LUMEN FIDEI. L’ordine sacerdotale, grande dono alla Chiesa.

Questa lettera non fu diffusa

per difficoltà organizzative

ed oggi la proponiamo con gioia.

 

 

Settembre 2013

Cari amici Sacerdoti e Cari Laici,

riflettendo sulla presentazione all’Enciclica Lumen Fidei di Papa Francesco, scritta da Mons. Rino Fisichella (Libreria Ed. Vaticana, San Paolo, 2013) mi sono soffermato sulle parole severe, categoriche e vere: «La fede sembra non aver più importanza nella vita delle persone, e spesso anche per molti credenti credere non incide nelle scelte di vita» (LF., Introduzione,13). La fede è la luce capace di rischiarare anche dove vorrebbe trionfare l’ombra della morte (LF, 1).

Mons. Fisichella presenta il Logo dell’Anno Santo Straordinario

Da Abramo a Cristo la fede è Amen a Dio, capacità di sostenere la prova. Se ci volgiamo indietro,

crescendo gli anni alle nostre spalle, vediamo che quando non abbiamo saputo sostenere la prova è stato perché la nostra fede ha vacillato. E la nostra fede ha vacillato quando è diminuito l’amore per Dio e per il prossimo.

Gesù non ha mai promesso la felicità in questa vita, ma nell’altra, così che «chiunque avrà lasciato o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto, e avrà in eredità la vita eterna» (Mt. 19, 29).

Ma quando queste parole accadono nella vita del fedele di Cristo e del sacerdote? Quando gli viene chiesta la massima affidabilità. Se è vero che «la prova massima dell’affidabilità dell’amore di Cristo si trova nella morte per l’uomo; se dare la vita per gli amici è la massima prova di amore (cfr. Gv. 15, 13), Gesù ha offerto la sua per tutti … Ecco perché gli Evangelisti hanno situato nell’ora della Croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino» (LF, 16)

Quando ad un sacerdote è chiesto di passare, dalla professione di fede e dalla celebrazione dell’altare, all’ora della prova, quella è a un tempo la prova della fede e dell’amore: «Mi ami tu più di costoro?». Fede, coinvolgimento (cuore), azione, ci dice Papa Francesco.

Nel momento della prova si scopre con quale misura fino a quel momento abbiamo veramente misurato (cfr. Mt. 7, 2).

La così detta crisi di fede è il momento in cui si « misura » la fede e si vede se questa fede è fede nell’Amore di Dio o l’inseguimento di sogni umani rivestiti delle parole della religiosità, ma lontani dalla Parola di Dio.

Quante volte, dall’ambone, avremo commentato il tradimento di Giuda o di Pietro, ma quando Gesù ci ha chiesto di bere il calice, – «potete bere il calice che io sto per bere?» (Mt. 20, 22)-, ci siamo tirati in dietro. Non si trattava più di bere da un calice d’oro (o di legno come a volte si usa oggi per un malinteso senso di povertà), ma di sentire la corona di spine, le frustate, i chiodi, gli insulti.

Guardando il crocifisso con sincera adorazione, poi, il Signore ci chiede di partecipare alla croce: «potete bere il calice che io sto per bere?». Ma quando ciò ci è accaduto abbiamo forse avuto paura. Abbiamo mascherato più volte questa incapacità, -che è non-fede-, con molte scusanti di carattere personale. Tutte vere o tutte possibili, ma ci siamo dimenticati che in quel momento Gesù attendeva da noi un “sì” fermo. E noi, schiavi della nostra solitudine esistenziale – e quale uomo non è solo!- abbiamo cercato di consolarci con le piccole gioie del mondo, tornando, -dice S. Francesco con una espressione molto cruda-, «al vomito della nostra volontà». Ma Gesù avrebbe voluto solo una cosa; che gli avessimo chiesto: «Signore, salvami!». Quello sarebbe stato l’atto sacerdotale più grande. In quel momento non lo compimmo.

