Il papa, l’aids e il preservativo.

L’intervista del papa sull’aids e l’uso del preservativo, ritenuto inadeguato a sconfiggere la terribile malattia, ha sollevato il solito ingiustificato can can. Sarà allora opportuno cercare di capire. Premettendo:

1 che la Chiesa è l’ente che più di tutti si occupa dell’Africa, delle sue malattie e della sua povertà, con scuole ed ospedali;

2 che l’aids si propaga soprattutto a causa della promiscuità sessuale, dell’omosessualità e dell’uso della droga, tutti comportamenti stigmatizzati dall’antropologia cristiana.

 Si vuole allora capire se veramente il preservativo preservi dall’aids.

Occorre rispondere di no, perchè:

1 il preservativo non ha un’efficacia totale neppure nella prevenzione delle gravidanze, dal momento che ha un basso indice di fallibilità, che aumenta in determinate condizioni (uso improprio del preservativo, preservativo usurato…)

2 il virus dell’aids è infinitamente più piccolo di uno spermatozoo e per questo numerose volte oltrepassa la barriera del condom. A ciò si aggiunga che l’Africa è un continente segnato dalla poligamia, dalla promiscuità e dalla mancanza di igiene: presentare il preservativo come salvezza dall’aids significa proporre una falsa sicurezza, che determina addirittura un incremento della malattia. Infatti se ad un africano abituato ad avere rapporti occasionali, viene spiegato che con il preservativo è al sicuro, cosa farà? Incrementerà i rapporti stessi, o quantomeno non cercherà di evitarli, determinando appunto un aumento della diffusione dell’aids.

Queste considerazioni ovvie non sono solo quelle del papa, bensì anche quelle dell’Uganda, l’unico paese che sta diminuendo notevolmente la diffusione dell’aids tramite il cosiddetto metodo abc: astinenza, fedeltà, condom. Un’ultima considerazione: non è un caso che i paesi africani con un più alto tasso di popolazione cattolica, siano quelli meno colpiti dall’aids: il problema è educativo, occorre insegnare a quei popoli il rispetto dell’unione coniugale, la fedeltà coniugale, che è anche, nel contempo, l’unica via per affermare la dignità della donna, non più ridotta ad oggetto di piacere o a un membro di un harem.

 

Di seguito una resagna stampa curata dall’amico Tommaso.

 La lotta all’AIDS di Riccardo Cascioli

Decenni di esperienza e ricerche sul campo dimostrano una cosa sola: la lotta all’AIDS basata sull’uso del contraccettivo è miseramente fallita. E se le agenzie internazionali non riconosceranno in fretta questa realtà si andrà incontro a tragedie peggiori, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo – Africa in testa – cioè quelli maggiormente colpiti. Ad affermarlo sono diversi studi scientifici, noti da anni ma colpevolmente ignorati dai responsabili delle politiche globali. Non solo i preservativi dimostrano una fallibilità mediamente del 15%, ma diffondere l’idea che il loro uso rappresenti una sicurezza assoluta – come la propaganda internazionale si ostina a fare – incentiva quei comportamenti sessuali responsabili dell’infezione annullando così gli effetti positivi dell’uso del profilattico. In Africa i Paesi dove maggiormente è diffuso il preservativo sono anche quelli dove più alto è il tasso di infezione.

 Se c’è un problema nell’approccio alla prevenzione dell’AIDS, analogo problema lo troviamo anche nella cura: è infatti parziale – e perciò fuorviante – la martellante campagna sul costo dei farmaci. La disponibilità di cure a un prezzo accessibile è un diritto sacrosanto, ma è profondamente sbagliato pensare che basti tale disponibilità per risolvere il problema. La verità è che tali Paesi mancano di infrastrutture – ospedali, ambulatori, personale specializzato – e soprattutto di progetti educativi che puntino sulla “risorsa umana”. Ci sono però anche segnali positivi, sia nella prevenzione sia nella cura, e non a caso partono da una preoccupazione educativa: in Uganda si è registrata la prima inversione di tendenza nella diffusione dell’AIDS grazie a una campagna di prevenzione basata sul cosiddetto metodo ABC, Abstinence (Astinenza), Be faithful (Fedeltà), Condom (Preservativo). Ovvero puntando soprattutto all’astinenza (si è così innalzata tra i giovani l’età del primo rapporto) e alla fedeltà. Citiamo le parole del presidente Museveni pronunciate nel 1992: “…Continuo ad esaltare un ritorno alle nostre collaudate tradizioni che incoraggiavano la fedeltà e condannavano i rapporti prima e al di fuori del matrimonio.

Credo che la miglior risposta alla minaccia dell’AIDS e delle altre malattie sessualmente trasmesse sia riaffermare pubblicamente e con franchezza il rispetto che ogni persona deve al proprio vicino. Bisogna insegnare ai giovani le virtù del’astinenza, dell’autocontrollo, la capacità di sacrificio e di attesa”. Per quanto riguarda la cura, si deve invece guardare alla presenza della Chiesa, ovvero a quella rete di strutture sanitarie nate dall’amore all’uomo che oggi sono lo strumento più efficace nella cura dell’AIDS. Lo ha riconosciuto recentemente anche l’UNAIDS (l’agenzia dell’Onu che si occupa proprio della lotta al’AIDS) invitando i propri funzionari a collaborare e sostenere le strutture cattoliche, e lo ha riconosciuto anche l’amministrazione Bush che dedica una parte considerevole dei suoi investimenti per la lotta all’AIDS nel finanziamento delle organizzazioni religiose (Faith-Based Organizations, FBO). Del resto bastano i numeri a dare un’idea della realtà: le organizzazioni cattoliche rappresentano il 26% delle strutture sanitarie nel mondo. E non è solo una questione di quantità: l’amore alla persona, l’attenzione per i bisogni del malato e di chi gli vive intorno, fanno di queste strutture le più funzionali ed efficaci.

Aids, malattia della povertà

Per combattere efficacemente l’AIDS – così come altre malattie diffuse soprattutto nei Paesi del Terzo Mondo – bisogna combattere la povertà. Vale a dire, la lotta all’AIDS va inserita in una più ampia politica di sviluppo. E’ il senso dell’intervento fatto recentemente al Convegno internazionale del CUAMM (Medici per l’Africa) da monsignor Silvano Tomasi, nunzio apostolico presso le Nazioni Unite di Ginevra. Potrebbe sembrare quasi un’affermazione ovvia, eppure rappresenta una critica di fondo all’attuale indirizzo preso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalle altre agenzie internazionali. Le politiche globali in fatto di lotta all’AIDS si possono infatti riassumere nel motto “Investire nella salute per combattere la povertà”. E’ il concetto espresso, ad esempio, dall’ex direttore dell’OMS Gro Harlem Brundtland che, presentando il “Rapporto 2002 sulle malattie infettive” ha scritto: “I poveri saranno in grado di uscire dalla povertà solo se godranno di una migliore salute”. Si tratta di una verità parziale, perché non riconosce che “l’AIDS è una malattia della povertà”, come dice a SVIPOP Giuliano Rizzardini, primario di malattie infettive a Busto Arsizio e consulente della Santa Sede, con una lunga esperienza in Africa in progetti dell’AVSI (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale) e dell’Istituto Superiore di Sanità. Vuol dire che si entra in una spirale perversa: “La povertà genera AIDS e l’AIDS a sua volta genera povertà”.

Che l’AIDS sia una malattia della povertà potrebbe suonare strano, visto che si tende a sottolineare sempre il rapporto con le classiche categorie a rischio: “Ma è un fatto – dice Rizzardini – che è la povertà a favorire la promiscuità. Anche in Italia, aldilà delle categorie a rischio, l’AIDS colpisce tra i ceti più poveri, e questo è vero a maggior ragione nei Paesi in via di sviluppo. Ad esempio, ho potuto constatare personalmente cosa è accaduto nel Nord Uganda: nel 1986 il tasso di infezioni era dell’1%, poi è scoppiata la guerra ed esattamente un anno dopo il tasso era salito al 12%: nella situazione che si era generata le donne si prostituivano”. La questione dell’approccio nella lotta all’AIDS non è secondaria: riconoscere che l’infezione è figlia della povertà, significa intervenire su una serie di fattori che favoriscono la malattia, che sono economici ma non solo. Ad esempio, concentrarsi sulla disponibilità dei farmaci trascurando la mancanza di strutture sanitarie e di medici, vuol dire andare incontro al fallimento.

Allo stesso modo non si possono ignorare i fattori culturali: per moltissimi – guardiamo ad esempio l’Africa – l’infezione da HIV è ancora uno stigma sociale, andare da un medico o assumere dei farmaci vuol dire esporsi a sicura emarginazione, per le donne c’è il ripudio. Senza considerare che ci sono anche superstizioni da superare, come quella – molto diffusa – per cui fare sesso con una vergine toglie all’uomo l’infezione (e questa è certamente una delle cause di diffusione del’AIDS tra le donne). Ecco perché è necessario investire soprattutto sulla lotta alla povertà in tutti i suoi fattori. E prima arma in questa lotta è l’educazione, ovvero – come afferma ancora Rizzardini – “creare un modello di educazione dentro la loro realtà”. Bisogna conoscere e condividere la realtà di queste popolazioni: se c’è infatti un limite negli interventi internazionali, “è proprio quello di applicare ai Paesi poveri modelli e stili pensati a New York, senza un reale coinvolgimento”. Allora, investire nella sanità diventa nel linguaggio dell’ONU investire nell’invio di preservativi o nei farmaci. Con risvolti addirittura grotteschi: “Una volta – ricorda Rizzardini – ho visto arrivare negli slum di Nairobi partite di preservativi cinesi: essendo universalmente nota la differenza nelle dimensioni tra cinesi e africani, possiamo capire le conseguenze tragiche di questa situazione. E’ l’ennesima dimostrazione di un non riconoscimento della loro realtà”. L’unico investimento che finora ha funzionato è invece quello educativo, cioè “rendere protagonisti del proprio futuro: creare lavoro, insegnare il lavoro. Ma anche scolarizzazione”. E’ ciò che i missionari cristiani fanno da sempre: “Medici presenti sul posto da 30 anni sono credibili per la gente, allora si possono coinvolgere anche i villaggi. Non è un caso – continua Rizzardini – che la Chiesa gestisca circa il 30% della cura dell’AIDS come di altre malattie e che queste siano le strutture più efficaci”. E non è un caso che l’amministrazione Bush, nel dare vita a un Fondo per la lotta all’AIDS abbia deciso di puntare proprio sulle organizzazioni religiose come punta di diamante per frenare l’infezione.

