I tempi dell’amore secondo la Chiesa

fidanzati

Nella vita affettiva la Chiesa propone una chiara scansione dei tempi. Può essere interessante comprenderla.
Prima di unirsi con una donna o con un uomo, insegna la Chiesa, è bene vivere due tappe: fidanzamento prima (meglio se non troppo presto, e non troppo lungo), e matrimonio, poi.
Un ordine cronologico, come si è detto, che è anche logico. E che comporta la famosa e vituperata castità prematrimoniale, cioè un tempo di discernimento

in cui ragazzo e ragazza, consapevoli ognuno della propria preziosità ed unicità, cercano di comprendere se stessi e la persona che hanno di fronte, prima di affidarsi completamente e donare tutto se stessi.
Per evitare di buttarsi via; di fare il passo più lungo della gamba; di mettere il carro davanti ai buoi: in altre parole di condividere il proprio corpo, la totalità di se stessi, con una persona a cui magari, solo un anno dopo non si affiderebbe non si dice la vita, ma neppure la propria auto o la propria casa.
Il cosiddetto “divieto” di rapporti carnali prima del matrimonio nasce dunque da qui: si conosce, per quanto possibile, una persona, si sperimenta la possibilità di un accordo profondo, e, conoscendola, si impara piano piano ad amarla. Non si dà amore vero, infatti, prima della conoscenza. Così come non si dà profonda conoscenza, senza amore vero.
Perché la Chiesa chiede ai fidanzati di non avere rapporti carnali prima del matrimonio?
Per il bene della coppia; per evitare che un atto che è coronamento di un rapporto (in linguaggio biblico “conoscersi” significa, appunto, stare anche fisicamente insieme) preceda l’esistenza di un rapporto vero; per impedire che un atto che, per essere vero, presuppone la conoscenza vera, per quanto non certo esaustiva, tra due persone, sia falsato nella sua natura unitiva, mettendo insieme due realtà che non sono, in verità, unite, ma solo alla ricerca di un egoistico piacere carnale, e cioè divise; due realtà che, condiviso il letto, dopo qualche mese non saprebbero che dirsi…
La riprova della veridicità di questo approccio è, per chi voglia guardare con serena razionalità, evidente: i rapporti intrapresi senza una motivazione profonda, senza che una vera conoscenza preceda l’atto carnale, sono gesti che non nascendo dall’amore, non generano amore e si esauriscono in fretta. Lasciando in eredità delusione e tristezza.
Un esempio di questo è, non di rado, la convivenza. Sempre più spesso i rapporti carnali non sono solo prima del matrimonio, ma vengono talora concepiti, in modo esplicito e consapevole, al di fuori di esso. Tutti i dati, però, parlano chiaro: le convivenze hanno un tasso di dissoluzione altissimo, sia che siano finalizzate, un domani, al matrimonio, sia, ancora di più, se ciò non accade. Secondo indagini svolte in Inghilterra “se il matrimonio è preceduto dalla convivenza il rischio di divorzio cresce del 60%”. Perché? Forse perché convivere senza aver fatto una precisa scelta, “questa è la persona della mia vita”, indebolisce l’atto (che non possiamo neppure chiamare, appunto, “scelta”, ma “tentativo”) alla sua origine, ma anche nel suo dipanarsi nel tempo?
Le indagini in Inghilterra, coincidenti nei loro risultati con tante altre, dimostrano inoltre che un ragazzo nato da genitori sposati ha il 75% di probabilità di vedere i propri genitori ancora sposati quando compirà il 16esimo anno d’età, “ma se lo stesso ragazzo nasce da genitori che convivono la probabilità è di appena il 7%” .
Ogni uomo, infatti, ha bisogno di certezza e di stabilità, all’interno delle quali costruire i suoi rapporti affettivi e sociali. Il rapporto infatti si genera all’interno di una comunione e di una condivisione, ed è volto al loro approfondimento, non alla loro dissoluzione. Si costruisce per rafforzare e mantenere, non per abbandonare e distruggere ciò che si è costruito.
Affermare che la convivenza è utile all’amore, è come sostenere che si lavora più volentieri e più liberamente senza un contratto fisso, senza stabilità alcuna, con la possibilità di essere licenziati da un momento all’altro; è come ritenere che il non essere vincolati da nessuna legge a mantenere ed educare un figlio, è garanzia di un vero rapporto genitoriale e della felicità del figlio stesso.
In realtà affrontare una vita insieme, tra un uomo e una donna, partendo con l’idea che si tratta di una scelta a metà, non definitiva, temporanea, soggetta a revisioni e scadenze, pone colui che vive una simile esperienza in un atteggiamento già di per sé fragile: la scelta, di solito (non si vuole qui assolutizzare nulla), sarà meno ponderata, meno profonda, meno scrupolosa, minata alla base da un pensiero, più o meno esplicito: “se va male, si cambia”.
Prima ci si fidanza, dunque, e ci si impara a conoscere e ad apprezzare, poi, quando si è scelto di intraprendere una vita insieme, ci si sposa, cioè si assume una responsabilità forte, dichiarata, pubblica, e si corona la propria scelta attraverso un conoscersi completo; che è nel contempo “garanzia” per gli sposi, come per l’eventuale progenie.
Sposarsi è donare totalmente la propria vita, preziosa e unica, ad un’altra persona, che di quella preziosità e unicità si è accorta e innamorata; è assumersi una responsabilità davanti al prossimo, e, per un credente, di fronte a Dio .
Amore fa dunque rima con dono, responsabilità, impegno, dedizione.
Continuiamo a scandire il tempo cristiano dell’affettività: prima si diventa marito e moglie; solo dopo si diventa padre e madre; per essere poi, nel contempo, marito e padre, moglie e madre. Perché prima moglie e poi madre?
Prendiamo l’esempio di un rapporto extra matrimoniale, e mettiamoci davanti una ragazza-madre : costei, o sarà spinta all’aborto dalla difficoltà delle circostanze, oppure si troverà ad allevare un figlio da sola, in condizioni di estrema difficoltà, per lei e il figlio. Questo perché l’atto unitivo ha preceduto l’unità; perché l’unione carnale non è stata figlia di un amore cosciente, cioè determinato, fedele, proiettato nel futuro. Prima si assume una responsabilità, l’uno, l’uomo, verso l’altra, la donna, e viceversa; solo allora si potrà vivere lo stesso amore responsabile, e cioè vero, verso una eventuale nuova creatura.
E solo l’uomo che sa essere prima marito, saprà anche essere, nel contempo, padre, perché non si dà ideale rapporto con un figlio, se non assicurandogli le stesse figure genitoriali che lo hanno generato.
Le “regole” uccidono l’amore? E’ il presunto amore, senza altra regola che il capriccio e il desiderio del momento, a uccidere. Non siamo forse spettatori, ogni giorno, di omicidi passionali? Di rapporti carnali che generano morte invece che vita? Di separazioni e divorzi che esitano in omicidi e suicidi? Di stermini di figli, da parte di genitori che hanno rotto la loro unione e sono stati travolti dal dolore sino alla pazzia?

