Il Natale: l’ineluttabilità del bisogno nell’evidenza della nostalgia

 La nostalgia è ciò che schiude all’uomo la consapevolezza della sua grandezza, una grandezza che è ancorata al divino. Platone formula una teoria della conoscenza che non è cristianamente condivisibile. Egli dice che l’anima dell’uomo avrebbe contemplato le idee nell’Iperuranio e poi, una volta incarnatasi, conoscerebbe per reminiscenza. Una teoria, questa, inaccettabile, perché l’anima dell’uomo non preesiste al suo corpo. Eppure in questa concezione Platone dice qualcosa di vero. Dice che l’uomo è contraddistinto dalla nostalgia. L’uomo ha il desiderio dell’assoluto, eppure nulla sulla terra è assoluto. L’uomo ha il desiderio di infinito, eppure nulla sulla terra è infinito. Come allora si giustificano tali desideri?

Lasciamo in sospeso questo interrogativo.

Il periodo in cui il bambino si trova nel grembo della madre è molto importante. Il temperamento si forma anche (se non soprattutto) lì. Il bimbo nel grembo risente inevitabilmente degli stati d’animo della madre. Pensate cosa può accadere quando la mamma dovesse vivere una gravidanza sofferta da essere in dubbio se abortire o no, da sentirsi affastellare la mente da brutti pensieri per i quali scacciare una vita può sembrare la soluzione migliore.

Ma se questo è vero per quanto riguarda la formazione del carattere è ancor più vero per quanto riguarda un’altra cosa: la nostalgia.  Il bambino che cresce e quindi il futuro uomo portano sempre con sé la nostalgia di quel periodo … anche se, ovviamente, non ne hanno un ricordo consapevole.

Si tratta di una nostalgia che origina un’idea di essere accolti. Si esprime nella dimensione del bisogno di affettività che prende e coinvolge ogni essere umano.

E’ un desiderio di essere accolti che possiamo anche definire ed indicare come desiderio di essere ri-accolti. “Ri-accolti”, perché quella sensazione già è stata vissuta e causa l’esperienza personale della nostalgia. Tutta la vita umana si esprime -poco consapevolmente e molto inconsapevolmente- nell’incisività di questa sensazione. Il tempo che passa, la convinzione che tutto si sta perdendo sono sempre espressioni di un desiderio, quello, appunto, di essere ri-accolti. Il grande poeta irlandese William Butler Yeats (1865-1939), nella raccolta I cigni selvatici a Coole, del 1919, fa una descrizione stupenda di una perdita: “Gli alberi sono nella loro bellezza autunnale, / i sentieri del bosco sono asciutti, / nel crepuscolo di ottobre l’acqua / riflette un cielo immobile; / sull’acqua fra le pietre / ci sono cinquantanove cigni. / E’ questo il diciannovesimo autunno / da quando la prima volta li contai; / li vidi, prima che finesse il conto, / tutti all’improvviso alzarsi / e disperdersi volteggiando in grandi cerchi spezzati / sulle ali rumorose. / Ammirai quelle splendenti creature / e ora il mio cuore è triste. / Tutto è cambiato da quando io, / ascoltando al crepuscolo / la prima volta su questa riva, / lo scampanio delle loro ali sopra il mio capo, / camminavo con passo più leggero. / Instancabili, amata e amante, / remano nelle fredde / correnti amiche o scalano l’aria; / i loro cuori non sono invecchiati; / passione o conquista ancora li accompagna / nel loro errante vagare. / Ma ora si lasciano andare sull’acqua immobile, / misteriosi, stupendi. / Fra quali giunchi costruiranno il nido, / su quale sponda di lago o stagno / incanteranno occhi umani quando al risveglio / un giorno scoprirò che sono volati via?” Yeats utilizza questa suggestiva immagine per esprimere ciò in cui si riconosce ogni uomo. Quando si sperimenta una bellezza, si viene talmente coinvolti che non solo essa non può essere dimenticata, ma la nostalgia di ciò che si è sperimentato rimane indelebile nel profondo del proprio esistere. Il poeta ricorda da ben diciannove anni che quei cigni che ammirava erano precisamente cinquantanove. Due numeri (19 e 59) che sembrano stridere nel linguaggio poetico che di suo tende ad essere impreciso; e invece Yeats ci tiene ad essere preciso. Così come tenne ad essere preciso anche san Giovanni indicando perfino l’orario in cui aveva incontrato per la prima volta il Signore: Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio.” (Giovanni 1, 39).