Quando dovremo attendere perché anche l’OMS e compagnia se ne rendano conto? Il preservativo riduce ma non elimina il rischio Il preservativo riduce ma non elimina il rischio. Secondo uno studio pubblicato da Lancet nel gennaio 2000 (Volume 355, numero 9201), il rischio di contrarre il virus Hiv usando i preservativi durante i rapporti sessuali è nell’ordine del 15%. Ciò appare in linea con precedenti studi sull’affidabilità dei profilattici in materia di pianificazione familiare, secondo cui “la probabilità di una gravidanza in un anno in una coppia che usa esclusivamente il profilattico varia tra il 5 e il 30%, con una media del 15%. I fattori che spiegano questo dato sono diversi: anzitutto i cosiddetti “fallimenti tecnici”, ovvero la possibilità di rotture (si considera che si verifichino nell’1,5-8% dei casi) e la degradazione del lattice, direttamente proporzionale all’invecchiamento del profilattico e alle condizioni ambientali (intuibile che portato in tasca in un Paese tropicale, caldo, è soggetto a un processo di degradazione molto più rapido). Più controversa è invece la questione della porosità, ovvero la possibilità che il profilattico sia permeabile ai virus. Anche in questo caso ci sono comunque studi (presentati ad esempio alla V Conferenza Mondiale sull’AIDS svoltasi a Montreal) che dimostrano come in un buon numero di preservativi ci sia una permeabilità a microspore di diametro maggiore dell’HIV (virus 60 volte più piccolo del battere che causa la sifilide e 450 volte più piccolo degli spermatozoi). “C’è pertanto la possibilità che l’HIV presente libero nello sperma possa passare attraverso i pori al partner e per questo motivo alcuni suggeriscono di usare 2 preservativi contemporaneamente”. Altri fattori di inefficacia del profilattico sono poi l’ “uso incorretto” e il “by-pass della barriera”, ovvero la contaminazione prima di metterlo. I problemi della falsa sicurezza. Anche se il profilattico non elimina il rischio, sarebbe ragionevole aspettarsi comunque una riduzione del diffondersi dell’HIV laddove questo viene usato. Ma la realtà dimostra invece che non è così, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo.

In Africa, ad esempio, i Paesi con maggiore diffusione dei preservativi – Zimbabwe, Botswana, Sudafrica e Kenya – sono anche quelli con i tassi di sieropositività più alti al mondo. Gran parte della responsabilità è proprio di chi propaganda il preservativo come “la” soluzione definitiva al problema, inducendo un senso di sicurezza che moltiplica i comportamenti a rischio. E’ un fenomeno noto come “teoria della compensazione del rischio”: ancora sulla rivista “Lancet” è stata fatta a questo proposito una analogia con le cinture di sicurezza per le automobili che – anche loro – non hanno portato i benefici sperati. Se le cinture di sicurezza vengono percepite come un fattore di invulnerabilità i comportamenti a rischio dell’automobilista (alta velocità e infrazioni di vario genere) tendono ad aumentare, compensando così i vantaggi nell’uso delle cinture di sicurezza. Allo stesso modo accade per il preservativo: la sua efficacia è legata a un reale cambiamento dei comportamenti a rischio (astinenza e riduzione dei partner), ma chiunque si azzarda a dare questo messaggio viene immediatamente additato al pubblico disprezzo, aumentando così la diffusione del contagio. Il fattore culturale e sociale. Il preservativo ha finora dimostrato una certa efficacia in specifiche categorie a rischio – persone con partner sieropositivi, donne e uomini coinvolti nell’industria del sesso e così via – e per questo nel mondo occidentale si è avuta in questi anni una tendenza alla stabilizzazione della diffusione dell’AIDS. Ma lo stesso strumento si è mostrato totalmente inadeguato quando a essere colpita dal virus HIV è una popolazione nel suo insieme, come accade nei Paesi in via di Sviluppo. Oltretutto ciò che funziona a New York o a Roma non necessariamente funziona allo stesso modo a Nairobi o Pechino. Le diversità culturali e sociali sono importanti: “Come è pensabile – mi dice un medico missionario – un uso corretto del preservativo in contesti come quelli africani dove la donna non ha neanche il diritto di rifiutare l’atto sessuale, o dove è diffusa la credenza che fare sesso con una vergine faccia sparire l’infezione?”.

L’assurdità della “ricetta del preservativo” la espresse perfettamente il presidente ugandese Museveni nel 1992 a Firenze, durante il Congresso mondiale sull’AIDS: “Così come negli anni ’40 ci era stata offerta la magica soluzione della penicillina, i nostri esperti sanitari ci offrono ora il preservativo e il ‘sesso sicuro’. In paesi come il nostro, dove una madre, spesso, deve camminare 20 miglia per trovare un’aspirina per il suo bambino malato o 5 miglia per trovare un poco d’acqua, la questione pratica di trovare un costante rifornimento di preservativi o di usarli adeguatamente potrebbe non venire mai risolta. Nel frattempo ci viene detto che solo un sottile pezzo di gomma si pone fra noi e la morte di un continente. Ritengo che i preservativi abbiano un ruolo da giocare come mezzo contraccettivo, specialmente in coppie HIV positive, ma non possono essere il mezzo principale per contenere e arrestare il corso dell’AIDS…”.

 

 AIDS: LA MAGGIORE MINACCIA PER L’AFRICA DAI TEMPI DEL TRAFFICO DEGLI SCHIAVI di MICHAEL F. CZERNY S.I.(*) 

La salute intesa nel suo senso più pieno, secondo Giovanni Paolo II, «allude anche a una situazione di armonia dell’essere umano con se stesso e con il mondo che lo circonda. Ora è proprio questa visione che l’Africa esprime in modo assai ricco nella sua tradizione culturale, come testimoniano le tante manifestazioni artistiche, sia civili sia religiose, piene di senso gioioso, di ritmo e di musicalità. Purtroppo, però, quest’armonia è oggi fortemente turbata. Tante malattie devastano il continente, e fra tutte in particolare il flagello dell’Aids, “che semina dolore e morte in numerose zone dell’Africa”»(1). Il compianto Santo Padre mette in evidenza nello stesso tempo, in modo sorprendentemente chiaro, la dura realtà di una crisi di natura medica e un profondo rispetto per la cultura africana. In realtà, il suo concetto di «salute» esprime evidentemente un’aspirazione ben più alta della nostra solita idea occidentale di benessere fisico individuale, inteso come assenza delle malattie. La salute è, piuttosto, un bene sociale condiviso, e un altro termine per indicarla potrebbe essere «giustizia». In questo articolo cercheremo di mostrare come alla lotta della Chiesa contro l’Aids e a favore della salute siano necessarie, insieme, tre dimensioni della cultura(2)

In primo luogo, ecco alcune statistiche, drammatiche ma realistiche, che danno un quadro della situazione. La popolazione dell’Africa subsahariana è di 862 milioni di persone. Nel 2003, 1.900.000 bambini da 0 a 14 anni erano sieropositivi o avevano contratto l’Aids, e c’erano 12.100.000 orfani dell’Aids (da 0 a 17 anni). Tra adulti e bambini, 24.900.000 erano sieropositivi o malati di Aids, e due anni dopo erano circa 25.800.000. Nel 2003, le donne tra i 15 e i 49 anni sieropositive o malate di Aids erano 13.100.000, e nel 2005 erano 13.500.000. Nel 2003 sono morti di Aids 2.100.000 tra adulti e bambini; 2.400.000 nel 2005. Una percentuale di infezione superiore all’1% costituisce, per definizione, un’epidemia: ora quasi tutti i Paesi della regione subsahariana raggiungono una percentuale ben al di sopra di tale cifra. La percentuale globale dell’infezione per quanto riguarda gli adulti da 15 a 49 anni era del 7,3% nel 2003 e del 7,2% nel 2005(3).

 Malgrado i molti programmi di prevenzione e di cura, le statistiche mostrano che purtroppo l’epidemia continua a diffondersi. Tra il 2000 e il 2020, circa 55 milioni di africani moriranno a causa dell’Aids. In sintesi, la pandemia costituisce la maggiore minaccia per l’Africa dai tempi del traffico degli schiavi. Dietro le statistiche ci sono storie sia di sofferenze indicibili sia di innumerevoli vittorie dello spirito umano: sollecitudine, coraggio, fedeltà, sacrificio. L’Aids è una malattia non solo dei singoli ma di un intero popolo. Giovanni Paolo II spesso sottolineava che essa è anche sintomatica di una «patologia dello spirito»(4).

In altre parole, la pandemia, nella sua estensione e profondità, non solo è una malattia della persona, ma in modo indistinto esprime il profondo malessere dell’Africa. Considerare l’Aids nella sua complessità culturale aiuta ad apprezzare il modo in cui la Chiesa affronta le cause responsabili della pandemia. Il marchio d’infamia e la discriminazione Malattia e vergogna spesso vanno a braccetto. In molte società africane alcune malattie — un esempio su tutti è la lebbra — sono per tradizione considerate ignominiose e impure. I parenti tendono a nascondere il fatto che qualche loro caro ha contratto una tale malattia, spesso fino a quando è troppo tardi(5).

Il virus Hiv, essendo incurabile e trasmesso sessualmente, assume una particolare forza quando diffonde anche la vergogna e il marchio d’infamia. «Nonostante il numero degli infetti dal virus Hiv sia sconvolgente, la vergogna e il marchio d’infamia che vengono associati all’Aids li spingono sempre più a negare il suo impatto sulle loro vite e ad ignorare l’imperativo di modificare il loro comportamento. Si è sentito parlare di persone che hanno tentato il suicidio, prima che il male li portasse via. Essi hanno sofferto più la vergogna che la malattia; hanno avuto più paura della vergogna che della morte; sono morti tutti semplicemente a causa della vergogna piuttosto che dell’Aids vero e proprio»(6).

