Lo spirito del tempo e l’imprevisto

14 aprile 1912: affonda il Titanic, 46.328 tonnellate di stazza, il transatlantico allora più grande di tutti i tempi, colpito in pieno oceano da un iceberg incredibilmente e inspiegabilmente alla deriva verso meridione: nel livello superiore della I ͣ classe dei ricchi, si faceva festa e si ballava, in pieno rispetto con lo spirito del tempo, quello della Belle Époque, di un’Europa strapotente e signora del mondo, militarmente, politicamente ed economicamente: spirito aristocratico e positivista nello stesso tempo.

14 gennaio 2012, cento anni dopo: la più importante nave da crociera italiana, la Concordia, 112.000 tonnellate di stazza, una delle più grandi al mondo, tocca uno scoglio presso l’isola del Giglio ed è la tragedia. In tutti i livelli della nave, si ballava e si faceva festa, in uno spirito che solo in parte è in pieno rispetto col nostro tempo, nella parte “democratica”, ma non in quello della festa a tutti i costi.

È noto che sul Titanic era scritto (secondo altre versioni invece fu detto nel discorso inaugurale): “Nemmeno Dio può affondarmi”. Ciò non deve meravigliare: i titani erano infatti i giganti che si ribellarono a Zeus per fare poi una brutta fine; ma, soprattutto, erano quelli i tempi del positivismo anticristiano, delle certezze nella scienza e nella ragione umana che avrebbero dovuto cancellare per sempre la superstizione cattolica dal mondo. Il motto dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900 era stato: “Il XX sarà il secolo in cui sconfiggeremo per sempre la guerra e le malattie”… Questo era lo spirito del tempo: la sfida a Dio.

L’affondamento del Titanic in realtà fu solo un’avvisaglia di dove sarebbero annegati i sogni di emancipazione umana: la vera immensa tragedia che uccise un’epoca e un mondo sarebbe avvenuta due anni dopo, lungo la Marna, dove morirono in una settimana 700.000 giovani (e 10 milioni nei quattro anni successivi in tutta Europa).

Al di là del naufragio di un colosso del mare, della data, della festa (aristocratica o democratica che sia), un’inquietante analogia tra i due eventi risiede nel fatto che in entrambi i casi la famosa bottiglia di spumante scagliata contro la nave il giorno dell’inaugurazione non si è rotta. Ma, al di là anche della scaramanzia (che non sempre e in ogni caso è tale, in quanto da sempre in certi eventi gli uomini hanno intravisto messaggi di “forze superiori”, che non necessariamente e sempre sono “turlupinamenti” dello stregone o augure di turno), v’è un’analogia più grande da rilevare.

È lo spirito del tempo.

Chiariamo subito che chi scrive non ha una idiosincrasia congenita per le crociere, che invece, realizzate in certi termini e limiti, possono presentare valore sia di adeguato riposo psico-fisico che di arricchimento culturale; né verso la vacanze in sé, ovviamente, se queste sono finalizzate non alla dispersione e dissipazione delle proprie forze e soprattutto del proprio tempo, ma al recupero delle forze fisiche e intellettuali per poi poter lavorare e vivere meglio al servizio del prossimo e della società.

E chiariamo anche che in realtà lo “spirito del tempo” di un secolo fa e quello odierno non è esattamente lo stesso. Il Titanic, ad esempio, ancor prima di ogni altro aspetto utilitario o vacanziero, era in sé una sfrontata e anche, in certo qual modo, coraggiosa sfida a Dio; la Concordia no, almeno non nel senso del Titanic: la Concordia è, apparentemente, solo “vacanziera”, una grande immensa “festa organizzata”.

Eppure, in qualche modo, anche questa è una sfida a Dio, più adeguata ai nostri vigliacchi e fraccomodi tempi.

La sfida è qualitativa prima ancora che quantitativa. Non consiste solo nell’immensità della nave (4500 passeggeri, un’intera città), nella sua altezza (una sorta di Torre di Babele galleggiante), nella sua ingestibile grandezza (quasi impossibile da affondare… quasi… come il Titanic), per la quale, come per tutti i giganti, basta un sassolino in fronte o uno scoglietto  in basso per rendere tutto vano e irrimediabile; quanto nella sua pretesa assolutamente prometeica (o “titanica”) di “provvedere a tutto”, in maniera tale che ogni passeggero non deve non solo preoccuparsi di nulla, ma pensare a nulla.

In questa città galleggiante, c’era tutto: camere, tv, internet, negozi, cinema, bar, ristoranti, sale da ballo, discoteche, impianti sportivi di ogni genere, medici, infermieri, psicologi, (pure chirurghi?), trainers e quant’altro si trovi in una città di più che medie dimensioni (perfino cappella e cappellano…).