Oggi troppo poco ci interroghiamo su fatti come quello accaduto l’11 febbraio 2014 a Giussano: Michele Graziano, 37 anni, ha una bimba nata da una relazione; da una seconda relazione ha un altro figlio. Anche la seconda relazione si rompe. Un giorno Michele prende i due figli e li sgozza. Poi pianta nel suo petto la lama del pugnale, per suicidarsi. E’ una storia che purtroppo si ripete sempre più di frequente.
Simili tragedie possono sempre accadere, ma sono certo più probabili quando il rapporto tra uomo e donna è divenuto “liquido”, senza regole, senza tempi, senza un processo di crescita e di verifica.

Print Friendly, PDF & Email
Se questo articolo ti è piaciuto, condividilo.

Autore: Libertà e Persona

La nostra redazione si avvale della collaborazione di studiosi attenti alla promozione di un pensiero libero e rispettoso della persona umana, grazie ad uno sguardo vigile sulle dinamiche del presente e disponibile al confronto. Nel tempo “Libertà e Persona” ha acquisito, articolo dopo articolo, un significativo pubblico di lettori e ha coinvolto docenti, esperti, ricercatori che a vario titolo danno il proprio contributo alla nostra rivista online. Gli articoli firmati "Libertà e Persona" sono a cura dei redattori.