Alcuni esempi illustrano la sofferenza, l’isolamento e il rifiuto che tale malattia comporta(7). Ad Abidjan, Jacques, che vive con le sue quattro mogli, si ammala con una sintomatologia di febbre, tosse e perdita di peso. Si reca all’ospedale con la moglie più giovane. Dal test risulta che ha la tbc e che è anche sieropositivo. Gli vengono fatte raccomandazioni sul suo stato di sieropositivo e viene incoraggiato a dirlo alle altre mogli. Lui non solo non lo fa, ma continua ad avere con loro rapporti sessuali. Un sieropositivo racconta al suo gruppo di supporto ad Accra: «Le infermiere adoperano due pesi e due misure, e non c’è alcun rispetto per i pazienti sieropositivi. Per loro, se qualcuno lo è, si tratta di una persona che non è più un essere umano». Egli continua a spiegare perché non vuole rendere manifesto il suo stato, affermando che verrebbe sfrattato dal suo appartamento in affitto e gli verrebbe impedito di viaggiare sui trasporti pubblici. A Nairobi, a una religiosa che rivela alla sua comunità di essere sieropositiva vengono dati tazza, piatti, bicchiere e posate personali. Nello Swaziland, il principe Tfohlongwane parla in favore della segregazione dei sieropositivi e dei malati di Aids: «Non si devono tenere le mele marce nello stesso cesto di quelle buone, altrimenti anche esse alla fine si guasteranno». In Nigeria, si dice che un amministratore militare abbia ordinato l’arresto e l’imprigionamento di tutti i malati di Aids nel suo Stato, affermando che tale decisione avrebbe aiutato a impedire il diffondersi del virus Hiv. In Sudafrica la comunità di Gugu Dhlamini ha ucciso una donna soltanto perché aveva reso pubblica la propria sieropositività. Le persone temevano che il fatto che vivesse tra loro avrebbe gettato un marchio d’infamia sull’intera comunità. Il risultato del marchio d’infamia e della discriminazione è una dannosa e distruttiva separazione: i puri dagli impuri, i normali dagli anormali e, sempre, «noi» da «loro». Una volta che le persone sono state separate da ciò che si considera familiare e accettabile, allora le si tratta secondo regole diverse, che invariabilmente significa trattarle male, in modo crudele e disumano.

Poi si dice che «se la sono cercata», mentre in realtà esse costituiscono lo schermo sul quale si proiettano le paure e i problemi irrisolti. Noi puniamo «loro» per quello che non possiamo sopportare in «noi». Gesù rivela la sua sensibilità nei confronti di questo potente sotterfugio culturale nel suo incontro con l’adultera. Oltre ad essere portatore per eccellenza del marchio d’infamia, questo personaggio incarna inoltre l’intera nazione che reca i segni dell’infedeltà religiosa al Patto. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» (Gv 8,7). Che cos’è la «prima pietra»? È il giudizio dal quale deriva il marchio d’infamia, la discriminazione, l’esclusione o la persecuzione di un altro o di gruppi di altri. È un marchio, un segno, un’etichetta. Esso fa anche riferimento a caratteristiche percepite in modo negativo, che pongono individui o gruppi al di fuori del normale contesto civile. Alcuni attribuiscono il marchio d’infamia ad altri e li discriminano; questi ultimi, dal canto loro, lo accettano e si comportano di conseguenza… un circolo vizioso!(8).

Se qualcuno che ci è vicino o che conosciamo dovesse diventare sieropositivo, anche noi saremmo spinti «per buone ragioni» a discriminare, escludere e segnare a dito? Il marchio d’infamia fa parte di quella generale struttura di classificazioni e regole che noi chiamiamo cultura, e, poiché è interpersonale e «non detta», possiede un enorme potere. I vescovi dell’Africa si sono impegnati a «lavorare instancabilmente per cancellare il marchio d’infamia e la discriminazione e ad opporsi a qualsiasi norma e pratica sociale, religiosa, culturale e politica che perpetui tale marchio e tale discriminazione»(9).

 Non è facile identificare le norme e le pratiche distruttive, né distinguere tra ciò che appartiene alla tradizione autentica e ciò che offende la dignità umana, né tanto meno cambiare gli elementi responsabili del marchio senza distruggere inutilmente la cultura tradizionale. Due esempi sono rappresentati dai riti di iniziazione e dall’eredità delle vedove (levirato). I vescovi dell’Africa Orientale «fanno appello a tutti i cristiani e alle persone di buona volontà affinché rispettino la piena dignità e gli eguali diritti di tutti coloro che sono affetti dal virus Hiv e dall’Aids. Ci rivolgiamo ai fedeli cattolici perché siano un luminoso esempio nel rispettare la dignità umana e nel prendersi speciale cura delle persone che sono affette dal virus Hiv e dall’Aids»(10).

Chiunque discrimini e faccia ricorso al marchio d’infamia ha bisogno di essere salvato, e i falsi valori culturali che supportano il marchio e la discriminazione hanno bisogno di essere trasformati. Personalmente, quindi, mettersi di fronte alle proprie paure e ai propri sentimenti più nascosti, alla propria complicità che spinge a usare il marchio contro gli altri, richiede una notevole onestà, e anche la grazia di Dio. Socialmente, combattere i marchi d’infamia comporta una fede profonda, coraggio e sostegno della comunità. E la battaglia, come si vedrà, si combatte meglio indirettamente piuttosto che in modo frontale. Domare il fuoco Un aspetto che non può essere ignorato nella battaglia condotta dalla Chiesa contro l’Hiv e l’Aids è lo scontro di culture, che appare evidente nel modo in cui gli africani e gli occidentali considerano alcune questioni chiave. Ad esempio, in Europa e in America la ragione principale del marchio è la paura della sofferenza e il rifiuto della morte. Al contrario, la cultura africana — e in questo essa è vicina alla fede cristiana — accetta la sofferenza come parte della vita, non è tanto preoccupata della malattia, della sventura, dell’agonia e della morte ed è di grande sostegno nei confronti di coloro che soffrono. Quindi il marchio deriva dalla confusione, dall’ignoranza e dalla vergogna nei confronti della sessualità. Per gli occidentali, è la rivoluzione sessuale degli Anni Sessanta a cui si deve in buona parte l’atteggiamento prevalente nei confronti della sessualità e la definizione di comportamenti e valori che ora sono esportati in tutto il mondo, sotto l’impulso della globalizzazione. È un paradigma incentrato sull’individuo e sulla sua autonomia. In senso positivo, ha permesso alle donne di giocare un ruolo più importante al di fuori delle mura domestiche e nella società, liberandole da alcune strutture patriarcali, che disconoscono le loro peculiarità e impediscono loro di far sentire la propria voce. Ha anche aiutato molti uomini (ma non tutti) ad apprezzare la complementarità della sessualità e a superare l’ideale del macho. Una maggiore apertura nei confronti della sessualità rende anche più agevole discutere delle pratiche sessuali, anche se questo argomento rimane in buona parte tabù nelle società sia moderne sia tradizionali. Non c’è dubbio che buona parte dello sforzo dispiegato dalla Chiesa per combattere l’Aids sia diretto ad aiutare le donne a opporsi agli abusi a cui sono spesso soggette: essere costrette a prostituirsi, venire violentate, dover soggiacere alle richieste sessuali di un coniuge infedele e quindi con la possibilità di essere infette. Ma non si può negare che l’atteggiamento occidentale nei confronti della sessualità abbia un lato oscuro, e la Chiesa è impegnata senza sosta nel porvi rimedio. Secondo la cultura dominante e globalizzata, le persone trovano il loro valore non in ciò che sono, ma in ciò che hanno e che consumano: beni, potere, piacere e prestigio. La felicità e il successo si identificano con un grande consumo. Il mito dominante della cultura della globalizzazione è che il sesso è soltanto un’altra cosa «da avere».

 Il sesso riguarda soltanto il singolo, è una questione di preferenze individuali e di comportamento privato. «La rivoluzione sessuale dell’Occidente [insegna] che le persone […] hanno il diritto di esprimere la propria sessualità come desiderano, basta che le persone coinvolte siano adulti consenzienti e nessuno venga offeso»(11). Da un punto di vista morale è equiparato a bere e mangiare, in quanto si verifica come risposta a un appetito e unicamente per il piacere. Tipico di questa mentalità consumista è il fenomeno della pornografia, la sfacciata mercificazione dell’atto sessuale, che squalifica tutti quelli che vi sono coinvolti. «Noi siamo molto allarmati dalla promozione della pornografia in tutte le sue forme attraverso tutti i tipi di media, che corrompe i bambini e i giovani e contribuisce all’ulteriore diffondersi del virus Hiv e dell’Aids. Noi inoltre deploriamo la liberalizzazione e commercializzazione del sesso per tutti, che è contraria ai valori umani e religiosi del sesso e della sessualità e contribuisce alla promozione di comportamenti sessuali non cristiani e alla distruzione dell’istituzione familiare come essa è esistita da tempo immemorabile»(12).

Questo è il comportamento occidentale. L’esperienza africana è stata molto diversa. «Ci sono tabù che incoraggiano il controllo di sé in materia di sessualità. Alcune tradizioni sono contrarie alle relazioni sessuali durante la gravidanza e l’allattamento e in caso di adulterio. In molti gruppi etnici, la verginità prima del matrimonio è obbligatoria. Invece di considerare tali comportamenti fuori moda, come accade in Occidente, bisognerebbe impegnarsi per studiare il modo di incoraggiare tali pratiche attribuendo valore a questi elementi positivi della cultura africana»(13). Nelle società tradizionali, un certo numero di pratiche aiutava a promuovere un buon comportamento e a mantenere la fedeltà e l’integrità nel matrimonio: ragazze e giovani donne per proteggere la loro verginità, giovani uomini per controllare il loro desiderio sessuale(14). In Africa la fecondità è un valore primario, perché genera la vita, e la castità è un valore in quanto protegge la vita e la qualità della vita, la quale è concepita come un legame diretto tra i vivi e i morti. La sessualità è considerata moralmente neutra e, di per sé, né buona né cattiva. Spesso viene paragonata al fuoco in una casa. Il fuoco può essere domato e usato per cucinare; in caso contrario, può bruciare il tetto e l’intera casa(15).

L’immagine del fuoco è molto calzante e aiuta a capire perché le culture tradizionali, radicate nell’habitat locale, mantengano norme per il comportamento sessuale. «L’Aids ci ha mostrato che in realtà sappiamo ben poco del comportamento sessuale delle persone, e del perché corrano i rischi che corrono malgrado siano a conoscenza e informate dei potenziali pericoli. Inoltre, assistiamo nel nostro Paese a un’altissima percentuale di stupri e abusi sessuali, di bambini come di adulti. Sappiamo che molte persone vengono contagiate a loro insaputa perché costrette a subire rapporti sessuali, ma non tutti sono ignoranti»(16).