Fede e Amore, ci chiede il Papa nella sua Lettera. Fede e Amore è il messaggio della Persona divina di Gesù. Ma quante vocazioni ancora oggi si perdono; quanti lasciano il ministero anche solo un anno dopo averlo intrapreso. Il fatto è che la stessa vita cristiana, anche per chi si sposa, è sequela della croce di Cristo, ma anche imitazione della vita di Cristo e ciò non sembra più essere patrimonio della fede pratica nelle nostre comunità e nelle nostre famiglie.

Ora cosa possiamo fare? Io cosa posso fare? Il dialogo tra Dio e noi, tra Cristo e me, non è chiuso, anche se siamo scesi dalla sua barca. Egli, oggi, si rivolge a tutti i suoi, anche ai sacerdoti che hanno lasciato il ministero, perché ripartiamo tutti …, tutti, dalla Fede e dall’Amore.

La vita, per il cristiano credente e non incredulo, ci dà ancora la possibilità di vivere profondamente questa nuova chiamata di Gesù là dove ora Egli ci ha posti. Però io, ciascuno di noi, dobbiamo vivere ripartendo non dalla nostra volontà, ma dai segni che Lui ci pone davanti: «Cosa vuoi che io faccia?».

Dio non sempre parla, ma sempre ci dà dei segni. Tutto quanto ci accade non è a caso. Allora prego; apro il suo Vangelo; canto con la mia Comunità; vedo e incontro chi è nel bisogno; gli faccio spazio nel mio cuore e nei gesti quotidiani; mi ricordo che Lui mi ha scelto e non tanto che io abbia scelto Lui.

Proprio perché è Lui ad avermi scelto, io ho sempre speranza del Suo perdono!

Mi rammento delle numerose fotografie in occasione della professione per i voti perpetui, dell’ordinazione diaconale e poi sacerdotale, dei festeggiamenti, delle testimonianze. Lo stesso che avviene per molti matrimoni. Se siamo seri non possiamo negare che tutto ciò sia commovente, ma anche fondamentalmente effimero e superfluo. Sarebbe come se Gesù all’Ultima Cena, o sulla Croce, avesse voluto essere fotografato.

Abbiamo trasformato la sequela di Cristo sulla Croce in un film di successo, che, come tutti i film, poi si perde nel nulla.

Gesù festeggiò il suo sacerdozio lavando i piedi ai discepoli.

Non si vogliono negare i gesti semplici di gioia per chi inizia un cammino, ma occorre tener presente che è un cammino verso il martirio (= testimonianza). Il cristiano, e chi guida i cristiani, il sacerdote, è incamminato al martirio, come Isacco, come Gesù, come i santi.

Il Papa qualche giorno fa rispose così alla domanda: «Chi è Papa Bergoglio?» così:

«Forse sono un po’ furbo, mi so muovere, ma sono un peccatore …

un peccatore al quale il Signore ha guardato».

Cosa dovrò rispondere io? «Sono un peccatore che ha smesso di guardare il Signore, ma del quale il Signore non si dimentica. Un peccatore che può, che deve nuovamente rispondere a quanto Gesù gli chiede. Un peccatore che ora deve riaprire l’orecchio del cuore e ascoltare».

Scusate se ritorno costantemente su questo aspetto. Ma è una verità dimenticata e credo fermamente che il Signore mi stia chiedendo di farla presente a tutti. Ai fedeli, ai sacerdoti che non esercitano più il ministero, a quelli che sono in crisi, a quanti si preparano al sacerdozio perché sappiano invocare con fiducia «Signore, salvami!», perché comunque, in ogni situazione, sempre si presenterà il bivio davanti al quale cedere o chiedere aiuto.

Siamo comunque Suoi e Suoi pastori, benché oggi non svolgiamo più nella comunità i servizi propri del sacerdote; non possiamo fare finta di niente. Non illudetevi, se qualcuno si illudesse: Nessuno mai volta pagina. La tua vita è tutta davanti a te come è davanti a Cristo, che ti guarda con amore!

Vuoi proprio rifiutare questo amore ancora una volta? Occorre ricordarcelo e vivere con Gesù, misticamente, questa vocazione.

