù occorre esercitare. E’ qui che bisogna saper distinguere la giustizia dalla misericordia.

A tal riguardo, considerando le quattro virtù morali o cardinali, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, sembrerebbe non esserci spazio per la misericordia. Invece la Bibbia ama associare la misericordia alla giustizia (II Mac 1,24; Sal 112,4; Mt 23,23).

Il concetto biblico di “giusto” (zaddìq) è talmente ampio, che può includere in sé quello del “misericordioso”. Pare di trovarsi davanti a due gradi di bontà: uno inferiore, la giustizia, che ripaga o ricompensa secondo i meriti; e l’altro, la misericordia, che dona anche a chi non può ricompensare o non può pagare. Vedi per esempio la parabola evangelica degli invitati alle nozze (Mt 22,1-14).

“Giusto”, in questo senso, è colui che esercita tutte le virtù; è colui che in tutto e perfettamente obbedisce a Dio ed alla sua legge. In tal senso, la giustizia diventa una virtù fondamentale, che le riassume tutte, come la carità e la prudenza. Il suo culmine è la santità.

La giustizia si esprime sia nel suo senso specifico giuridico, che troviamo nella Latinità – unicuique suum – , sia in altre forme, come la mitezza, l’onestà, la lealtà, la sincerità, la generosità, la munificenza, la benignità, la benevolenza, la magnanimità, la liberalità, ecc. Tuttavia, il rapporto che più fa problema, oggi in modo particolare, è quello della misericordia con la giustizia, intesa soprattutto come severità o come castigo, perché sembra in contraddizione con la misericordia.

Si stenta a vedere il castigo o la severità come giustizia, ancor meno come manifestazione di bontà o carità, li si scambia per rancore, vendetta, violenza o crudeltà, quindi con l’ingiustizia. In realtà non è la severità come tale che si oppone alla misericordia, ma la severità ingiusta. Per capire come la misericordia si concilia con la giustizia, occorre tener presente che mentre la misericordia promuove il bene, la severità difende dal male e gli impedisce di nuocere.

Del resto, da molti passi della Scrittura, risulta evidente la differenza tra la misericordia e la giustizia, secondo quei significati che ho elencato sopra. In alcuni casi, queste due virtù sono messe assieme, ma nel contempo è evidente la netta distinzione e quasi contrapposizione, perché, al posto della giustizia, si parla di “ira” (II Mac 2,5; Sir 5,6; 6,12) e, come abbiamo visto, di “castigo”. Infatti misericordia vuol dire affetto, tenerezza, sollievo e dolcezza; mentre ira significa aggressione, durezza, pena e severità.

E’ evidente allora che per la Bibbia le due virtù vanno esercitate alternativamente, a seconda delle circostanze e delle persone, alle quali sono applicate o indirizzate. Questo è il punto della nostra questione.

Idee false sulla misericordia

A proposito della misericordia, bisogna distinguere quello che Dio avrebbe potuto fare, se avesse voluto, in base alla sua libertà ed onnipotenza (de potentia absoluta), da ciò che ha effettivamente fatto e fa (de potentia ordinata) ed è narrato dalla Scrittura. Occorre cioè distinguere la misericordia come possibilità astrattamente intesa, dalla misericordia come concretamente, storicamente e di fatto è esercitata da Dio e dev’essere per conseguenza esercitata da noi, naturalmente conservate le proporzioni.

Bisogna dire allora che, secondo la Scrittura e il Magistero della Chiesa, mentre Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto salvare tutti gli uomini, anche se offre a tutti la possibilità di salvarsi, salva di fatto solo alcuni, i “predestinati” o gli “eletti”. Sicchè esistono dannati nell’inferno[1], cosa che è molto utile a sapersi per noi, perché ci rende più diligenti nell’evitare il peccato e nel chiedere la divina misericordia.

Oggi circola largamente un’eresia, la quale riduce quella possibilità a dato di fatto, per cui sostiene che tutti sono perdonati ed oggetto della misericordia, e quindi si salvano. Ciò comporta, come dice Raniero Cantalamessa, che Dio “non castiga”. La giustizia divina è intesa da Ermes Ronchi, solo come quella “giustificazione”, della quale parla S.Paolo in Rm 3,21, effetto della “giustizia di Dio”, che qui, ma soltanto qui, coincide praticamente con la misericordia.

Invece Ronchi prende a pretesto questo passo per sostenere sic et simpliciter che la giustizia e la misericordia coincidono e non esiste una giustizia distinta, soprattutto punitiva, distinta dalla misericordia. Lutero interpreta bene questo passo di S.Paolo, salvo a cadere nella sua ben nota eresia dell’inutilità o impossibilità delle opere buone.

