Il peccato e il peccatore

E’ ben nota la distinzione che nell’etica cristiana si fa tra peccato e peccatore: si deve odiare il peccato, si deve amare il peccatore; ovvero si deve odiare il peccato proprio per amore del peccatore; si deve amare il peccatore al fine di liberarlo dal suo peccato. Ma non mi sembra che questa distinzione sia facile da comprendere e da mettere in pratica. Così ho pensato di offrire alcune considerazioni che a mio giudizio possono servire per capire il valore di tale distinzione e di conseguenza il modo migliore per viverla nel nostro quotidiano.

Una prima considerazione infatti è la seguente: è vero, si deve avere misericordia per il peccatore, un po’ come il medico che odia la malattia proprio perché ama il malato e lo vuol guarire. Ma se il malato non vuol guarire ed ama il suo peccato, che fare? Vedremo più avanti.

Partiamo innanzitutto dal principio morale fondamentale, noto a tutti, che il bene è da farsi e da amarsi, mentre il male è da fuggire e quindi degno di odio, bonum est faciendum, malum vitandum. Ed è logico e doveroso che quanto più grande è il bene che amiamo, tanto maggiore sarà l’odio che proviamo per il male che ci toglie questo bene.

Per questo, un’etica veramente educativa e formatrice alla virtù, già sul piano della coscienza naturale e a maggior ragione sul piano dell’etica evangelica, deve saper infondere nel nostro animo, nella nostra volontà e nelle nostre stesse passioni, accanto ad un fervente e sincero amore per il bene e quindi per la virtù, un odio intenso e convinto nei confronti del male, del vizio e del peccato.

Per questo motivo suona falsa una certa predicazione corrente di tendenza buonista, la quale insiste continuamente sul tema dell’amore emarginando o condannando sistematicamente la tematica dell’odio, come se sempre e comunque l’odio fosse un male e dimenticando invece che l’odio per il male e per il peccato è un gran bene, inseparabile dall’amore, il quale, se non accompagnato da questo odio, è falso ed ipocrita.

Sotto preteso dell’universalità dell’amore cristiano, pare che si debba amare non solo il bene ma anche ciò che sembra il male, perchè il male – si pensa – non esiste o è male per noi ma non per altri; e non solo si dovrebbe amare il peccatore, ma anche il “peccato”, perché sarebbe peccato per noi ma non per lui. In realtà tutti saremmo buoni; cambiano solo i punti di vista.

Affrontiamo però subito due temi che sembrerebbero dar ragione ai buonisti: l’amore per il nemico e il dovere di perdonare sempre.

I buonisti pensano che il nemico in realtà non esista; il nemico ce lo creiamo noi con la ristrettezza o rigidità delle nostre vedute o perché non sappiamo metterci dal punto di vista dell’altro ed assolutizziamo i nostri soggettivi pareri. Secondo loro pertanto si devono rispettare idee ed atteggiamenti anche contrari ai nostri, per quanto ci appiano giusti o conformi alla nostra fede, per quanto questa fede ci sembri vera. Questa sarebbe la vera carità, la libertà di tutti e quel dialogo che è promosso dal Concilio Vaticano II.

Ma in realtà la vera carità, alla quale mai si deve derogare, non chiede questo, perché essa è fondata sull’oggettività ed universalità della verità, è basata quindi sulla sana dottrina e questa non chiede affatto il rispetto ma la condanna delle idee contrarie e dei comportamenti che da esse discendono, per quanto si debba essere prudenti nei giudizi.

Dunque la vera carità, il vero amore per il nemico, predicato da Cristo, richiede al contrario una franca opposizione all’errore e al peccato, commessi contro di noi o contro altri, mentre l’amore non deve andare al peccatore in quanto peccatore, ma in quanto anche nel peccatore esistono sempre e comunque lati buoni che vanno amati, perché l’amore non può che andare al bene.

Come dobbiamo riconoscere i nostri peccati, così dobbiamo prudentemente riconoscere e valutare i peccati che gli altri commettono contro di noi. Bisogna saper discernere se sono o non sono in buona fede, perché sarà diversa la condotta da tenere nei loro confronti: misericordia e comprensione nel primo caso, sdegno e severità nel secondo.

Alcuni credono che l’evangelico “non giudicare” significhi interpretare sempre in bene la condotta degli altri o non dar peso ai loro peccati. No, non è questo il senso del comando di Cristo, tanto è vero che nel medesimo contesto Egli dà una regola per giudicare. Certo siamo fallibili nel giudicare, ma bisogna pur farlo a tempo e a luogo e nel dovuto modo, se non altro perché dobbiamo evitare i cattivi esempi e seguire i buoni. E se non sappiamo riconoscerli e giudicare con retto criterio, come mettere in pratica questo precetto? Ci facciamo una morale per nostro conto?

Riprendendo dunque il già detto, il peccato va odiato proprio per amore del peccatore, così come il medico per amore del malato non può non combattere la malattia che lo affligge. E così per amore della persona amata non possiamo non odiare il suo peccato, il quale è un male che oggettivamente la danneggia, anche se essa non se ne rende conto o non vuol rendersene conto.

Qui certo vi è una differenza col male di pena, dal quale normalmente tutti desiderano liberarsi. Avviene infatti che molti per ignoranza o per orgoglio, magari induriti nei loro peccati, non intendano liberarsene ed anzi forse se ne vantino. Che fare? Correggere coloro che si lasciano correggere, pregare per i peccatori impenitenti affinchè si convertano. Se questi recano danno alla comunità si può far ricorso alla legittima autorità.