Sono anche consapevole che queste parole disturberanno non pochi fratelli che credono di aver chiuso con un “passato”. Un poco come molte persone che si separano dalla sposa o dallo sposo e pensano di rifarsi una vita. Scusate. Ho incontrato molte persone separate e so che non funziona così. Tu sei sempre sposato e puoi dimenticarlo solo se ti “ubriachi”. Anche perché forse non lo sai, ma prima di essere sposa e sposo, sei fratello e sorella della persona che hai sposato. Puoi dimenticare di amare tua sorella? Già sei unito con lei, con lui in Gesù. Il Matrimonio rende più esclusivo questo legame cristiano.

Il Signore ti ha preso … per sempre. Questo vale anche per te!

In modo diverso, ma con qualche analogia di carattere esistenziale, anche il sacerdote, che lascia il ministero, non può dimenticare non solo di essere fratello di quanti sta “lasciando”, ma un fratello speciale perché Gesù l’ha reso speciale. Puoi tu smettere di amare le pecorelle che ti sono state affidate? No, non puoi smettere.

La strada è a senso unico: nessuno, battezzato, o sposato o ordinato, può illudersi di tornare indietro. E allora vale la pena di alzare lo sguardo, gli occhi, percorrere la strada e incontrare, anche se con fatica, gli occhi di Gesù; come la Veronica, quando asciugò le ferite sul volto del Signore, sulla Via dolorosa.

Per uno che cade, un altro deve rialzarsi. Sempre così e sempre di più.

Ora molti di noi hanno nuove responsabilità e, spesso, una famiglia cui attendere con amore. Ringraziamo il Signore che attraverso la Sua Chiesa ci ha fatto questi doni venendo incontro alla nostra debolezza, ma proviamo a viverli con un cuore sacerdotale.

Anche a noi Gesù, attraverso Papa Francesco, rivolge questa Lettera sulla Fede. LF, 19 con San Paolo ci chiede: «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto?». Il sacerdozio che è un suo dono, ed io ho tentato di rimandarlo al mittente. La famiglia? Anche questa è un suo dono e verso di essa non ho solo una responsabilità umana, ma una paternità spirituale, che non posso ignorare. Nulla che io abbia o io sia viene da me e di tutto posso solo rendere grazie. Ho la salute? Grazie, Signore.

Nel ministero quante cose belle e importanti ho imparato, ed ancora oggi mi sono preziose, anche nella mia vita di relazione, lavorativa e spirituale, per me e per gli altri! Posso metterle a frutto. Grazie, Signore.

Ma per cosa sto usando questi doni? Per il Tuo Regno? Ogni giorno devo ripartire da questa domanda. Poiché il mio regno non è di questo mondo!

Ma io non capisco …

Ma poi il Papa ci dice che parlare della fede «spesso comporta parlare anche di prove dolorose, ma appunto in esse San Paolo vede l’annuncio più convincente del Vangelo, perché è nella debolezza e nella sofferenza che emerge e si scopre la potenza di Dio, che supera la nostra debolezza e la nostra sofferenza» (LF. 56).

Ebbene, certo, lasciando il ministero non siamo stati dispensati dalla sofferenza e dall’annuncio delle Beatitudini, che ne sono la vera prospettiva. Proprio da qui ripartiamo nel seguire il Signore. Ci affidiamo nuovamente al Signore.

Siamo attenti alle sofferenze? Apriamo le braccia e il cuore ai nostri familiari – che a volte possono starci scomodi- ai colleghi di lavoro, agli ammalati, alle persone che vivono il dramma della morte di un figlio, della perdita del lavoro, della separazione?

Quante occasioni abbiamo per esercitare ascolto, consiglio, misericordia, amicizia e offrire ogni nostra sofferenza per loro! Questo è un atto sacerdotale.

Quante occasioni abbiamo per scegliere secondo il cuore di Dio, ancora una volta! «All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che gli spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni sorta di sofferenza per aprire in essa un varco di luce» (LF. 57).

E allora, con gioia, ogni primo lunedì del mese, idealmente ritroviamoci in adorazione nella chiesina di quel monastero, che ci ospita, e ravviviamo la luce della fede.

 

Ave Maria, R. D.

 

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