 L’ideale cristiano di sessualità è un insieme dinamico di libertà e di responsabilità integrata nella personalità ad ogni stadio della vita. Essa si basa su fede in Dio, rispetto per se stessi, rispetto per l’altro e speranza per il futuro. La morale cattolica, lottando per l’ideale della totale donazione di sé, fungerà da guida per ricevere come dono la sessualità con la quale ognuno è stato creato, per comprenderla nel modo giusto, sia personalmente sia socialmente, riconoscendo la responsabilità che accompagna il proprio potenziale sessuale e per integrare olisticamente questa sessualità ad ogni stadio della vita. Tale accettazione e integrazione vissuta può essere chiamata sessualità autentica, integrale o responsabile, ma il suo nome tradizionale è castità: l’unità interiore vissuta di un essere corporeo e spirituale. Castità significa modulare e ordinare la propria sessualità al servizio dei rapporti e della comunione con gli altri, dell’amore e dell’amicizia. Lo scopo della castità è di rendere ognuno capace di amare nel modo personale specifico di ogni sesso, per essere pronto ad affrontare correttamente il matrimonio, il celibato religioso o lo stato di single. La castità è un compito molto personale che richiede tutta la vita, ma il significato della sessualità va talmente al di là del singolo individuo che la castità comprende anche uno sforzo culturale: «Esiste una interdipendenza tra il miglioramento personale e il progresso della società»(17).

Secondo un teologo africano, «la soluzione autentica, l’unica che può essere duratura e soddisfacente, sta nel cambiamento del comportamento interiore nei confronti della sessualità, senza doverci affidare, in maniera ingenua e magica, a soluzioni tecniche. Questo cambiamento non riguarda soltanto i singoli individui come soggetti morali, ma è importante che l’intera comunità si impegni al suo conseguimento»(18).

I Paesi ricchi hanno criticato duramente la Chiesa africana per non aver distribuito profilattici al fine di risolvere la crisi. Una breve risposta a tali critiche è che la morale cattolica è in realtà più fedele ai valori della cultura africana, la quale non giustifica il «sesso libero» né tratta la sessualità come una merce di consumo. La campagna a favore dei profilattici sa di imperialismo culturale e, in tale frangente, la posizione della Chiesa sarà sempre dalla parte dei poveri. Ma, naturalmente, il problema è molto più complesso, e bisogna ammettere che la Chiesa si trova costretta, ai limiti della sua capacità, a parlare coerentemente e al tempo stesso in modo opportuno alla gente nelle situazioni più diverse. I nostri colleghi laicisti optano per un approccio pragmatico, il più in uso al giorno d’oggi, fondato sul problema della salute pubblica. Dal canto suo, invece, la Chiesa è tenuta a offrire a chi la ascolta un ideale morale e spirituale piuttosto che un approccio puramente pragmatico, e ci sono molte persone che hanno deciso pregiudizialmente, quale che sia la ragione, di ignorare tale messaggio. Se qualcuno ha voltato le spalle all’ideale di responsabilità personale aperto a generare la vita, è credibile che abbia bisogno o che apprezzi il consiglio della Chiesa su come ridurre al minimo le conseguenze portatrici di morte delle sue azioni? Un tale appello alla comune decenza sarà difficilmente ascoltato, e il rischio di apparire di supporto a comportamenti promiscui, oltraggiosi e distruttivi è troppo alto perché la Chiesa possa tollerarlo.

Chiamati alla giustizia e alla pienezza della vita La Chiesa non affronta la pandemia del Hiv e dell’Aids come «un problema da risolvere». Essa piuttosto ascolta la voce del Signore che dice: «Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). Sull’esempio di Gesù, la Chiesa chiama i suoi fedeli all’amore disinteressato e al servizio, e quindi alla vita piena per tutti. In che modo quindi la cultura — il marchio d’infamia e la discriminazione in superficie, la sessualità nel profondo e la giustizia nella società — si pone come sfida ai cattolici africani nell’era dell’Aids? E quale sfida riserva la cultura ai cattolici di altri Paesi perché mostrino una solidarietà ben informata e ben diretta con loro? Toccare i soggetti «marchiati» e gli esclusi. Quando i genitori, i parenti, gli amici e i conoscenti scoprono che un bambino è nato con una grave disabilità fisica e mentale, non sono fortemente tentati di rifiutare, emarginare ed escludere il bambino? E, sin dal primo momento, non esiste il pericolo che al bambino venga fatto sentire il peso della delusione e della vergogna di tutti, a cominciare dai suoi genitori? E non abbiamo sentito storie strazianti di discriminazione contro bambini, adolescenti o adulti disabili, messi al bando e trattati come se non fossero esseri umani autentici? Nella misura in cui questo è vero, può darsi che ci aiuti a capire in parte come l’Hiv/Aids agisca a livello culturale.

E, se siamo in grado di opporci a questa «inevitabile maledizione», in larga misura lo dobbiamo a Jean Vanier, che, per 40 anni, ha aiutato la Chiesa a scoprire che i disabili non solo sono il cuore della comunità, ma hanno un’autentica missione ecclesiale e sociale(19). Vanier non ha operato questa trasformazione denunciando il marchio dei disabili, ma accettandoli, amandoli e ponendoli al centro della comunità. È bene quindi sapere che, per liberarci dal meccanismo del marchio legato all’Hiv/Aids, non basta cambiare i nostri pensieri e le nostre parole. Non è sufficiente neppure in Africa, dove politici, campioni dello sport, star della musica e leader religiosi denunciano l’emarginazione o addirittura dichiarano di essere loro stessi sieropositivi. Infatti, essendo importanti, ricchi e potenti, essi appaiono al sicuro dal pericolo della discriminazione, mentre la gente comune è troppo povera e troppo vulnerabile per godere di tale immunità. Combattere la discriminazione significa stendere le proprie mani, toccare, fare. «Come Gesù si identificò con i sofferenti, noi cristiani siamo oggi chiamati a identificarci con i vulnerabili e i sofferenti di fronte alla grande minaccia dell’Hiv/Aids. Una solidarietà mirata all’amore e alla cura spazzerà via ogni forma di marchio»(20).

 È il tipico modo di operare della Chiesa — dal punto di vista umano, materiale e spirituale — che reca consolazione agli orfani, ai vedovi, ai nonni e alle intere famiglie come ai molti vulnerabili bambini e donne le cui vite sono state devastate a causa della malattia. In altre parole, che include gli esclusi, attira a sé e tocca gli «appestati». Dire un «sì» radicale alla sessualità umana. Affermare la dignità delle persone significa formare la loro moralità, spingerle verso la vita e la libertà. Questo vuol dire avere il coraggio di dire «no» a se stessi e insegnare il «no» agli altri, in nome del «sì» alla vita. Non tutti i bisogni sono legittimi, non tutte le scelte sono sagge, corrette e portatrici di vita. Il cosiddetto «cambiamento di comportamento» è il lodevole tentativo di instillare la responsabilità etica senza invocare Dio o esprimere giudizi morali. La Chiesa promuove la difesa di un comportamento retto nonché il cambiamento di ciò che ha bisogno di essere cambiato, ma ognuno è peccatore, ed essa chiama tutti alla conversione, al pentimento, alla determinazione. La morale cattolica affronta il discorso della sessualità con persone di età differenti, in modo da rendere giustizia a questo grande dono e mistero. Questo perché il tema della morale è al centro della lotta della Chiesa contro l’Aids, della formazione dei seguaci di Cristo e del servizio alle persone in difficoltà. A tale proposito affermano i vescovi africani: «La morale che insegniamo nel nome di Dio cerca di rispettare e affermare la vita umana che deriva il suo valore e la sua dignità dal fatto che è l’inviolabile dono del nostro Padre Celeste, il quale crea ogni essere umano e chiama tutti alla pienezza della vita»(21).

Un insegnamento chiaro ed efficace spesso esige una risposta generosa. Lo scorso anno, a Durban, 72 giovani delegati di undici Paesi africani si sono impegnati pubblicamente a combattere l’Hiv «con l’assunzione di uno stile di vita che promuova un comportamento sano e morale». «Siamo consapevoli che gli stili di vita e le società sono cambiati e possono cambiare in meglio grazie ai nostri sforzi. Perciò, con rinnovato impegno ed energia, noi intendiamo promuovere la vita tramite il rinnovamento della nostra società nel campo del comportamento, come africani che rispondono all’Africa, a cominciare da noi stessi»(22).

 Molti, in Occidente, considererebbero tale aspirazione poco realistica, se non addirittura assurdamente fuori moda. Tuttavia, dal punto di vista di chi si trova in prima linea, tale coraggiosa analisi e tale determinata risoluzione meritano ammirazione e sostegno. In queste pagine è presente più di una critica alla concezione della sessualità occidentale globalizzata, in quanto essa rappresenta la tendenza dominante, mentre le pecche presenti nelle culture e nelle consuetudini africane non sono state prese in considerazione, come, ad esempio, la vulnerabilità di bambini e adolescenti agli abusi, la condizione delle donne, lo status sessuale degli uomini. Tale critica costituisce il compito degli africani in Africa. La morale sessuale cristiana è stata forse sempre controcorrente e lo è oggi in modo nuovo nell’epoca dell’Aids, in cui si oppone ai miti globali della sessualità. Essa, quando è necessario, mette in discussione anche gli africani e le loro culture. In merito alla giustizia distributiva e alla solidarietà generosa. In Occidente spesso molti si domandano perché l’Aids si manifesti in modo così grave in Africa e per quale motivo le statistiche siano peggiori che in qualsiasi altro luogo del mondo. A questa insistente domanda si può rispondere con una sola parola: povertà. Non è una risposta che incontri molto entusiasmo da parte degli occidentali. Eppure i membri poveri ed emarginati della società africana non hanno accesso all’educazione di base, all’informazione relativa all’Hiv e all’Aids, alla cura della salute, al lavoro, al trattamento e al sostegno. Una simile situazione di ingiustizia rende più persone maggiormente vulnerabili alla minaccia dell’Hiv e alle tragiche conseguenze dell’Aids di quanto non accadrebbe se avessero uno standard di vita un po’ più simile a quello occidentale. Quando, nel 2000, il presidente sudafricano Thabo Mbeki ha affermato che la vera causa dell’Aids è la povertà piuttosto che l’Hiv, è stato ampiamente criticato(23).