Il peccato vero e proprio non è il semplice errore o sbaglio, che è un atto che può essere dannoso a se stessi o agli altri, ma del quale non ci rendiamo conto. Dell’errore certo bisogna rammaricarsi, ma sarebbe insensato pentirsi. Vorrebbe dire che non sappiamo distinguere il volontario dall’involontario, il che è grave.

Bisogna inoltre tener presente la forza che una passione violenta può avere sulla volontà, tanto da vincerla, soprattutto se si tratta di una volontà debole come capita nei giovani. In questo caso, se il soggetto è sano di mente e nello stato di veglia, il peccato (veniale) resta, ma evidentemente non può avere quella gravita (peccato mortale), che avrebbe, se la volontà avesse agito in materia grave con libera determinazione. Possiamo qui portare ad esempio certi peccati che i giovani commettono nel sesso.

Dell’errore occorre semplicemente aver pietà. Esso è del tutto perdonabile. Certo va corretto, ma senza bisogno di alcuna penitenza. Il vero peccato invece, del quale qui trattiamo, è un problema ben più grave e di difficile soluzione. Esso va cancellato (“rimesso”) nel sacramento della penitenza, va scontato e se ne deve far penitenza.

Esso è  effetto della cattiva volontà, mentre nel caso dell’errore la volontà può essere perfettamente buona, perché il soggetto aveva retta intenzione e non sapeva di far male. Molti buonisti oggi purtroppo riconoscono l’errore ma non il peccato, perché secondo loro tutti hanno buona volontà e la cattiva volontà non esiste.

Per quanto riguarda il precetto evangelico del dovere di perdonare sempre, ricordiamoci che qui Cristo si riferisce alla costante volontà o disponibilità che dobbiamo avere al perdono; ma il perdono effettivo può essere consesso solo se il peccatore si pente o dà segni di essere pentito. Altrimenti noi diventiamo complici del peccato stesso che il peccatore ha computo.

Il peccato quindi è perdonabile con la grazia di Dio solo se la volontà si converte, si pente e torna ad essere buona, cosa che purtroppo non sempre avviene. Ora la volontà è, insieme con l’intelletto, l’espressione propria della persona. Non coincide certo con la persona e tuttavia ha la sua radice nell’anima della persona. Per questo è facile che l’odio per il peccato, soprattutto se è un peccato che il soggetto ha commesso nei nostri confronti, susciti in noi odio per la persona stessa. Non c’è dubbio peraltro che noi diciamo malvagia una persona che compie il male soprattutto abitualmente e in forma grave.

C’è da considerare inoltre che quando esiste il vizio, solitamente la persona compie quel genere di peccato che corrisponde a quel vizio, e poichè il vizio è una specie di seconda natura, per quanto perversa, per questo corriamo il pericolo di risolvere o raccogliere la totalità di quella persona nel suo vizio, di vederla solo sotto quella luce, col rischio di mancare al comandamento evangelico dell’amore per il nemico.

Ed inoltre siamo portati a pensare che essa non potrà non perseverare nel compimento di quel peccato, male interpretando le parole del Signore: “l’albero cattivo dà frutti cattivi”, quasi sia ineluttabile il ripetersi futuro di quel peccato, come se ogni peccatore fosse incorreggibile ed agisse non per libertà ma per necessità.

In realtà Cristo non intende favorire questo pessimismo e questo determinismo, ma semplicemente vuol ricordare l’importanza della virtù, che facilita il compimento del bene, così come la gravità del vizio, dal quale sorge facilmente il peccato. Le parole del Signore non significano quindi altro che un’esortazione ad acquisire la virtù e a liberarci dai nostri vizi.

Se può peraltro capitare occasionalmente il peccato nel virtuoso, per cui qui è facile separare il peccato dal peccatore, più difficile è fare questa separazione nel peccatore incallito. In essa il peccato appare pressochè inevitabile, ma anche in questa situazione non si deve disperare. La grazia lavora in tutti e tutti chiama a pentimento e conversione. Tutti possono salvarsi sino all’ultimo istante della vita.

Occorre allora innanzitutto aver lucida la distinzione di principio tra vizio e virtù, tra peccato e buona azione ed occorre inoltre più concretamente con estrema energia e lucidità separare nettamente il vizio di questa persona dalla persona stessa, in quanto creata ad immagine di Dio, redenta dal sangue di Cristo e chiamata alla salvezza nell’esercizio delle sue qualità positive, alcune delle quali certamente vengono esercitate ed eventualmente sono superiori alle nostre, anche se resta in questa persona in un certo settore del suo agire la presenza ostinata del peccato.

Compiuta questa operazione fondamentale di separare la persona dal suo peccato, tenendo presente tale distinzione con la forza del pensiero e della volontà, occorre poi alimentare sapientemente sia l’amore per questa persona che l’odio del suo peccato. In quest’opera delicata e fondamentale si devono impiegare tutte le energie disponibili: la chiarezza e certezza della visione e del giudizio, la forza e perseveranza della volontà, il calore della passione. Come l’amore dev’essere appassionato, così l’odio dev’essere intenso, seppur sempre sotto la moderazione della ragione, il cui lume non deve esser spento ma al contrario acutizzato dalla passione. Fondamentale per ottenere ciò è la preghiera insistente.

Questo saggio ed equilibrato concorso di tutte le energie crea in noi il perfetto atteggiamento da tenere nei confronti dei peccatori: riconoscere la bruttezza del peccato alla luce della bellezza della virtù, dare una valutazione della responsabilità del peccatore, gusto per i lati buoni della sua personalità, compassione per le miserie, sdegno per le colpe, dolore per i falli, odio robusto per il peccato, onde elaborare un piano di azione finalizzato alla sua correzione, in un clima di preghiera e di carità.

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