Chi dissangua il proprio conto in banca per partecipare a questo genere di crociere vuole e pretende che tutto funzioni a meraviglia, che nulla manchi, che qualsiasi problema possa essere facilmente risolto. E lo pretende per due ragioni: 1) perché ritiene di meritarselo; 2) perché paga molto. E più paga e più lo pretende; e più ha lavorato e sofferto durante l’anno, e più lo pretende.

“No problem”, quindi… “Il divertimento mi spetta di diritto”, patetico corollario della più emblematica delle idiozie propalate dal XX secolo: “Io ho diritto alla mia felicità!”.

Ecco lo spirito del 2012: “no problem”. Mentre invece, fuori dalla Concordia, tutto è un problema, ogni giorno di più. Una differenza di fondo sta proprio in questo: nel 1912 il Titanic era la materializzazione dello spirito del tempo, e si è schiantato contro l’imprevisto. Nel 2012 il Concordia è la fuga dal proprio tempo, e si è spezzata contro l’imprevisto.

In entrambi i casi, è stata punita la “ybris” dell’uomo, come avrebbero detto gli antichi maestri dell’umanità. La parola ybris per i greci infatti significava letteralmente “tracotanza”, “eccesso”, “superbia”, “orgoglio” o “prevaricazione”.

L’imprevisto. Ciò che forse più di ogni altra cosa ci rende umani in quanto vulnerabili, perché più di ogni altra cosa spezza la nostra ybris. L’imprevisto dell’iceberg che affonda nel gelo della notte di uno sperduto punto dell’oceano l’orgoglio dell’odio a Dio (purtroppo portando con sé centinaia di vittime innocenti); l’imprevisto dello scoglio (che “non è segnato nelle rotte”, come ha detto il comandante Schettino) che affonda a pochi metri da terra nel mare più vissuto del mondo la follia di voler fuggire la realtà e cambiare per una settimana la propria vita.

L’orgoglio dell’odio a Dio e la pretesa del “no problem” hanno qualcosa in comune: la follia. La follia di credere di poter dominare il mondo e controllare la propria vita. E la follia è ybris, appunto.

Ma questa follia si spezzerà sempre nell’imprevisto, come i greci ci hanno insegnato con i loro miti: è l’imprevisto calore del sole che scioglie le ali di cera di Icaro; è l’imprevisto ritorno a casa di Ulisse dopo venti anni, che castigherà la tracotanza dei proci. Ma è anche la storia che ce lo insegna: è un sassolino in una fionda di un ragazzino che spacca la testa al gigante spauracchio, uccidendolo e preparando il trono di Israele a quel ragazzino; sono 300 spartani indomiti che in nome del Logos occidentale, base granitica della nostra civiltà e libertà, vanno a sacrificarsi alle Termopili per fermare un milione di servi orientali con cui il tracotante Dario è sicuro di conquistare la Grecia; è – ahinoi – un’imprevista tempesta nella Manica che spazza via quella che si era spavaldamente autodefinita l’“invincibile Armata”, cambiando per sempre – in peggio – il corso della storia; sono dei colpi di pistola imprevisti sparati a Sarajevo che procurano il pretesto per la più grande e sconvolgente tragedia umana, che pone per sempre fine ai balli e al lusso della Belle Époque.

L’imprevisto è il richiamo di Dio alla consapevolezza del nostro destino e del nostro limite, che non ammette orgoglio, spavalderia, “diritto  alla festa”, diritto al totale controllo per ottenere il “no problem”. È il “memento” che Egli ci dona per non farci dimenticare che questa, ci piaccia o meno, è e rimane anche una “valle di lacrime”, che la “tranquillità” e la pace sono il premio finale di questa vita, e quindi non appartengono a questa vita. Che in questa vita, l’unico strumento per poter trovare una parziale pace e una profonda (seppur sempre relativa) tranquillità risiede proprio nell’opposto delle ali di Icaro, dell’orgoglio dei titani, della sfrontata dissoluzione dei proci, della spavalderia di Golia come di chiunque si autodefinisca invincibile, della ricerca del piacere delle crociere odierne: risiede nell’esercizio della pazienza costante e nell’abbandono a Dio in ogni evento della nostra vita.

Semmai, risiede anche nella volontà di spendere questa nostra unica vita al servizio della gloria di Dio, della Verità e del bene del prossimo, anche a costo dell’esposizione ai pericoli di ogni genere, anche a costo della fatica, anche a costo del dolore personale, dell’umiliazione, della perdita di qualcosa.

Perché, chi spende la propria vita – che fugge via – in tal maniera, cioè nel sacrificio di sé per il servizio del Bene, poi se la merita veramente una bella crociera, serena, riposante e arricchente, sia in questa vita che nella meraviglia dell’eternità.

Roma, 18 gennaio 2012

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