Ma c’è una buona parte di vero nella sua controversa affermazione, e i vescovi africani hanno identificato e articolato ciò che c’è di valido nella sua intuizione: il virus si sviluppa in modo direttamente proporzionale alla povertà. «La povertà procede di pari passo con l’Hiv e l’Aids. Ci preoccupa che le nostre già fragili economie debbano essere ulteriormente indebolite a causa della perdita di buona parte della forza lavoro specializzata dovuta all’Hiv e all’Aids. La povertà facilita la trasmissione dell’Hiv, rende inaccessibile un trattamento adeguato, accelera la morte dovuta a malattie connesse all’Hiv e moltiplica l’impatto sociale dell’epidemia»(24).

Secondo l’insegnamento sociale cattolico, le strutture di peccato — spesso causa della miseria estrema nelle sue molteplici ramificazioni — forniscono l’ambiente propizio nel quale alligna il peccato individuale. I ministri della Chiesa, nella loro lotta contro l’Aids, hanno bisogno di coordinarsi meglio con ogni sforzo per sradicare la povertà, combattere il male e sostenere lo sviluppo umano: a) essendo certi che ogni uomo, donna o bambino debba soddisfare i suoi bisogni nutrizionali fondamentali; b) procurando un’adeguata cura della salute di base, infrastrutture idonee e veramente accessibili; c) fornendo personale alle cliniche e ai centri per la salute e approvvigionandoli adeguatamente con i farmaci essenziali; d) offrendo a ogni bambino e ad ogni adolescente un’educazione di base di qualità; e) assicurando acqua non inquinata e servizi igienici per tutti; f) aumentando l’occupazione(25). Per combattere l’Aids in maniera responsabile, dobbiamo insegnare il rispetto per il sacro valore della vita e il corretto approccio alla sessualità. Ma fare questo senza considerare le condizioni spesso estremamente difficili in cui vivono le persone in Africa significherebbe insistere sempre sulle buone intenzioni e sul solo potere della volontà, trascurando quelle forze e quelle strutture che opprimono letteralmente i poveri. Allora si cadrebbe nel moralismo senza fare nulla di positivo. Perciò, che li si chiami riduzione della povertà, sviluppo sostenibile, sfide del Millennio o lotta all’Aids, si tratta sempre degli stessi obiettivi: la speranza è che la Chiesa in Occidente sia in grado di seguire la Chiesa in Africa nella lotta per la giustizia e la sconfitta dell’Aids. Conclusione Molti africani sono sieropositivi o malati di Aids e questo costituisce un fardello di sofferenza, una croce, sia per il singolo sia per la famiglia. Quando qualcuno è malato, a volte si tratta soltanto di malattia del corpo, ma in altri casi (spesso?), la malattia esprime anche la profonda angoscia del cuore, della mente, dei rapporti e dell’anima di una persona. In riferimento a quest’ultimo significato, rivolgendosi alla Chiesa in Africa, Giovanni Paolo II indicava l’Hiv/Aids come sintomatico di «una patologia dello spirito»(26). La pandemia è una palese manifestazione delle disfunzioni esistenti a un livello più profondo in Africa e nei rapporti con l’Africa. * * * a) Il marchio e la discriminazione sono reazioni legate all’ignoranza, alla paura, all’insicurezza, non molto diverse da quelle che avrebbe chiunque in qualunque altra parte del mondo fosse minacciato dall’Hiv o da altre forme profondamente disturbanti di insufficienze umane. Il marchio e la discriminazione vanno condannati, ma occorre anche capirne le cause, e si rende perciò necessario un autentico mutamento culturale. b) La sessualità riveste sempre e in ogni luogo una misteriosità importante, e il modo in cui gli africani si appropriano della loro sessualità dovrebbe essere ascoltato e apprezzato, come la Chiesa cerca di fare.

 La minaccia dell’Hiv non cambia la morale della Chiesa — fondata sulle Sacre Scritture e su duemila anni di tradizione —, ma la diffusione del virus rende più pressante per la Chiesa trasmettere e comunicare la propria morale ai fedeli, in particolare ai giovani, e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, condividono i valori cristiani. C’è urgente bisogno di resistere alla cultura globalizzata e di promuovere i valori africani, e non si può non riconoscere che la morale cattolica è un modo importante per raggiungere tali obiettivi. c) Il servizio e la giustizia sociale sono parte integrante della risposta della Chiesa all’Aids. Questo è il motivo per cui la Chiesa, in modo del tutto naturale, unisce al ministero pastorale la cura della salute, l’esercizio della compassione e il sostegno spirituale, la morale personale, l’etica sociale e l’educazione alla prevenzione. Offrire compassione senza considerare le strutture del peccato, o predicare la morale e la prevenzione senza combattere la povertà significa disprezzare la tradizione della Chiesa e negare la sua missione di proclamare il Regno di Dio, nel quale il peccato e la morte sono sconfitti per sempre.

  * Ringrazio p. Damian Howard per molti buoni suggerimenti e l’aiuto editoriale. [Il p. Czerny è direttore della «Rete per l’Aids dei gesuiti africani» (African Jesuit Aids Network – Ajan), fondata nel 2002. La missione dell’Ajan è incoraggiare e aiutare i gesuiti e i loro collaboratori in Africa a dare una risposta reale ed evangelica all’Hiv/Aids, sia nei quasi 30 Paesi dell’Africa subsahariana dove è presente la Compagnia di Gesù, sia a livello internazionale. L’Ajan pubblica un bollettino mensile on line gratuito — AJAN News — in inglese, francese e portoghese, disponibile rivolgendosi all’indirizzo ajanew@jesuits.ca e ha un suo sito web (http://www.jesuitaids.net). L’indirizzo postale è: African Jesuit Aids Network – Box 571- 00606 Nairobi – Kenya (ndr)]. Note 1 Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato (Gmm), n. 2 (11 febbraio 2005), che cita l’Esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Africa, n. 116. 2 «Cultura» significa il modo in cui un gruppo di persone vive, pensa, sente, si organizza, celebra e condivide la vita. Alla base di ogni cultura ci sono sistemi di valori, significati e visioni del mondo che si manifestano attraverso il linguaggio, i gesti, i simboli, i rituali e gli stili (cfr 34a Congregazione Generale della Compagnia di Gesù [1995], Decreto 4, n. 1) 3 I dati relativi alla popolazione sono tratti da New People, n. 91, luglio-agosto 2004. I dati sulla pandemia da UNAIDS, Report on the global HIV/AIDS epidemic, giugno 2004, e da AIDS epidemic update, dicembre 2005. 4 Gmm, n. 3. 5 Cfr A. P. Sarpong, «The Cultural Practices Influencing the Spread of Hiv/Aids», in M. F. Czerny (ed.), AIDS and the Church in Africa: To Shepherd the Church, Family of God in Africa in the Age of Aids, Nairobi, Pauline Publications Africa, 2005. 6 G. Tshikendwa Matadi, De l’absurdité de la souffrance à l’espérance: Une lecture du livre de Job en temps du Vih/Sida, Kinshasa, MediasPaul, 2005, 254. 7 Tutte le storie sono tratte da H. Jackson, AIDS Africa: Continent in Crisis, Zimbabwe, Safaids, 2002, 347. 8 Cfr F. Nubuasah, Stigma and Discrimination, Dakar, ottobre 2003. L’Autore, vicario apostolico di Francistown, cita il «Rapporto sullo studio del marchio d’infamia e della discriminazione» del Governo del Botswana, in M. F. CZERNY (ed.), AIDS and the Church in Africa, cit., 2005. 9 Simposio delle Conferenze Episcopali d’Africa e Madagascar (SECAM), «La Chiesa in Africa di fronte alla pandemia dell’Hiv/Aids», 2003, Action Plan III, 2. 10 Messaggio della quindicesima Assemblea Plenaria dell’AMECEA, Chiamati a essere buoni samaritani, 2005, n. 5, con riferimento a Lc 17,11-19. 11 Cfr E. C. Green, «Aids in Africa, a Betrayal: The one success story is now threatened by U.S. aid bureaucrats», in The Weekly Standard, 31 gennaio 2005. 12 AMECEA 2005, cit., n.14. 13 B. Bujo, «What morality for the problem of Aids in Africa?», in M. CZERNY (ed.), AIDS and the Church in Africa, cit. 14 Cfr T. H. Muzeta, Consecrated Celibacy in the Twenty-First Century: An African Perspective, Dublin, Milltown Institute of Theology and Philosophy, 2003, 12. 15 Cfr ivi, 9 s. 16 A. Munro, In conversation with the Catholic Church: a response to Aids, manoscritto, Sud Africa, 2005. 17 Gaudium et spes, n. 25. 18 B. Bujo, «What morality for the problem of Aids in Africa?», cit. 19 Vanier è il fondatore de L’Arche, comunità di persone disabili e non, che vivono insieme, e di «Fede e Luce», movimento di sostegno alle famiglie con un membro disabile. 20 AMECEA 2005, cit. 21 SECAM 2003, par. II. 22 3rd Inter-Africa Youth Alive Conference held at Saints Hospitality Centre, Durban, 16-21 gennaio 2005. 23 Cfr ivi. 24 SECAM, The Church in Africa in face of the Hiv/Aids Pandemic: «Our prayer is always full of hope», 2003, § 4. 25 M. J. Kelly, «Why is there so much Aids in Zambia?», in Jesuit Centre for Theological Reflection Bulletin, July 2001. 26 Gmm, n. 3. © La Civiltà Cattolica 2006 II 261-274         quaderno 3741

Aids: il preservativo non preserva. Documentazione di una truffa di J.P.M. Lelkens [Da "Studi cattolici" n. 405, novembre 1994]

Nello sconcerto causato dall’imperversare dell’epidemia di Aids i corifei della «libertà sessuale» si aggrappano al preservativo come ultima ancora di salvezza per salvare la loro ideologia dal naufragio. «I preservativi vi augurano buone vacanze», si leggeva quest’estate su parecchi cartelloni pubblicitari giganteggianti negli angoli d’Europa. Allo stesso tempo, con un’insistenza crescente, si ritorce la colpa dell’epidemia su chi, come il Magistero cattolico, non è disposto a raccomandare l’uso di questo mezzo profilattico, la cui diffusione è un’ulteriore spinta verso la degradazione della sessualità. Ma questo articolo del prof. Joannes P.M. Lelkens, emerito di anestesiologia all’Università di Maastricht e attualmente docente di fisiologia all’Istituto «Medo» di Kerkrade (Paesi Bassi) per la famiglia e l’educazione e membro del direttivo della fondazione «Medische Ethiek», mostra il volto sconosciuto di una campagna mondiale che, dietro gli enormi interessi economici in gioco, nasconde gravi limiti scientifici, in conseguenza dei quali il «magico» preservativo si rivelerebbe come la più grande bufala del secolo.