Tuttavia Lutero ha il buon senso di riconoscere che esiste anche la giustizia in senso punitivo, per cui ammette l’esistenza di dannati nell’inferno. Ronchi, invece, sotto l’evidente influsso di Rahner, il quale sostiene che tutti si salvano, perchè tutti sono in grazia, sbaglia ancora di più di Lutero, che almeno ammette l’esistenza di dannati.

Questo ritorno di origenismo è molto probabilmente dovuto ad una falsa interpretazione della “chiamata universale alla santità” del n.40 della Lumen Gentium. Qui Rahner ha operato un indebito passaggio dalla possibilità all’attualità o fattualità. Dal fatto che tutti sono chiamati, Rahner ha indebitamente dedotto che tutti corrispondono alla chiamata, dimenticando l’altro passaggio essenziale di Cristo stesso, “molti i chiamati, ma pochi gli eletti” (Mt 22,14).

Così Rahner ha avuto la sfrontatezza di contraddire le formali ed esplicite parole di Nostro Signore e purtroppo non c’è stata alcuna autorità che sia riuscita a farlo tacere, ma questa eresia si è ormai diffusa dappertutto, con immenso danno per le anime.

La radice profonda della differenza tra misericordia e giustizia

E’ a questo punto che si pone la questione centrale del nostro articolo: in base a quale criterio dobbiamo passare dall’esercizio della misericordia a quello delle altre virtù e viceversa? In particolare, – è il confronto più delicato – qual è il principio, il criterio o la regola, in base ai quali dobbiamo passare dalla misericordia alla giustizia e viceversa?

La ragione ultima della distinzione tra misericordia e giustizia sta nella opposizione tra il bene e il male, tra la bontà e la cattiveria. Nel prossimo, come anche in noi stessi, si alternano nel tempo due casi o due possibilità: o accogliere il bene che ci viene offerto e così agire bene o rifiutarlo, peccando.

Ebbene, mentre se vediamo le giuste disposizioni nell’altro, ossia lo vediamo benevolo con noi, gli facciamo volentieri misericordia avendone bisogno ed egli, si suppone, la accoglie con gratitudine; se invece egli nutre rancore verso di noi, noi dobbiamo continuare a volere il suo bene; ma in tal caso questo bene lo compiamo nella forma della giustizia, o come difesa nostra o di altri o, nel caso che siamo suoi Superiori, nella forma della punizione.

Ciò che dunque ci indica quando dobbiamo essere misericordiosi e quando dobbiamo essere giusti, è l’atteggiamento stesso del prossimo. Non possiamo essere misericordiosi con chi non vuol ricevere misericordia o non merita misericordia per la sua arroganza o infingardaggine. Una moderata severità può scuotere la coscienza del prossimo, richiamarlo alle sue responsabilità, inculcargli un salutare timore, fargli sentire la gravità della sua colpa, indurlo a correggersi. Occorre però fargli capire che agiamo così per il suo bene.

Un motivo per passare dalla severità alla misericordia è dato dal fatto che il peccatore si pente. Si può tollerare chi pecca per fragilità o ignoranza. Ma è stolto e controproducente tollerare chi pecca per malizia; si diventa conniventi e complici di lui.

D’altra parte, in molti casi, soprattutto se dubbi, è bene cominciare con la l’accoglienza, comprensione, la misericordia e la benevolenza. Ma se il peccatore si manifesta apertamente, è ostinato e non si pente, si deve passare alla severità, fino a rompere i rapporti con lui, come insegna S.Giovanni: “Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo” (II Gv 10). Oppure si deve cessare di perdonare, sull’esempio dell’Apostolo: “Quando verrò di nuovo, non perdonerò più” (II Cor 13,2).

Onesti con Dio[2]

Non dobbiamo approfittare slealmente della bontà divina, per poter peccare impunemente. Dio può chiudere un occhio, ma non tutti e due. Non è vero, come credeva Lutero, che Dio distoglie lo sguardo dai nostri peccati, per guardare solo a Cristo, ma, come un medico che conosce la malattia, in Cristo il Padre guarda bene proprio ai nostri peccati, proprio per toglierli. Se no, che cosa cancella? Un chirurgo non può operare su di un paziente volgendo lo sguardo dall’altra parte.

Pretendere di gabbare Dio è il massimo della stoltezza, della sfrontatezza e dell’empietà. Non basta negare l’esistenza dell’inferno per non andare all’inferno. Anzi, è proprio così che ci si va. Si deve invece coltivare il santo timor di Dio, tanto lodato dalla Bibbia, timore che non esclude affatto l’amore e la confidenza, ma li produce e li fonda.