Ma torniamo alla poesia di Yeats: “… e ora il mio cuore è triste. / Tutto è cambiato da quando io, / ascoltando al crepuscolo / la prima volta su questa riva, / lo scampanio delle loro ali sopra il mio capo, / camminavo con passo più leggero.” Dopo la perdita di questa bellezza, il cuore è triste. Una tristezza che confligge con ciò che si era sperimentato prima: la vista di quei cigni aveva reso più leggero il passo del cammino. Ma ciò che è ancora più interessante è che il poeta volutamente non si pone il problema che quei cigni erano sicuramente morti. No: lui non può più sperimentare quella bellezza … ma senz’altro la bellezza non è morta, non può essere morta: “… i loro cuori non sono invecchiati; / passione o conquista ancora li accompagna / nel loro errante vagare. / Ma ora si lasciano andare sull’acqua immobile, / misteriosi, stupendi. / Fra quali giunchi costruiranno il nido, / su quale sponda di lago o stagno / incanteranno occhi umani quando al risveglio / un giorno scoprirò che sono volati via?”   Se questo è vero per l’uomo, lo è maggiormente per l’Uomo-Dio. Vi chiederete del perché abbiamo detto “lo è” e non invece “lo è stato”. Perché l’Incarnazione non si è esaurita nella storia, ma continua per l’eternità: per sempre il Verbo sarà nella natura umana. Dunque, Dio, per l’esperienza vissuta nella sua umanità e considerando che tale umanità l’avrà per l’eternità, ancora adesso sperimenta questa “nostalgia”.

Molti autori hanno scritto sull’amore infinito che il Verbo ha per la Sua Santissima Madre, ma andrebbe anche sottolineato quanto questo stesso Dio desideri ancora adesso l’amore di Sua Madre: di essere cioè perpetuamente ri-accolto nel Grembo di Lei.

Certamente, qui bisogna stare molto attenti, perché in teologia i termini devono essere precisi e non si può – né si deve – sbagliare, ma possiamo dire che l’Incarnazione ha posto il Dio incarnato nel bisogno e nella nostalgia dell’amore che la Madre ha avuto e ha per Lui. D’altronde non ci sembra di forzare i concetti più del dovuto. Sappiamo che la scuola francescana da un certo punto di vista “risolve” la questione della sofferenza di Dio affermando: Dio non può soffrire, ma per farlo si è incarnato. San Pio da Pietrelcina (1887-1968) amava dire così. Ma anche la scuola carmelitana può dirci molto. San Giovanni della Croce (1542-1591) a proposito dell’Incarnazione scrive in una sua poesia: (…) il pianto dell’uomo in Dio, / e nell’uomo l’allegria, / sono due cose che all’uno e all’altro / erano estranee fino ad allora.” Potremmo dire: Dio non ha ontologicamente bisogno di essere amato, ma per vivere questa esperienza si è incarnato. Ora, la bellezza e l’unicità stanno proprio nel fatto che questo bisogno non è stato solo vissuto ma è ancora vissuto adesso dal Verbo incarnato che è in Paradiso.

 

 

 

L’immagine qui sopra mostra chiaramente un’originalità del Cristianesimo, ovvero una bellezza che nessuna religione sa esprimere. C’è un Dio che tende le braccia (le tenere braccia di un bambino) verso la Mamma. Ma attenzione: si tratta di un Dio che ancora adesso tende le sue braccia verso la Madre insegnandoci la verità del bisogno.  Nel Riccardo II (Atto I, Scena III) Shakespeare fa dire ad un personaggio: “Il bisogno ti insegni a ragionare in guisa da renderti persuaso che nessuna virtù può eguagliare il bisogno.” Si tratta di parole vere, che però vanno correttamente interpretate. Come il timor di Dio è il presupposto dell’ascesi ma non è ancora la perfezione, così il bisogno è il presupposto dell’amore ma non è ancora il vero amore per l’amato. Solo in questo senso la frase “nessuna virtù può eguagliare il bisogno” può essere condivisa. Ma è innegabile quanto questa affermazione di Shakespeare confermi ciò che stiamo dicendo: il bisogno è ciò che umanamente è più vero, ed è il bisogno che può davvero far ragionare (“Il bisogno ti insegni a ragionare”), cioè può spingere l’uomo ad assumere nei confronti della realtà di se stesso una posizione correttamente realista e non invece quella dell’idealistica illusione di un’immaginaria autosufficienza.