Ci scusiamo con i lettori per la crudezza di certi dettagli, ma, per smontare un mito, a volte non c’è altro mezzo che il nudo realismo. Il governo olandese promuove fin dal 1987 campagne pubblicitarie intese a raccomandare ai giovani il «sesso sicuro», cioè l’uso del preservativo. A prescindere dalla valutazione morale che merita un governo che si comporta così, è legittimo il sospetto che questo rimedio sia piuttosto un veicolo del contagio che un profilattico. Come «sesso sicuro», oggigiorno, s’intendono gli atti sessuali compiuti in modo da impedire che diano luogo alla trasmissione dello Hiv (Human Immunodeficiency Virus), un virus che provoca l’Aids. L’Aids a sua volta non è propriamente una malattia, ma, come dice il nome (Acquired Immune Deficiency Syndrome) una sindrome. La vera malattia è l’infezione da Hiv, di cui l’Aids costituisce lo stadio finale. Chi ne è affetto ne resta per tutta la vita portatore; e risulta sempre più confermato che nella grande maggioranza dei casi questa infezione è mortale (la ricerca attualmente colloca la percentuale di mortalità accertata attorno all’80%). Pertanto i sieropositivi, cioè coloro nel cui sangue un apposito test rivela l’esistenza dello Hiv, anche se non mostrano ancora sintomi della malattia, non si possono dire «portatori sani»: sono «morituri», e rappresentano per giunta un pericolo mortale per i loro partner sessuali.

Adesso che in Olanda, oltre alla Commissione Nazionale Aids, sempre più organizzazioni, alcune addirittura cattoliche, si mettono a far propaganda del preservativo come toccasana per evitare l’infezione da Hiv, è urgente porsi la questione: «Il preservativo perde o non perde? E se perde, che cos’è che lascia o non lascia passare?». Sia chiaro che è una questione di vitale importanza quando ci sono di mezzo malattie veneree come un’infezione da Hiv, contro la quale in dodici anni di ricerca non è stata trovata alcuna terapia, e che, lungi dall’essere un pericolo esciusivo per gli omosessuali, ormai si diffonde rapidamente anche tra gli eterosessuali e fa sempre più vittime tra donne e bambini.  Fino al 1960 il preservativo veniva usato come il più importante anticoncezionale, accanto al «coitus interruptus», ma nel 1960 fu soppiantato dalla «pillola», grazie a una propaganda massiccia che strombazzò a dritta e a manca l’inaffidabilità del preservativo.

 Una propaganda tutt’altro che infondata, dal momento che la letteratura denuncia una probabilità di insuccesso dal 9% al 14%. Il che è come dire che su 100 coppie che per un anno come anticoncezionale usano esciusivamente il preservativo, circa 12 donne rimangono incinte. A proposito di questi «insuccessi», però, bisogna tener conto del fatto che anche senza preservativo la probabilità di contrarre gravidanza non è del 100%, ma dell’89%. Quindi 89 gravidanze su 100 coppie in un anno. Il rapporto 0,12/0,89 (=0,13) indica pertanto una probabilità di insuccesso del 13%, o, in altre parole, un’efficacia dell’87% nella prevenzione della gravidanza per mezzo di preservativi (1). E il 13% è una percentuale di insuccesso molto alta, se si tiene conto del fatto che una donna è feconda soltanto da 3 a 6 giorni al mese (da 36 a 72 giorni all’anno), il che è come dire: dal 10% al 20% del tempo. Per quanto sia difficile immaginarselo, il preservativo è permeabile agli spermatozoi. La «cortina di gomma» Eppure — incredibile ma vero! — negli anni Ottanta, infierendo già l’epidemia di Aids, il preservativo tapino e vilipeso si vide proclamato rimedio per antonomasia contro la diffusione del virus; grazie a lui il sesso da allora in poi poteva dirsi «safe». Grande fu lo stupore e la preoccupazione degli «insiders», perché sapevano bene che il virus dell’Aids e più piccolo degli spermatozoi, e pertanto capace di superare ancor più facilmente la «cortina di gomma».

Ma grande fu pure il sollievo di chi aveva temuto che l’Aids avrebbe messo il punto finale alla conquistata libertà sessuale e che adesso si sentiva dire, addirittura da fonti governative, che i preservativi sono sicuri. Giacché è questo che ci insegnano oggi in Olanda manifesti e spot televisivi: «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente», strategicamente piazzati dalla Fondazione «Affezioni a trasmissione sessuale» (Soa, «Sexueel Overdraagbare Aandoeningen») sovvenzionata dallo Stato. Il messaggio è chiaro: si fa vedere un uorno, impegnato in un atto sessuale, con in mano un pacchetto di preservativi che, stando al testo, dovrebbero offrire una difesa sicura contro la trasmissione dello Hiv. A parte l’offesa che questa pubblicità comporta per alcuni settori della popolazione, viene da domandarsi se con l’illusione di diffondere un consiglio salutare non si stiano sperperando soldi dello Stato in una propaganda dagli effetti micidiali. Nel frattempo in altri Paesi non si dà tanto per scontata la sicurezza dei preservativi. La Federal Drugs Administration (Fda), per esempio, l’ente che negli Stati Uniti controlla i medicinali, nota che il preservativo di gomma può fare qualcosa per prevenire le malattie veneree, ma non elimina il rischio (2).

Il contatto diretto con sperma infetto è la causa principale della trasmissione per via sessuale del virus dell’Aids. In una eiaculazione vengono emessi circa 3,5 millilitri di sperma, e il liquido seminale di un uomo sieropositivo contiene più o meno 100.000 particelle di virus per microlitro (0,001 millilitri). Una caratteristica dei virus è proprio la loro dimensione incredibilmente ridotta. Al microscopio elettronico si è potuto costatare che ii virus Hiv è una pallina del diametro di appena 100 nm (nanometri), cioè 0,1 micron (1 micron = 0,001 mm e 1 nanometro è un miliardesimo di metro). Ciò significa che il diametro della parte più grossa dello spermatozoo, la testa, che è di 3 micron, è trenta volte più grande dello Hiv (3).

 Il che è come dire che, se lo spermatozoo ce la fa a oltrepassare la parete del preservativo, il transito è trenta volte più comodo per il virus. «Sì, però… i preservativi, non vengono testati?». Certo; e in Olanda si continua a pensare — ci credono pure il governo e la Commissione Nazionale Aids — che si possa star sicuri di come vengono controllati prima di essere messi in vendita. Che siano impermeabili — si dice — basterebbe a dimostrarlo il fatto che non lasciano passare nemmeno una molecola d’acqua: «Figuriamoci se passa uno Hiv!». Ma siamo proprio tanto sicuri che i preservativi non presentino pori abbastanza larghi (più di un 0,1 micron) da lasciar passare lo Hiv, e allo stesso tempo abbastanza piccoli da sfuggire al controllo dei test? Per rispondere a questa domanda la bibliografia medica ci aiuta poco. Dobbiamo rivolgerci ai manuali e alle nviste dell’industria della gomma. La permeabilità dei preservativi viene valutata con il cosiddetto «test di permeabilità», noto con la sigla Astm D 3492-89. Questo test è basato sullo standard originale Astm, consistente nella percezione visiva di perdite (gocce d’acqua) su un preservativo appeso e riempito con 300 ml di acqua; altro elemento del test è il metodo, usato dalla Fda, di far rototare il preservativo su carta, in modo da scoprire più facilmente gocce d’acqua fuoriuscite. Se più dello 0,4% (4 per mille) della partita di preservativi esaminata mostra delle perdite, si scarta tutta la partita. È noto l’esito di un esperimento che fu fatto per scoprire se fosse possibile che, nonostante questa prova, piccole perdite passassero inosservate. Furono aperti, con l’aiuto di un microscopio elettronico, dei forellini di 1 micron in preservativi nuovi, di marche diverse, che avevano già superato il test (4).

Di questi preservativi, con forellini dieci voile più grandi dello Hiv, il 90% (!) superò un secondo test, cioè non mostrò alcuna perdita di acqua. In un altro esperimento vennero introdotte, in preservativi che avevano superato il test di permeabilità, microsfere fluorescenti di polistirene del diametro di 0,1 micron, cioè dello stesso diametro dello Hiv (5).

Una volta riempiti, questi preservativi vennero esposti a variazioni fisiologiche di pressione, analoghe a quelle che si verificano durante un coito; dopodiché vennero contate le microsfere fuoriuscite. Risultò che un terzo di questi preservativi, pur testati e approvati, mostrava perdite di liquido di un volume tra gli 0,4 e gli 1,6 nanolitri. Si noti che la quantità di liquido minima percepibile a occhio nudo è di 1 microlitro (1 milionesimo di litro, pari a 1000 nanolitri). Il che è come dire che, se questo microlitro di liquido fosse di sperma di un uomo infetto da Hiv, ben centomila particelle di virus sfuggirebbero alla nostra osservazione. E questa è proprio la quantità media di particelle di virus che presenta per microlitro lo sperma infetto. Supponiamo che un coito duri in media 2 minuti, con un preservativo che perde 1 nanolitro per secondo. Il calcolo (1/1000 x 100.000 x 120) ci dà un prodotto pari a 12.000 virus che attaccano il partner, quando uno solo basta a infettarlo. Se, per ipotesi, un coito durasse 30 minuti arriveremmo a (15 x 12.000 =) 180.000 particelle. Il test elettrico A quanto pare dunque il test di permeabilità in uso per i preservativi non è abbastanza sensibile da rintracciare quei pori minimi che bastano a far passare i virus. L’apertura minima percepibile con il test di permeabilità è tra i 10 e i 12 micron, quindi cento volte piü grande del virus Hiv. Oltre al test di permeabilità ne esiste un altro, anch’esso di uso frequente: è un test elettrico, basato sulle capacità isolanti della gomma. Un preservativo viene infilato su una forma di metallo. Se gli viene avvicinato un elettrodo, dovrebbe passare corrente elettrica per quei punti in cui il preservativo presenta dei fori. Ma soltanto se ci sono aperture di una certa grandezza la resistenza non impedisce che si formi questa corrente; il che è escluso nel caso dei micropori.