Leggiamo questo saggio avvertimento del Siracide: “Non dire: ‘La sua misericordia è grande, mi perdonerà i molti peccati’, perchè presso di lui ci sono misericordia e ira, il suo sdegno si riverserà sui peccati” (5,6). Dio porta pazienza e attende la conversione; ma se ci ostiniamo nel peccato, e non cerchiamo di riparare, la sua ira può piombare su di noi da un minuto all’altro, quando meno ce la aspettiamo, come avverte Cristo nel Vangelo.

Il fatto che, anche dopo esser stati perdonati, rimanga la nostra tendenza a peccare, questa non è ancora peccato, e quindi non va confusa col peccato, come male intendeva Lutero. Certo, continueremo a peccare, ma se ogni volta chiediamo perdono a Dio, Egli è sempre pronto a perdonarci, peccassimo anche sette volte al giorno.

Così, quando pecchiamo, dobbiamo avere gli stessi sentimenti del figliol prodigo pentito. Dobbiamo cioè anzitutto riconoscere di meritare una pena ed esser pronti ad espiarla. Sta al Padre, contento e commosso per questo nostro atteggiamento onesto e leale, donarci la sua misericordia.

Se infatti come faceva Lutero, quando pecchiamo, ci aspettassimo subito la misericordia, come fosse un diritto, senza dover scontare alcuna pena o far penitenza, questo vorrebbe dire che abbiamo un concetto sbagliato della misericordia, perché in tal caso non sarebbe più una grazia, un dono gratùito del Padre.

Commesso un peccato, ciò che ciò spetta di diritto è la pena, non la misericordia. Non sta a noi pretendere la misericordia, ma sta a Dio donarcela tanta e quanta ne vuole. La misericordia diventa falsa e indiscreta, quando viene esigita da chi non la merita o viene usata con chi non la merita o ne approfitta per evitare la pena e per diventare peggiore. Il fatto che la misericordia sia gratuita, non vuol dire che noi non dobbiamo meritarla e chiederla con cuore contrito e spirito umiliato, giacchè il pentimento stesso è dono della misericordia di Dio.

Come comportarci

Così dobbiamo fare noi col prossimo. Questo vuol dire essere misericordiosi. La Chiesa è aperta a tutti, accoglie tutti e non esclude nessuno, ma a patto che dimostri buona volontà. La Chiesa, come dice S.Paolo, prova tutto e tiene ciò che è buono.

I lupi devono essere tenuti lontano dal gregge. Misericordia per le pecore, severità verso i lupi. Non tutti gli uomini sono in buona fede e cercano Dio, ma ci sono anche gli anticristi e i servi di Satana. Chi non sa distinguere gli uni dagli altri, non faccia il Superiore. Non accetti nessun incarico, che comporti il dovere di giudicare gli uomini e le dottrine. Gli impostori e i corruttori devono essere smascherati e puniti o quanto meno fermati, perché cessino di fare del danno.

Chi è correggibile, va corretto; ma chi è incorreggibile, perfido, seduttore, ambizioso, litigioso, intrigante, doppio, sleale, bugiardo, ipocrita, violento, ostinato, malvagio o empio, anche se dovesse occupasse alti gradi della gerarchia, è nella Chiesa abusivamente, è indegno di appartenerle e se vi fa parte, la sua condotta è solo apparenza, finzione o inganno.

E’ solo un infiltrato e una spia di Satana e dei nemici della Chiesa, come i terroristi dell’ISIS, che entrano clandestinamente in Europa, fingendosi poveri bisognosi o perseguitati dalla dittatura del loro paese. Se dobbiamo essere aperti a chiunque o al primo che capita, perché chiudiamo a chiave le porte delle nostre case?

Ma c’è da osservare anche che chi non sa dosare la misericordia, non sa dosare neanche la severità. Facilmente egli passa dalla debolezza alla violenza, perché gli manca il criterio dell’alternanza e della misura, che sono le idee chiare e il saggio discernimento, che consentono di fissare, di volta in volta, il punto medio o di equilibrio, che le colleghino e le moderi, ma si lascia prendere dalla passione e dalla faziosità. Questo punto medio è la carità.

Una persona del genere, non essendo capace di frenare la misericordia quando occorre, non è neppur capace di frenare la severità quando occorre. Mancando del criterio per conciliare l’una con l’altra, finisce col passare da un eccesso all’altro. Diventa debole con i forti e forte con i deboli. Opponiamogli quello che Virgilio dice della missione di Roma: parcere subiectis et debellare superbos.

[1] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona, 2010; Inferno e dintorni, Atti del convegno teologico internazionale organizzato a Firenze dai Francescani dell’Immacolata nel 2008, a cura di S.Lanzetta, Cantagalli, Siena, 2010.

[2] Dal titolo di un libro, famoso negli anni ’60 del secolo scorso, Honest to God, del teologo protestante americano Harvey Cox, tradotto in italiano con “La città secolare”.

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