Elezioni europee

 

Durante la sua visita a Londra Matteo Renzi  ha detto  che non ci vuole più Europa, ma un’Europa migliore. Probabilmente ha voluto compiacere il suo ospite, l’euroscettico Cameron, ma la sua affermazione è pienamente condivisibile, specialmente se s’intende (e non può essere altrimenti) che per diventare migliore l’Europa deve diventare diversa.  Renzi  fa mostra di credere che il cambiamento  possa essere raggiunto per effetto della spinta verso una politica di ripresa e sviluppo che l’Italia saprà imprimere all’Ue durante il prossimo semestre di sua presidenza. Difficile che lo creda davvero, che sia tanto sprovveduto da illudersi  che la Germania e gli altri paesi fautori dell’attuale politica del rigore    acconsentiranno  a un così radicale mutamento in omaggio ad un semestre di presidenza che in realtà non attribuisce particolari poteri decisionali al  paese cui è affidato il suo  esercizio. Sprovveduto  forse no, ma condizionato dal suo ruolo di segretario di un partito europeista come il PD certamente sì.

    Le prossime elezioni di fine maggio sono in realtà, non solo in Italia, ma in tutti i paesi membri un referendum se non proprio sull’Unione Europea, sulla politica da lei fin qui praticata. Di conseguenza,    chi vuole avere un’Europa migliore dovrebbe augurarsi  che il giudizio delle urne sia il più severo possibile in modo da fare temere agli eurocrati, che già oggi, dopo i risultati  delle elezioni francesi, paventano il peggio, addirittura la prossima dissoluzione della loro creatura.

   Tanto potenti sono gli interessi che rappresentano e condividono, tanto grande e consolidata la loro certezza d’impunità, la loro arroganza che solo questo timore può indurli (costringerli) a cambiare strada. Insomma il successo dei cosiddetti partiti populisti (dai più moderati ai no-euro) certamente non porterà (almeno per ora) alla rinuncia alla moneta unica europea, ma altrettanto certamente rappresenta, per la forza che darebbe alla  necessità del cambiamento,  il presupposto necessario perché l’Italia possa utilizzare il suo periodo di guida europea per  l’inversione di politica  auspicata da Renzi. Il guaio è che proprio Renzi, non potendo  sponsorizzare  la sconfitta del suo partito per favorire il successo degli euroscettici, è costretto a giocare contro se stesso..

     Se lui non può, toccherebbe farlo agli elettori del PD (nonché di Forza Italia e dei partiti europeisti), ma anche questo è altamente improbabile. Il nostro tradizionale provincialismo ci rinchiude all’interno di confini che si continua a credere  circoscrivano una sovranità nazionale da tempo trasmigrata verso altri lidi, impedendoci  di comprendere che, soprattutto  in materia economica (ma non solo), Bruxelles conta moltissimo e Roma  poco o nulla. Un’incomprensione che favorisce l’invincibile attitudine nazionale (inscritta a quanto pare nel nostro DNA  fin dai tempi dei guelfi e ghibellini) a tifare sempre e comunque per quella che si considera la propria  parte, la propria squadra, chiunque, degno o indegno, la rappresenti, qualunque cosa, giusta o sbagliata, abbia fatto. Di conseguenza fino ad oggi tutte le  consultazioni  elettorali (incluse quelle referendarie) si sono svolte all’insegna non della razionalità, ma della irragionevole tifoseria. Difficile sperare che il 25 maggio vada altrimenti.

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