Anche questo test non è abbastanza sensibile e non serve quindi a rintracciare fori piccolissimi. Costatato che i test in uso non riescono a scoprire aperture inferiori a 10 micron di larghezza, è importante studiare la natura di questi fori che si possono osservare nei preservativi e vedere se siano difetti inerenti al materiale usato, il latice. I preservativi di latice dell’albero della gomma hanno infatti da lungo tempo soppiantato quelli, piü cari, di intestino animale. È possibile produrli anche in gomma sintetica; ma non accade di frequente, perché la minore elasticità e altre caratteristiche li rendono meno attraenti per il consumatore. La fabbricazione di preservativi di latice di gomma è abbastanza semplice. Si immerge una forma cilindrica di vetro in un serbatoio di latice liquido, che è una sospensione di particelle di gomma con un diametro variabile tra gli 0,1 e i 5 micron. Lo spessore dello strato di gomma che aderisce alla forma è determinato dalle sostanze solide contenute nella soluzione e dal tempo di immersione (generalmente si compiono due immersioni successive). Poi la forma viene tirata fuori e asciugata e vulcanizzata.

La vulcanizzazione è un procedimento chimico durante il quale il latice di gomma, con l’aggiunta di zolfo e additivi minerali in soluzione, viene sottoposto a una temperatura di circa 140 °C per quattro o cinque ore. Da termoplastica la gomma diventa così elastica; la sua capacità di trazione aumenta e migliora la resistenza al calore. Successivamente il materiale viene lisciviato, in modo da eliminare sostanze idrosolubili. Alla fine il preservativo viene sfilato dalla forma. In pratica attualmente abbiamo fabbriche pressoché interamente automatizzate che immergono allo stesso tempo moltissime forme in enormi contenitori pieni di latice. L’integrità strutturale del materiale di latice dipende dalla formazione di una pellicola di particelle di gomma saldate fra loro. Il materiale deve soddisfare a requisiti severissimi, se si vuole che formi una barriera per i virus, che sono incredibilmente piccoli. È possibile che talora la saldatura delle particelle di gomma sia impedita dalla presenza di sostanze idrosolubili, dando luogo, dope la lisciviatura, a strutture capillari. Per quanto l’intenzione dei produttori sia che queste strutture capillari dopo l’asciugatura della pellicola si saldino tra loro, l’osservazione al microscopio elettronico dimostra che di fatto la pellicola continua a presentare, alla fine del processo, una grande quantità di pori.

 Descrivendo questa ricerca in un articolo nella rivista specializzata Rubber World del 1993 (6), C.M. Roland, Capo della sezione «Proprietà dei polimeri» del Naval Research Laboratory di Washington, scrive: «Sulla superficie del preservativo la struttura originale appare al microscopio come un insieme di crateri e pori. I crateri hanno un diametro di circa 15 micron e sono profondi 30 micron. Più importante per la trasmissione dei virus è la scoperta di canali del diametro medio di 5 micron, che trapassano la parete da parte a parte. Ciò significa un collegamento diretto tra l’interno e l’esterno del preservativo attraverso un condotto grande 50 voile il virus». Questa scoperta portö Roland a scrivere una lettera allo Washington Post (7), nella quale raccomandava, come profilassi contro lo Hiv, di usare due preservatiVi, l’uno sopra l’altro.

 La legge di Poisseulle Alla luce della scoperta di questi canali fatta da Roland si può anche capire meglio perché mai questo test di permeabilità non sia affidabile. Infatti il test di permeabilità ha per oggetto il flusso di una certa quantità di liquido che, nel caso del preservativo, scorre attraverso un tubo breve e molto stretto. La legge di Poisseulle dice che la quantità «q» di liquido che fuoriesce è direttamente proporzionale alla quarta potenza del raggio «r» del tubo. Se la differenza di pressione tra le estremità del tubo rimane uguale, come pure la viscosità del liquido e la lunghezza del tubo, è chiaro che se il tubo si restringe (=diminuzione del raggio «r») la sensibilità del test (=la quantità di liquido «q») diminuisce rapidissimamente (alla quarta potenza di «r») in tubetti dalle misure capillari, che cioè raggiungono rapidamente valori minori di 1 microlitro, che e il limite della percepibilità visiva. L’applicazione del test di permeabilità ai preservativi si fonda sulla supposizione erronea che preservativi che non lasciano passare l’acqua — per lo meno non in quantità visibili — impediranno anche il passaggio dello Hiv, dal momento che le molecole d’acqua sono più piccole del virus. Il test di permeabilità, come lo si applica attualmente, riesce a rintracciare soltanto quelle perdite e rotture che sono così grandi che l’acqua fuoriuscitane è visibile a occhio nudo. 

 quanto pare l’hanno già capito i Centers for Disease Control (Cdc) americani, che hanno commissionato all’Università di Atlanta lo studio di un nuovo test per i preservativi. I canaletti individuati nelle pareti di preservativi e guanti di gomma sono vasi capillari; e nel passaggio di liquidi nei vasi capillari non agisce solo la pressione idrostatica, ma anche la tensione superficiale. Se si usano mezzi che riducono questa tensione superficiale, la permeabilità non farà che aumentare. È quello che succede quando i preservativi vengono bagnati con lubrificanti e spermicidi, che spesso sono composti di oli e grassi. Ecco perché alcuni produttori di preservativi raccomandano di usare per questo trattamento solo prodotti a base di acqua. Si sente talora obiettare che il virus Hiv non circola libero nello sperma ma si trattiene nei globuli bianchi (cellule «helper» Cd4); tutto dipenderebbe allora dalla risposta alla questione se queste cellule o linfociti, che sono piü grandi del virus, possano o no oltrepassare la parete del preservativo. La risposta è duplice. In primo luogo è vero che i virus contenuti nello sperma si trovano per lo più, come avviene pure nel sangue, rinchiusi in questi linfociti e non negli spermatozoi; ma solo per un tempo limitato. A un certo momento, infatti, le cellule ospitanti scoppiano e i virus si diffondono nel liquido seminale. In secondo luogo le cellule helper Cd4 sono fatte in modo tale da poter raggiungere qualsiasi punto del corpo, come i globuli rossi. Il loro diametro varia da 5 a 20 micron e possono quindi essere più grandi del diametro dei canaletti individuati in preservativi e guanti. Ma sono deformabili e possono passare pertanto attraverso le ramificazioni più sottili del sistema circolatorio, cioè vasi di diametro tra i 5 e i 10 micron; tali condizioni possono benissimo verificarsi pure nei preservativi. Sara bene tener presente che tutte queste ricerche sono state eseguite su guanti e preservativi di recente fabbricazione, senza tener conto dello scadimento di qualità che sopravviene col passare del tempo.

Per esempio la possibilità di lacerazioni aumenta dal 3,6% per i preservativi nuovi al 18,6% per i preservativi che hanno già un po’ di anni (8), e aumenta pure in ragione dell’aumento della temperatura ambientale; sbaglia pertanto chi pensa di combattere l’Aids in Africa stimolando l’uso del preservativo, dato che in molti Paesi di questo continente funestato dall’epidemia il clima è molto caldo. Com’è la situazione di fatto? Questi risultati di ricerche di laboratorio trovano riscontro nel fallimento della prevenzione dell’Aids? Su questo argomento sono già state pubblicate molte statistiche e segnalate percentuali di insuccesso. Ma la maniera migliore per testare nella realtà la sicurezza offerta dai preservativi è lo studio della frequenza della trasmissione del virus tra coppie eterosessuali Hiv-discordi, cioè le coppie di marito e moglie nelle quali uno solo dei due è sieropositivo. Una probabilità del 30% 

 Una sola ricerca (9) è stata fatta partendo da questo requisito e allo stesso tempo soddisfacendo alle condizioni che la sieropositività fosse stata costatata in base all’esame del sangue (test Elisa e Western Blot) e che i preservativi si usassero regolarmente nel corso di un anno. Furono esclusi dall’esperimento soggetti che si drogavano per via endovenosa e soggetti che avevano subito trasfusioni di sangue. I risultati hanno dimostrato che l’uso del preservativo diminuisce del 69% la probabilità di contrarre l’infezione da Hiv. Ma nei casi in cui entravano in gioco fattori come una notevole gravità delle condizioni del paziente, la pratica del coito anale, l’essere stati affetti da malattie a trasmissione sessuale, rapporti sessuali con un gran numero di partner diversi e l’uso della «spirale», non si poteva piü parlare di una diminuzione significativa del rischio per chi usava i preservativi (10). Quindi il preservativo diminuisce la possibilità di contrarre l’infezione da Hiv, ma non la esciude affatto. Quello che rende particolarmente significativa una tale ricerca, condotta su coppie di marito e moglie Hiv-discordi, è la certezza che due coniugi che sanno chi dei due è sieropositivo, il preservativo lo useranno con regolarità, per evitare che l’altro partner venga infettato. Sara un caso, ma la probabilità di infezione del 30% che risulta da questa ricerca coincide con l’esito della prova anteriormente descritta fatta con le microsfere fluorescenti, in cui la terza parte dei preservativi esaminati risultò permeabile per queste palline delle stesse dimensioni del virus Hiv. Di che sicurezza gode, allora, chi segue il consiglio dello slogan olandese «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente» o obbedisce al più secco e imperativo «Mettitelo!» della campagna pubblicitaria dei nostri vicini belgi? Vediamo un po’ di pareri autorevoli. La Dr. Helen Singer Kaplan, sessuologa e direttrice dello «Human Sexuality Program» del Medical Center della Cornell University di New York, dcrive nel suo libro The Real Truth about Women and Aids (Simon and Schuster, 1987): «Counting on condoms is flirting with death» («Contare sui preservativi è far la corte alla morte»).