Su questo potremmo dire tante cose. Viene da pensare al mondo contemporaneo che si è costruito proprio sulla menzogna della negazione della tensione umana del bisogno. Tutto il pensiero moderno si è sviluppato sulla negazione di questa constatazione realista; constatazione secondo cui l’uomo ha bisogno, secondo cui l’uomo convive con il bisogno, secondo cui l’uomo viene definito dal bisogno. Il pragmatismo di John Dewey (1859-1952) arriva a negare la necessità delle domande di senso e la loro importanza nell’indagine filosofica: “L’eliminazione dei problemi tradizionali non dovrebbe permettere alla filosofia di dedicarsi ad uno scopo più fruttuoso e più necessario? Non dovrebbe incoraggiare la filosofia ad affrontare i grandi difetti e le grandi difficoltà sociali e morali di cui l’umanità soffre, e rivolgere la propria attenzione sul modo di scoprire le cause e l’esatta natura di tali mali e sviluppare un’idea chiara di migliori possibilità sociali (…)?” Nulla di più astratto e anche di più “basso”. Sì, di più “basso”, perché l’altezza di un’affermazione e quindi di un’idea è data dalla capacità di coinvolgere quanto più possibile la totalità del reale. Di abbracciarlo quanto più completamente. La dimostrazione che l’uomo per natura cerca di volare alto è la sua tendenza a creare i miti. Il mito quando rimane mito è quello che è, ma quando assurge a simbolo (come ogni mito deve essere) diventa la comunicazione più vera, quella paradossalmente più realista, perché va al centro della questione: il Significato del vivere e del morire. Una sera in Inghilterra, era il 19 settembre del 1931, tre docenti universitari, Clive Staples Lewis (1898-1963), Henry Victor e John Ronald Tolkien (1892-1973) si trovavano a passeggiare. Parlavano di metafore e di miti. Lewis era affascinato dai miti, ma li riteneva comunque delle “bugie”. Tolkien allora intervenne: “Guardiamo gli alberi, e li chiamiamo ‘alberi’, dopo di che probabilmente non pensiamo più alla parola. Chiamiamo una stella ‘stella’, e non ci pensiamo più. Ma bisogna ricordare che queste parole, ‘albero’, ‘stella’, erano (nella loro forma originaria) nomi dati a questi oggetti da gente con un modo di vedere diverso dal nostro. Per noi un albero è, semplicemente, un organismo vegetale, e una stella semplicemente una palla di materia inanimata che si muove lungo una rotta matematica. Ma i primi uomini che parlarono di ‘alberi’ e di ‘stelle’ vedevano le cose in maniera del tutto differente. Per loro, il mondo era animato da esseri mitologici. Vedevano le stelle come sfere di argento vivo, che esplodevano in una fiammata in risposta alla musica eterna. Vedevano il cielo come una tenda ingioiellata, e la terra come il ventre del quale tutti gli esseri viventi sono venuti al mondo. Per loro, tutta la Creazione era intessuta di miti e popolata di elfi.”

Tornando all’immagine. Il Divino Bambino tende le sue piccole braccia verso la Madre e il suo sguardo incrocia quella della Mamma quasi a supplicarle amore e protezione. Lì è Dio, nella piena consapevolezza della Sua divinità, che mendica l’amore materno. In nessun’altra religione si arriva ad esprimere una simile affascinante grandezza.

Anche su questo si erge la bellezza del Natale, il suo essere nel cuore dell’uomo, cioè il suo entrare perfettamente nel desiderio più tipicamente umano che quello di essere accolto: la Mamma dà alla luce il Dio incarnato e Questi decide per l’eternità di vivere il bisogno dell’essere accolto e protetto dalle braccia materne. Ciò vuol dire che il Natale non finirà mai. Giovannino Guareschi (1908-1968) scrive: “E fra mille anni la gente correrà a seimila chilometri l’ora su macchine a razzo superatomico e per far cosa? Per arrivare in fondo all’anno e rimanere a bocca aperta davanti allo stesso Bambinello di gesso che, una di queste sere, il compagno Peppone ha ripitturato col pennellino.” Ma non solo fra mille anni. Anche quando questi tempi termineranno, anche quando non nasceranno più uomini perché si sarà chi in Paradiso e chi all’inferno, anche allora – per sempre – il Natale rimarrà: nell’eterno amore di Gesù per la Sua Santissima Madre, nel Suo eterno bisogno di essere abbracciato dalla Madre.

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