Argentina, il cambiamento nella patria del Papa

argentinadi Stefano Magni (LaNuovaBQ)

In Argentina è finita l’era del “Kirchnerismo”, durato per 12 anni. Nelle elezioni di domenica, il candidato del Fronte della Vittoria (peronista di sinistra, aspirante successore di Cristina Kirchner), Daniel Scioli, è stato battuto dal candidato liberale Mauricio Macri. La dinastia, inaugurata nel 2003 da Nestor Kirchner (morto nel 2010) e dal 2007 proseguito dalla moglie Cristina Kirchner, era la risposta argentina alla grande crisi dei primi anni 2000. Invece di resuscitare il paese, il loro governo si è ora concluso con una sonora sconfitta, prima economica e ora anche politica.

In primo luogo è bene vedere perché, nonostante tutti i dubbi e i passi indietro, la dinastia Kirchner sia rimasta così saldamente al potere così a lungo. La prima spiegazione è nella natura devastante e profonda della crisi economica del 2001-2002, le cui cause non sono ancora comprese appieno dagli argentini che l’hanno subita e dividono i commentatori economici. Per capire gli effetti, invece, basta una sola cifra: il 60% degli argentini, nel 2002, viveva al di sotto della soglia di povertà. La ricetta di Nestor Kirchner era semplice e incardinata nella tradizione populista argentina: nazionalizzazioni, protezionismo, redistribuzione della ricchezza dai ricchi ai poveri. La sua vittoria è stata immediata. A dodici anni di distanza, si può ben affermare che l’Argentina abbia conseguito il primo obiettivo dei peronisti: la soglia di povertà è stata ridotta dal 60% del 2002 al 21% nel 2006 sotto l’amministrazione Nestor Kirchner e dal 21% del 2006 all’11,4% attuale sotto Cristina Kirchner. Quanto alla distanza fra ricchi e poveri, essa si è ridotta dal 43,6 del 2001 al 42,3 attuale (Gini Index). Se il successo di un’amministrazione si misurasse solo sulla riduzione della povertà e una miglior redistribuzione della ricchezza, la dinastia Kirchner sarebbe la migliore dell’America Latina.

In politica, però, contano tanti altri fattori. Il primo dei quali è la speranza di avere un futuro più roseo del presente. Anche in questo caso, sulla carta, l’Argentina presenta delle statistiche formidabili, con tassi di crescita mediamente attorno all’8 o 9%, da potenza emergente. L’incantesimo, però, si è incrinato quando l’Argentina è uscita dalla sua crisi economica nazionale e nel 2010 è stata investita da quella internazionale. Allora la crescita ha rallentato la corsa e negli ultimi due anni il paese è entrato in recessione. Di quanto non si sa neppure, considerando che il governo ha nascosto le statistiche reali. Nel 2014, il ministro dell’Economia Alex Kicillof dichiarava un’inflazione dell’1,4%. Ma già secondo l’Istituto nazionale di statistica dall’inizio dell’anno l’aumento dei prezzi era stato del 13,5%. E secondo fonti non ufficiali, governo e istituzioni nascondeva un dato reale molto più allarmante: 40% di inflazione. Lo stesso buio informativo riguarda anche i dati sulla recessione. Le fonti ufficiali segnalavano una contrazione dello 0,8% nell’ultimo trimestre del 2013 e dello 0,2% nel primo trimestre del 2014, ma economisti come Daniel Artana, direttore della Fundación de Investigaciones Económicas Latinoamericanas, stimavano un crollo del Pil del 3% annuo. Nel 2013 l’Argentina è diventato il primo paese a subire la penalizzazione del Fondo Monetario Internazionale per la manipolazione di statistiche ufficiali.

La colpa della recessione argentina non è imputabile solo alla crisi internazionale (che ha colpito quasi tutti i paesi del mondo, indistintamente), ma anche e soprattutto al modo in cui il governo l’ha affrontata. Cristina Kirchner, che nel 2010 era appena rimasta vedova del marito Nestor (morto di infarto) ha reagito con politiche di nazionalizzazioni, svalutazione della moneta, spesa pubblica, protezionismo e controllo dei prezzi su pressoché tutti i prodotti. Queste misure hanno causato ancor più instabilità e incertezza. Nel luglio del 2014, il paese ha fatto default tecnico, non riuscendo a rispettare gli impegni presi con alcuni fra i suoi maggiori creditori, i cosiddetti “fondi avvoltoi”. Quei fondi avevano fornito un aiuto fondamentale nella ricostruzione del paese, dopo la crisi del 2001-2002. Ma nel decennio successivo, invece di ristrutturare lo Stato che era andato in bancarotta, hanno deciso di ristrutturare il debito, transando quanto e come potevano con i creditori. Lo hanno fatto in due riprese, nel 2005 e nel 2010. Il 93% dei creditori ha accettato di incassare molto meno di quanto spettava, o rinunciò del tutto, o cedette i crediti. Il 7% dei creditori, fra cui i fondi Nml e Aurelius Capital, non sono scesi a patti. La magistratura statunitense (il foro competente era a New York) ha dato ragione ai creditori. Non fu la fine dell’Argentina, ma certamente un indice di estrema fragilità.

Ancor più complicati sono stati i rapporti con la Chiesa cattolica, con l’allora cardinale José Mario Bergoglio. La Kirchner ha cercato subito lo scontro frontale con la legalizzazione dei matrimoni omosessuali nel 2010. E’ a quel periodo che risale la famosa lettera dell’arcivescovo Bergoglio sull’“invidia del demonio”. Dopo l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio, la Kirchner ha vantato un miglioramento dei rapporti con papa Francesco, in un certo senso “arruolandolo” nella sua crociata peronista contro il liberalismo. Ma alla fine è stata la sua gente a bocciarla. Votando per un candidato che promette proprio quel babau “neoliberista” quale suo programma d’azione, per cercare di far ripartire l’Argentina.

fonte: La Nuova Bussola quotidiana

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Autore: Libertà e Persona

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