La «Rivista Medica Olandese», 135 (1991), n. 41: «La pratica dimostra che c’è un grande bisogno di un mezzo che prevenga tanto lo Hiv quanto la gravidanza. Purtroppo la gente non si è ancora resa ben conto che questo mezzo non può essere il preservativo». In una lettera di un medico del Ministero della Sanità olandese, datata 26 maggio 1993 e indirizzata a un cittadino che aveva manifestato la sua preoccupazione, si legge: «Le norme qualitative in Olanda sono esigenti. Le ricerche effettuate hanno dimostrato che la probabilità di perdite e lacerazioni è tra l’1% e il 13%. Ciò significa che il preservativo diminuisce notevolmente la possibilità di contrarre per via sessuale un’infezione da Hiv». Un fax del 14 giugno 1993 di una fabbrica danese a un importatore olandese dice che i consumatori di preservativi possono aspettarsi nei prossimi anni «uno scadimento di qualità pari al 36%, come conseguenza dell’equiparazione delle direttive di fabbricazione in ambito Cee: i requisiti sono infatti molto meno severi in Paesi come la Spagna, il Portogallo e l’Italia che da noi». Si potrà a questo punto obiettare che l’insuccesso del preservativo nella prevenzione della gravidanza e dell’infezione da Hiv non è dovuto esclusivamente a perdite. Ci sono infatti anche altre cause come le lacerazioni, l’uso sconsiderato, lo sfilamento, ecc. Ma con tutto ciò sarebbe irragionevole prescindere dai risultati delle ricerche sulle perdite dei preservativi, condotte da esperti nel campo della gomma. Tanto più che la pubblicazione delle loro conclusioni è prova della loro obiettività, dal momento che tali risultati non si può certo dire che depongano a favore dei prodotti della loro stessa industria.

Al contrario, voci maliziose insinuano che, pubblicando questi risultati, l’industria della gomma cerchi di mettere le mani avanti per prevenire eventuali richieste di risarcimento di danni da parte di consumatori di preservativi che abbiano contratto l’infezione da Hiv. In netto contrasto con quesste dichiarazioni e pubblicazioni, il Consiglio olandese per la pubblicità (Nederlandse Reclameraad), interpellato da un esposto che sosteneva il carattere mistificatorio e scandaloso dello slogan «Faccio l’amore sicuro o non lo faccio per niente» ha emesso l’11 agosto 1993 una decisione che suona così: «A giudizio del Consiglio la frase “faccio l’amore sicuro” non può essere intesa nel senso assoluto che questa parola ha secondo l’autore dell’esposto e secondo il “Grande vocabolario Van Dale della lingua neerlandese”. La sicurezza assoluta in pratica non esiste. […] Nel contesto in cui viene usata, la parola “sicuro” (“veilig”) non la si può intendere altrimenti che nel senso che un preservativo offre un grado elevato di sicurezza, per cui il pericolo di infezione da virus dell’Aids viene notevolmente ridotto». Ma a prescindere dalla presunzione del Reclameraad di ritenersi piü autorevole del Van Dale come interprete della lingua neerlandese, lo slogan contro cui si è sporto il reclamo, alla luce delle ricerche di cui abbiamo parlato, risulta essere tutt’altro che un consiglio sicuro. Soprattutto per i giovani, che non pare si preoccupino tanto di che cosa ci sia di vero in questa millantata sicurezza, un simile consiglio può essere piuttosto uno stimolo a «provarci» ogni tanto. proprio perché invogliati da questa propaganda del preservativo. Un’infezione da Hiv è tuttora una malattia mortale, ma a chi mette in giro questa pubblicità col finanziamento, in questo caso, del Ministero della Sanità non pare che importi molto di avere cadaveri sulla coscienza. Sarebbe ora che non solo queste persone, ma tutti noi cominciassimo a capire che soltanto il recupero di una visione cristiana della vita e della concezione monogamica della sessualità garantiscono una difesa contro la diffusione dello Hiv. La vera causa delI’Aids sta infatti nella «Acquired “Integrity” Deficiency Syndrome», cioè nella perdita di integrità morale che ci ha regalato l’ideologia della «libertà» sessuale. Chi non arriva a capirlo o fa finta di non vederlo sappia per lo meno che di sicurezza, il preservativo, ne offre tanta quanta il tamburo di un revolver nella roulette russa.

Joannes P.M. Lelkens

 Note (1) J. TRUSSEL – K. KOST, Contraceptive Failure in the United States: a Critical Review of the Literature, in «Studies of Family» 18 (1987), pp. 237-283. (2) FDA, Letter to U.S. Condom Manufacturers, 7 aprile 1987. (3) JOHN HOPKINS UNIVERSITY, «Population Reports», vol. XVIII, n. 3, serie H, n. 8, 1990; «American Journal of Nursing», ottobre 1987, p. 1306. (4) G.B. DAVIS – L.W. SCHROEDER, in «Journal of Testing and Evaluation», 18 (1990) 352. (5) R.F. CAREY e altri, Sexually transmitted Diseases, 19 (1992), p. 230. (6) C.M. ROLAND, The Barrier Performance of Latex Rubber, in «Rubber World», giugno 1993, p. 15. (7) «Washington Post», 39 (1992), 3 luglio, p. 22. (8) M. STEINER e altri, Contracception, 1992. pp. 46,279.  (9) SUSAN C. WELLER, A Meta-Analysis of Condom Effectiveness in reducing sexually transmitted Hiv, in «Soc. Sci. Med.», vol. 36 (1993), n. 12, pp. 1635-1644. (10) EUROPEAN STUDY GROUP, Risk Factors for Male to Female Transmission of Hiv, in «British Medical Journal», 298 (1989), pp.411-415.

 

La cifra della verità

 

di Lucetta Scaraffia

Certamente la cifra della missione di Benedetto XVI è la verità. E lo è per tutto, anche per il problema dell’aids e dei preservativi, un tema scottante che – si poteva facilmente immaginare – sarebbe stato toccato nel corso del suo viaggio in Africa. In mezzo alle polemiche suscitate dalle sue parole, uno dei più prestigiosi quotidiani europei, il britannico "Daily Telegraph", ha avuto il coraggio di scrivere che, sul tema dei preservativi, il Papa ha ragione. "Certo l’aids – si legge nell’articolo – pone il tema della fragilità umana e da questo punto di vista tutti dobbiamo interrogarci su come alleviare le sofferenze. Ma il Papa è chiamato a parlare della verità dell’uomo. È il suo mestiere:  guai se non lo facesse".
Il problema dell’aids si è presentato subito, da quando la malattia si è manifestata negli Stati Uniti nei primi anni Ottanta, non solo dal punto di vista medico, ma anche da quello culturale:  lo scoppio dell’epidemia colse di sorpresa una società che credeva di avere sconfitto tutte le malattie infettive, e fin dall’inizio ha toccato un ambito, quello dei rapporti sessuali, che era appena stato "liberato" dalla rivoluzione appunto sessuale. Con una malattia che metteva in discussione il "progresso" appena raggiunto e che si diffondeva rapidamente grazie anche a quella ondata di cosmopolitismo che si stava realizzando con i nuovi veloci mezzi di trasporto.
Fu subito chiaro che quella patologia era frutto di una modernità avanzata e di una profonda trasformazione dei costumi, e che forse la lotta per prevenirla avrebbe dovuto tenere presente anche tali aspetti. Invece, nel mondo occidentale, le campagne di prevenzione sono state basate esclusivamente sull’uso del preservativo, dando per scontato l’obbligo di non esercitare alcuna interferenza sui comportamenti delle persone. Il "progresso" non si doveva mettere in discussione; neppure in Africa, dove era evidente – e dove tuttora è evidente, se solo si leggessero con onestà i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità sulla diffusione dell’aids – che la distribuzione di preservativi non serve da sola ad arginare l’epidemia.
Il preservativo, in Africa, non è usato nel modo "perfetto" – l’unico che garantisce il 96 per cento di difesa dall’infezione – ma nel modo "tipico", e cioè con un utilizzo non continuato e non appropriato, che offre solo un 87 per cento di difesa, e per di più dà una sicurezza che può essere pericolosa nel mettersi in rapporto con gli altri:  come si sa, l’aids non si trasmette solo attraverso il rapporto sessuale, ma anche per via ematica; basta quindi un’abrasione, un po’ di sangue, per aprire la possibilità di contagio. Bisogna anche ricordare, come è scritto sulle puntigliose istruzioni d’uso delle scatole di preservativi, che questi si possono danneggiare facilmente con il caldo – sono di lattice! – e se vengono toccati con mani non lisce, come quelle di coloro che fanno lavori manuali. Ma le industrie farmaceutiche, tanto precise nel segnalare questi pericoli, sono poi le stesse che appoggiano la leggenda secondo cui la diffusione dei preservativi può salvare la popolazione africana dall’epidemia:  e si può facilmente immaginare che ogni idea per diffonderne l’uso sia accolta con vero giubilo dai loro uffici commerciali.
L’unico Paese dell’Africa che ha ottenuto risultati buoni nella lotta all’epidemia è l’Uganda, con il metodo Abc, in cui A sta per astinenza, B per fedeltà e C per condom, un metodo certo non del tutto aderente alle indicazioni della Chiesa. Persino la rivista "Science" ha riconosciuto nel 2004 che la parte più riuscita del programma è stata il cambiamento di comportamento sessuale, con una riduzione del 60 per cento delle persone che dichiaravano di avere avuto più rapporti sessuali e l’aumento della percentuale dei giovani fra i 15 e i 19 anni che si astenevano dal sesso, tanto da scrivere:  "Questi dati suggeriscono che la riduzione del numero dei partner sessuali e l’astinenza fra i giovani non sposati anziché l’uso del condom sono stati i fattori rilevanti nella riduzione dell’incidenza all’Hiv".
Molti Paesi occidentali non vogliono riconoscere la verità delle parole dette da Benedetto XVI sia per motivi economici – i preservativi costano, mentre l’astinenza e la fedeltà sono ovviamente gratuite – sia perché temono che dare ragione alla Chiesa su un punto centrale del comportamento sessuale possa significare un passo indietro in quella fruizione del sesso puramente edonistica e ricreativa che è considerata un’importante acquisizione della nostra epoca. Il preservativo viene esaltato al di là delle sue effettive capacità di arrestare l’aids perché permette alla modernità di continuare a credere in se stessa e nei suoi principi, e perché sembra ristabilire il controllo della situazione senza cambiare niente. È proprio perché toccano questo punto nevralgico, questa menzogna ideologica, che le parole del Papa sono state tanto criticate. Ma Benedetto XVI, che lo sapeva benissimo, è rimasto fedele alla sua missione, quella di dire la verità.

(©L’Osservatore Romano – 22 marzo 2009)

 

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Autore: Libertà e Persona

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